Scrivevo per inciso, nell’ultimo topic, riguardo all’addetta del Tribunale che non ci poteva fare nulla: “il guaio è sempre questo, che tutti ritengono di non poter fare nulla, di essere irresponsabili rispetto al contesto in cui operano, e questo è altamente impolitico. Se ci sentissimo pienamente responsabili rispetto ai contesti in cui viviamo e operiamo, sarebbe una rivoluzione istantanea”.

Ora mi rendo conto che quell’inciso è ben più importante del resto. E’ una cosa che sperimentiamo tutti i giorni, e che la diffusione dei call center ha esasperato: parliamo quasi sempre con esseri umani a responsabilità limitata, con margini di manovra ridottissimi, che ti si presentano ermeticamente isolati dal contesto in cui agiscono, e possono giusto muoversi sulla sua sedia girevole. Dai call center il modello si è ampiamente diffuso nelle relazioni, anch’esse a responsabilità limitata, in cui non si può più confidare e nelle quali non ci si può spingere oltre un certo limite. Legami a scioglimento rapido i cui prevalgono gli opportunismi e l’utile reciproco, in cui non ci si fa mai carico dell’altro nella sua interezza, in cui oggi c’è tutto e domani niente, senza necessità di alcuna spiegazione, nel massimo cinismo.

Credo che il movimento dovrebbe essere inverso. Che dovrebbe essere la pienezza di una relazione responsabile a costituire il modello anche per i rapporti formali e anonimi tra noi e “il pubblico”. Non ho mai dimenticato, in una circostanza dolorosissima per me, il conforto che mi ha dato un anonimo impiegato comunale, capace di un’empatia che travalicava il suo ruolo. Mio padre era morto all’improvviso, e un paio di giorni dopo giravo stordita per gli uffici del comune, servizi funerari, alla ricerca di un loculo dove farlo riposare. Non c’era posto nel cimitero di famiglia, stavano costruendo un nuovo “reparto”, e mio padre aveva avuto l’improvvida idea di andarsene a lavori non ancora ultimati. Ero poco più di una ragazza, il dolore era devastante, di loculi e di faccende del genere non mi ero mai occupata, non sapevo dove sbattere la testa. E questo signore di mezza età, palesemente omosessuale, aveva sentito il mio disorientamento e la mia sofferenza, aveva allungato la mano oltre le scartoffie della scrivania per stringere la mia, aveva balbettato due parole per dirmi che lui era lì, vicino a me, come poteva, e che sperava ardentemente di potermi aiutare. Nessuno lo pagava per fare anche questo, e di gente nelle mie condizioni probabilmente ne vedeva ogni giorno, eppure quell’uomo si era messo in gioco interamente, senza nemmeno immaginare quanto mi stava dando.

La mediazione personale non è solo raccomandazione, mafia o familismo. C’è una parte luminosa di questa nostra scarsa vocazione all’impersonalità, e purtroppo sta andando perduta. Dire “io sono qui, come un essere umano tutto intero, non sopraffatto dal ruolo che ricopro”, è un fatto politico perché produce dei cambiamenti straordinari nei contesti concreti, e quindi nella polis. La legge, le norme e i regolamenti, e i diritti che rappresentano, sostituti spesso imperfetti delle relazioni, possono ben poco contro la forza dell’umanità dispiegata, in grado di spostare le montagne.

Ognuno di noi dovrebbe sempre fare tutto quel che può, e anzi un poco di più, in ogni luogo in cui si trova. E’ quel di più, che trasforma. Le donne hanno saputo spostare il mondo, in questo modo.

Su questo topic mi aspetto il massimo, da voi.

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