Marina Abramovic The Artist Is Present Moma NY 2010

Vi capita mai, sentendo qualcuno che dice qualcosa, di restarne folgorati ed esultare: “E’ proprio quello che avrei voluto dire io”? Mi è successo di recente leggendo su “Repubblica” un’intervista alla straordinaria artista Marina Abramovic: “Credo che l’arte giungerà al punto in cui non ci saranno più oggetti, né quadri né sculture” ha detto. “Ci sarà soltanto una propagazione di energia”.

Lo scambio di energia è sempre stato al centro di tutte le sue performance, ma via via le mediazioni materiali si vanno riducendo. Ormai non le serve quasi più nulla. In una delle sue ultime opere, la primavera scorsa al Moma di New York (The Artist Is Present), Abramovic stava semplicemente seduta a un tavolo, immobile. Chiunque poteva sedersi di fronte a lei, sguardo nello sguardo, e per tutto il tempo che desiderava. Una corrente formidabile, prodotta semplicemente dalla sua disponibilità umana.

Questa è arte, perché offre un senso immediato per la vita. A me, solo a sentirne parlare –non sono stata a NY, ma a pensarci bene forse non mi sarei seduta lì, non avrei mai avuto il coraggio di un’emozione così nuda e intensa- dice qualcosa di decisivo. Cioè che il nostro essere è pura luce momentaneamente opacizzata dall’illusione della materia –il corpo-, a cui sovrapponiamo altri strati e strati: le cose, che non ci bastano mai. Le cose che produciamo e ci procacciamo, sempre di più, estensioni e protesi corporee, per trattenerci in quella illusione materica destinata fatalmente a finire.

Tutto questo mi provoca un’infinita compassione per noi stessi. E la certezza che il movimento dovrebbe essere uguale e contrario, come indicato da Abramovic: spogliarsi, liberarsi, abbandonare le zavorre, perdere per strada i nostri pezzi, essere fin da vivi il più possibile quell’energia sottile, quella sostanza di sogno, la pura luce che siamo. Tuffarsi nel suo flusso. Questo lo sanno fare solo i santi, i mistici e quelli che, appunto, chiamiamo illuminati, i quali arrivano a fare a meno perfino delle parole.

Ma ovunque, anche tra noi non-santi, vedo segni del mainstream: il diffuso desiderio di consapevolezza; il ritorno agli elementi, a materiali essenziali, come appena formati; la comunicazione veloce, semplice e incorporea del web, così vicina al puro pensiero.

pubblicato su Io donna – Corriere della Sera il 13 novembre 2010

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