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consapevolezza

Donne e Uomini, esperienze Aprile 4, 2011

ANIMANGELI

Ancora sugli angeli: posso?

Ultimo album di Lorenzo Jovanotti Cherubini, un pezzo fantastico, “Spingo il tempo al massimo”, che riproduce la vertigine dell’essere partoriti, scaraventati nel mondo dalle spinte della madre: “Oh mammamia oh mammamia/ Madre partoriscimi/ rincomincio a vivere/ Madre partoriscimi/ e comincio a vivere… Torno alle mie origini/ Vibro di vertigini/ Torno alle mie origini/ animali e angeliche”. Bello che un uomo ripassi di lì, dove tutto è cominciato, dal corpo materno che ti custodisce e che al momento giusto è capace di separarsi e di espellerti. Bello che un uomo non voglia dimenticare il posto da cui viene, la madre, poco dopo averla perduta.

E le origini “animali e angeliche”, gli animali un po’ angeli, e gli angeli un po’ animali, e noi ibridi sofferenti, tra gli uni e gli altri. Che cosa sanno loro che noi non sappiamo? O che cosa non sanno che noi invece sappiamo?

Quello che gli animali non sanno è la morte, o quanto meno non la sanno nel modo lancinante in cui la sappiamo noi: è qui la radice della loro innocenza. E’ questo che di loro ci incanta, e ci induce una nostalgia profonda per come eravamo prima di sapere, o anche prima di staccarci dal corpo della madre.

Gli angeli invece la morte la sanno benissimo, ma non gli danno tutta questa importanza. Forse anche loro la sanno come un po’ come la sanno gli animali: è per questo che hanno ali da uccello? Hanno compassione per noi che la temiamo tanto, per questo ci custodiscono e ci guidano, ma continuano anche a dirci, se li si sa ascoltare, che la morte non è poi questa gran cosa. Che c’è ben altro. Che dobbiamo essere fiduciosi.

E noi lì in mezzo, costretti a sapere, trafitti dalla paura e dal dolore. Proprio per questo abbiamo bisogno di regole, di un contenimento che fermi la deriva, di un “no” che produca la carenza e dia avvio al desiderio. Quel desiderio che è l’unico scheletro che abbiamo, che impedisce che finiamo dritti nel gorgo irresistibile dell’autodistruzione.

Leggo nel bel libro del lacaniano Massimo RecalcatiCosa resta del padre?” (Raffaello Cortina): “La clinica psicoanalitica mostra che senza l’esperienza del limite, l’esperienza stessa del desiderio viene fatalmente aspirata verso un godimento di morte”.  Si può arrivare a questa consapevolezza anche ascoltando una canzone.

E’ per questo che con i fondamentali, con il corpo della madre, con il “no” del padre, non è proprio il caso di scherzare.

AMARE GLI ALTRI, Corpo-anima, esperienze Novembre 13, 2010

ENERGIA PURA

Marina Abramovic The Artist Is Present Moma NY 2010

Vi capita mai, sentendo qualcuno che dice qualcosa, di restarne folgorati ed esultare: “E’ proprio quello che avrei voluto dire io”? Mi è successo di recente leggendo su “Repubblica” un’intervista alla straordinaria artista Marina Abramovic: “Credo che l’arte giungerà al punto in cui non ci saranno più oggetti, né quadri né sculture” ha detto. “Ci sarà soltanto una propagazione di energia”.

Lo scambio di energia è sempre stato al centro di tutte le sue performance, ma via via le mediazioni materiali si vanno riducendo. Ormai non le serve quasi più nulla. In una delle sue ultime opere, la primavera scorsa al Moma di New York (The Artist Is Present), Abramovic stava semplicemente seduta a un tavolo, immobile. Chiunque poteva sedersi di fronte a lei, sguardo nello sguardo, e per tutto il tempo che desiderava. Una corrente formidabile, prodotta semplicemente dalla sua disponibilità umana.

Questa è arte, perché offre un senso immediato per la vita. A me, solo a sentirne parlare –non sono stata a NY, ma a pensarci bene forse non mi sarei seduta lì, non avrei mai avuto il coraggio di un’emozione così nuda e intensa- dice qualcosa di decisivo. Cioè che il nostro essere è pura luce momentaneamente opacizzata dall’illusione della materia –il corpo-, a cui sovrapponiamo altri strati e strati: le cose, che non ci bastano mai. Le cose che produciamo e ci procacciamo, sempre di più, estensioni e protesi corporee, per trattenerci in quella illusione materica destinata fatalmente a finire.

Tutto questo mi provoca un’infinita compassione per noi stessi. E la certezza che il movimento dovrebbe essere uguale e contrario, come indicato da Abramovic: spogliarsi, liberarsi, abbandonare le zavorre, perdere per strada i nostri pezzi, essere fin da vivi il più possibile quell’energia sottile, quella sostanza di sogno, la pura luce che siamo. Tuffarsi nel suo flusso. Questo lo sanno fare solo i santi, i mistici e quelli che, appunto, chiamiamo illuminati, i quali arrivano a fare a meno perfino delle parole.

Ma ovunque, anche tra noi non-santi, vedo segni del mainstream: il diffuso desiderio di consapevolezza; il ritorno agli elementi, a materiali essenziali, come appena formati; la comunicazione veloce, semplice e incorporea del web, così vicina al puro pensiero.

pubblicato su Io donna – Corriere della Sera il 13 novembre 2010

Corpo-anima Giugno 7, 2010

MENTE IMBROGLIONA

1210872753depressione

Meglio un tumore, dovendo scegliere, piuttosto che la depressione: secondo Onda, Osservatorio nazionale sulla salute femminile, lo pensa una donna italiana su due. Il tumore puoi provare a curarlo. Con la depressione non vivi più.
La cosa ha una sua pazzesca oggettività. Nel giro di una ventina d’anni -proiezioni Oms- in cima alle emergenze sanitarie ci sarà la depressione, non il cancro. 12 uomini su 100 e 20 donne su 100 sperimenteranno almeno un episodio di male maggiore, che ti inchioda a letto. Un dolore che non sai spiegare e vivi “clandestinamente” e colpevolmente. Su e giù, dentro e fuori, secondo una logica misteriosa: “Ieri stavo bene: che cosa mi è successo, oggi?”.
Quello che è successo ad Alice, che si rigira nel letto, i pensieri che la ossessionano come un disco rotto, è un’ordinaria rogna in ufficio. Una stramaledetta riunione andata storta. Tutto qui. Ora i muscoli le dolgono, si trascina a fatica. I pensieri sempre più neri: ricomincerà a ingozzarsi di cibo, resterà senza lavoro, i figli saranno allo sbando. Tutto andrà male. Una spirale che la avviluppa e la tira giù. La prima volta è stata cinque anni prima, quando il suo matrimonio è finito. Gli antidepressivi l’hanno rimessa in sesto. Ma quando li sospendi prima o poi ci ricaschi. Sempre lo stesso schema: una piccola, occasionale infelicità che risveglia quella grande. E rieccoti all’inferno.
Raccontando il caso di Alice, gli psichiatri americani Jon Kabat-Zinn, Zindel Segal e i loro colleghi inglesi Mark Williams e John Teasdale, autori di “Ritrovare la serenità-Come superare la depressione attraverso la consapevolezza” (RaffaelloCortina), spiegano che ciò che scatena la depressione non è quel piccolo malumore passeggero, ma il modo in cui vi reagiamo. Per liberarci del cattivo sentimento ci divincoliamo. Gli dichiariamo guerra, per la paura che ci trascini nel gorgo. Ma più ci agitiamo e più ci impantaniamo. “La cosa a cui opponiamo resistenza persiste”. E’ proprio questa lotta ad alimentare la cascata dei pensieri “tossici”, e a far lievitare l’angoscia. Ed è qui, in questa fase iniziale, che si deve intervenire, cambiando strategia. La nuova strada è quella della “mindfullness”: consapevolezza, piena presenza mentale, risorsa di cui tutti siamo dotati ma che non sfruttiamo a sufficienza. Si tratta di imparare a vedere le emozioni per quello che sono: “messaggeri” che passano e vanno rapidamente. Se le trattiamo come nemici, se ingaggiamo la battaglia, rimarremo intrappolati proprio nell’umore che stiamo cercando di sconfiggere.
Esempio: è una bella giornata di sole, state passeggiando in riva al mare. Eppure qualcosa che non va. Non vi sentite felici. “Dovresti esserlo”, ammonisce la mente critica. Risultato: state peggio di prima. Si innesca il micidiale processo di ruminazione: “perché non sto bene?”, “che cosa mi sta capitando?”. E la ruminazione è il tappeto rosso della depressione. Ma un’alternativa al pensiero critico esiste, ed è appunto la mindfullness, la consapevolezza.
Daccapo. State passeggiando in riva al mare e non vi sentite perfettamente felici: ma stavolta non lottate contro questa inspiegabile infelicità. La mente consapevole non le resiste, non la giudica, le va incontro, la accoglie per quello che è, un evento mentale temporaneo, una nube passeggera che attraversa rapidamente il cielo. La osserva e la lascia andare. La ruminazione non parte. Il senso di colpa (“non sono capace di essere felice”) è disinnescato. Al suo posto, pazienza e compassione.
Ma come si fa a essere consapevoli? Come si impara a restare fiduciosamente radicati nel presente, stoppando l’automatismo dai cattivi ricordi e la fuga ansiosa nel futuro?
Il programma proposto da Kabat-Zinn, Segal, Williams e Teasdale –illustrato in un cd allegato al libro- combina pratiche meditative orientali e terapia cognitiva occidentale, e ha dimostrato di saper dimezzare il rischio di ricaduta. Consapevolezza del respiro, primo step: il respiro è l’amico che ci tiene ancorati al qui-e-ora, impedendo alle vecchie abitudini mentali di prendere il sopravvento. La mindfullness può essere anche “in movimento”: camminate consapevoli, Tai Chi, Hatha Yoga, con un coinvolgimento più immediato del corpo, perché la depressione è un’esperienza anche fisica. Contratture, rigidità, dolore, stanchezza che nascono delle reazioni di lotta e/o fuga indotte dalla sofferenza interiore. Lavorare con consapevolezza sul fisico –scansione del corpo– libera i pensieri tossici intrappolati nelle ossa e “abbassa il volume del chiacchiericcio mentale”. Via via si può imparare a essere consapevoli per gran parte della giornata, nel corso delle più semplici attività quotidiane: quando facciamo il bucato, cuciniamo o innaffiamo le piante, la pratica che coincide con la vita, il senso confortante di essere “a casa”.
La depressione può anche essere letta come un grave errore di interpretazione. Kabat-Zinn, Segal, Williams e Teasdale fanno l’esempio di un ragazzino, figlio di separati. E’ mercoledì e papà lo andrà a prendere a scuola. Il ragazzo è felice: staranno insieme, andranno a comprare nuove scarpe da ginnastica. Ma fuori da scuola papà non c’è. Passano dieci minuti, mezz’ora, un’ora. Il ragazzino torna a casa avvilito. Parte la ruminazione: papà si è dimenticato di lui, non lo ama abbastanza. Si sente solo, senza amici. La sua vita è triste. A casa e accende la tv. Ma quel programma va in onda il martedì! Papà non si è affatto dimenticato. Semplicemente, non era il giorno giusto. L’interpretazione del ragazzo era sbagliata. Il suo dolore però era vero.
Può capitare così anche nella depressione. Prendiamo i cattivi pensieri –le interpretazioni- come cattivi fatti, e ci lasciamo travolgere. Ma i pensieri non sono reali. Sono solo evanescenti oggetti mentali. Nuvole che passano e vanno. Un po’ di allenamento e impareremo a riconoscerli, ad accoglierli e a lasciarli andare, così come sono venuti. La serenità si può apprendere.

pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 6 giugno 2010

esperienze Giugno 21, 2009

STARE QUI

Ci sono molti modi per classificare noi esseri umani. Uno dei tanti è questo: gli umani che vivono nel passato, e quelli protesi verso il futuro; quelli di oriente e quelli di occidente; quelli che ruminano i ricordi, abbarbicati all’irripetibile che è stato e incapaci di gioire di ciò che è, e quelli che si sentono vivi solo proiettando se stessi nel subito-dopo, costantemente dislocati in un maniacale “poi” dove tutto quello che oggi manca finalmente sarà.
Preferisco i secondi, a dire il vero, se non altro perché appartengo a questa categoria di inquieti cronici e fattivi, e li capisco meglio. Ho pena per loro e per me stessa perché so benissimo che le meraviglie del domani, salvo poche eccezioni, si depotenzieranno nelle carenze di un nuovo oggi, con nuova inutile fuga in avanti -o nel falso buon-presente del cibo, delle droghe e altro-.
Nella mia vita imparo sempre cose nuove, sono un’apprendista permanente e la considero una fortuna. Ma questa cosa no, non riesco proprio a impararla una volta per tutte, è difficilissima. A stare nel presente, intendo, anche se so che è l’unica possibile location del Regno dei cieli e di tutti i bei posti di questo tipo. Un presente schiuso al futuro e pieno di possibilità! Riesco a starci un po’, chissà perché, quando sono al sdraiata al sole, a patto che ci sia un po’ di brezza: lì ho questa bizzarra sensazione di un presente pieno. O quando la grande arte mi rapisce; quelle due-tre volte che sono stata innamorata; nell’armonia di buone relazioni umane; quando pratico un intenso lavoro fisico; con mezzo bicchiere –non di più- di buon vino; nella scrittura; o durante una buona lezione di yoga. Situazioni accomunate proprio dal poter stare saldi nel presente, sottratti al tempo, nel godimento estatico, in una fervida quiete.
Innamorati sempre non si può: ma tutto il resto –mezzo bicchiere di vino, arte, buone relazioni, scrittura, lavoro fisico: ora et labora– può essere praticato con regolarità.
La costanza di certe pratiche può insegnare come si fa a stare nel presente scovando sempre quel po’ di buono che c’è. Perfino in quei momenti in cui la vita ti fa proprio male, e allora avresti ragione a voler scappare via. Ma il più delle volte, sapete, non si può…

(pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 20 giugno 2009)

Archivio Luglio 25, 2008

ANCHE IL DOLORE

A proposito del mio ultimo post, sullo stare nel qui e ora. Dice ancora Etty Hillesum, che mi è accanto in questi giorni: “E’ questione di vivere la vita di minuto in minuto e, per di più, accollarsi la sofferenza. E non è certo un piccolo di più in questi giorni” (i giorni sono quelli del luglio 1942, ed Etty è una ragazza ebrea).

Stare nel presente con consapevolezza, voglio dire questo, non è semplice e puro godimento, non è solo beatitudine, secondo una versione semplificata e un po’ edonista: nell’eternità di ciò che è nel momento in cui lo vivo c’è tutto. Anche il dolore. Ma insieme al resto. Un male, quindi, che non è mai assoluto.

Archivio Luglio 25, 2008

QUASI SANTI

Se imparassimo che la vita non ha inizio -è cominciata, a un certo punto, e non è più finita- e quindi non ha fine, e noi siamo parte di questo tutto che fluisce, ne siamo manifestazioni temporaneamente individuate, e il tempo -quindi la fine- riguarda solo i fenomeni che siamo e non questo tutto; e se non permettessimo al pensiero del futuro di sbranare il presente, lasciando che il qui e ora si dilati, sottratto alla tirannica illusione del tempo, fino a somigliare all’eternità di cui è intessuto. Se noi imparassimo queste due cose e le tenessimo entrambe sempre ben presenti, con l’aiuto di quotidiane pratiche di consapevolezza, le nostre vite ne sarebbero drammaticamente mutate, e con esse il mondo. Ma si deve essere quasi santi per arrivare a questo punto, e la santità non è troppo up-to-date.