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AMARE GLI ALTRI, Donne e Uomini, economics, lavoro Febbraio 24, 2014

Femminicidio Economico

Sconcertante e violenta la fotografia Istat sul nostro “capitale umano” (espressione orripilante e disumana) secondo la quale una donna italiana, dal punto di vista della sua capacità di fare reddito, vale esattamente la metà di un uomo.

La disinvoltura con cui si maneggiano certi criteri di valutazione -maschili- può avere conseguenze catastrofiche sul simbolico, che per l’umano è tutto, e sull’immaginario, in particolare quello dei giovani in formazione, scoraggiando le ragazze e offrendo nuovi spunti alla prevaricazione sessista: perché tanto “tu vali meno di me, precisamente la metà”. O disincentivando le famiglie a investire sulla formazione di una figlia, investimento che renderebbe la metà rispetto quello su un figlio. Ora ci sono anche dei “dati” a dimostrarlo. “Guarda, c’è scritto anche sul giornale”: oggi i titoli sono impressionanti. Uno a caso, Repubblica, pag. 21: “Ricerca-shock sul capitale umano in Italia. Una donna vale la metà di un uomo”

I numeri dicono che nell’arco della sua esistenza un maschio ha una potenzialità media di reddito di 453 mila euro, mentre quella di una donna è di 231 mila euro. Ma -e in questo ma c’è quasi tutto- se si sommasse anche il lavoro domestico e di cura, al capitale umano femminile andrebbero aggiunti altri 431 mila euro, e se la matematica non è un’opinione -secondo me in parte lo è-  231 mila euro + 431 mila euro = 662 mila euro. Ergo: una donna vale 1/3 in più di un uomo. Oppure, a scelta, si può detrarre almeno la metà del reddito prodotto da un uomo, che lo produce in forza del fatto che c’è qualcuna che pensa a tutto “il resto”: cioè alla vita.

Alla vigilia di importanti riforme economiche e del jobsact, è assolutamente necessario rimettere al centro la preziosità del lavoro di cura, quel welfare vivente che continua a essere valutato come marginale e residuale, e senza il quale invece non vi sarebbe alcuna economia, né esistenza tout court.

In alternativa, smettere all’unisono di erogarlo. Così la capiscono.

economics, lavoro, Politica Febbraio 7, 2014

Matteo Renzi non sembra neanche più Matteo Renzi

Ieri Matteo Renzi in direzione Pd ha presentato il suo piano di riforme istituzionali: fine del bicameralismo perfetto, riforma del titolo V, oltre ovviamente alla legge elettorale (qui l’intervento).

Un anno fa, forse anche solo 6 mesi fa, una cosa come l’abolizione del Senato sarebbe stata una mossa ad effetto, in grado di ristabilire la minima per una ripresa di fiducia e di dialogo tra politica e cittadini. Ma oggi non basta più. Se alle riforme istituzionali non si accompagneranno immediate iniziative sul fronte economia e lavoro, la degenerazione civile accoppiata all’emergenza sociale, di cui stiamo vedendo solo i prodromi, produrrà tutti i suoi effetti distruttivi (non mi sentirei di dare torto a Goffredo Bettini).

Ieri in direzione clima rarefatto e surreale: il Nazareno, con la sua bellissima terrazza a elle, sempre più lontano dall’inferno che c’è fuori. La discussione sul #jobsact, il famoso piano sul lavoro, continua a essere rinviata. Calendarizzata per il 20 febbraio, è stata ulteriormente rimandata: il 20 si parlerà di che fare con il governo. Al segretario Renzi conviene portare il Paese al voto (mia opinione: conviene a tutti, per provare a ricominciare con un altro passo), ma si continua a fare melina.

A me conviene votare, ma all’Italia no“, ha twittato il segretario. Io penso che convenga anche all’Italia.

Matteo Renzi ieri non sembrava più nemmeno Matteo Renzi. Come se l’effetto Renzi non facesse più effetto neanche a lui.

I sondaggi di stamattina parlano chiaro: 45 per cento di astensione, M5S in recupero. Evidentemente turpiloqui e sessismi alla gente fanno solo il solletico. Il 2014 -altro che ripresine e ripresette- sarà l’anno più duro, e ce ne stamo già accorgendo tutti.

Sarà il Vaffa Year.

Per favore, donne e uomini della politica: parliamo di lavoro, lavoro, lavoro, lavoro, LAVORO!

Tutto il resto, la riforma del titolo V e così via: ottimo, facciamolo. Ma con la mano sinistra.

 

diritti, economics, Politica Gennaio 28, 2014

Electrolux: guadagnare meno , guadagnare tutti? Ma tanto nemmeno questo gli basta

Lavoratori Electrolux

Gli svedesi di Electrolux vogliono che noi italiani ridimensioniamo le pretese: gli operai polacchi e ungheresi campano con molto meno. Così propongono ai nostri lavoratori di dimezzare gli stipendi (da una media di 1400 a 7-800 €) oltre a una serie di altre misure come blocco dell’anzianità, riduzione delle pause, festività non pagate e così via.

Oltre alla sostanza, drammatica per quei lavoratori, il simbolico è molto forte: l’Italia, dicono in poche parole gli svedesi, deve rassegnarsi a entrare a far parte del club di quei Paesi dove è conveniente delocalizzare perché la mano d’opera costa poco.Per questo la vicenda Electrolux riguarda tutti, e quella battaglia va combattuta insieme.

Tenendo conto anche del fatto che nemmeno questo basterà, né a Electrolux né a tutte quelle aziende che seguiranno questa scia. Dopo aver ridotto a 800, magari pretenderanno di dimezzare a 400, il lavoro notturno gratis e la pipì nel vaso, così risparmi minuti preziosi. A un accordo sindacale oneroso ne seguiranno altri, sempre peggio: la belva del profitto è bulimica, e più mangia più vuole mangiare.

Il risultato è che i ricchi diventano sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri, e non è strano che, come ci dice la Banca d’Italia, il 10 per cento degli italiani possiede quasi la metà (46.6 per cento) della ricchezza totale: da qualche parte i ricchi-sempre-più-ricchi quei soldi li avranno presi, e precisamente da quelli che hanno ridotto in povertà sempre-più-povertà.

Non ha più senso, perciò, alcun ragionamento, alcun jobs act, alcun progetto politico che pretenda di non considerare la sostanza della questione: l’intoccabilità delle ragioni del profitto.

Né ha senso alcun ragionamento che tenga ipocritamente all’orizzonte la piena occupazione e il ritorno all’allegra sarabanda dei consumi, perché non avremo mai l’una e non torneremo mai più all’altra. Al centro va tenuto il diritto, per chi viene al mondo, quanto meno a esistere. All’orizzonte va tenuto un nuovo welfare che preveda un reddito di esistenza e la lotta senza quartiere contro la mostruosità delle disuguaglianze.

E insomma, come dice mia mamma, grande economista: “Dovremmo stare tutti benino”.

ambiente, economics, Politica Gennaio 20, 2014

Liguria che muore: colpa dei liguri o della politica?

 

il treno deragliato nel levante ligure

Guardo con disperazione la Liguria franare in mare, e mi infurio con la politica di destra e di sinistra (moltissimo di sinistra) che ha sfruttato quel territorio fragile e meraviglioso fino a farne fondi di caffè: concessioni di edificabilità su terreni friabili e sulle rive dei fiumi, ville, villette, porti e porticcioli (che deviano le correnti marine), visto i posti barca sono una miniera d’oro, incuria assoluta, enti parco affidati a funzionari di partito totalmente incompetenti e interessati molto più alle prebende che ai parchi, progetti assurdi e faraonici che sono ancora lì sulle scrivanie dei sindaci, molti dei quali non si arrendono neanche di fronte ai morti e continuano a chiamare “sviluppo” la distruzione di ciò che resta, in cambio di oneri di urbanizzazione  e di  tutto il resto: in una parola, palanchi.

Mi lamento su Facebook, e uno commenta: “basta dare la colpa ai politici, la colpa è dei liguri”.

Intanto parlare di “liguri” ha poco senso: ci sono liguri speculatori e liguri perbene. Allora cerchiamo di essere più precisi: la colpa, semmai, è di una parte dei liguri che hanno svenduto il proprio ambito territorio agli odiati foresti, hanno pagato mazzette per ottenere l’edificabilità, hanno commesso abusi edilizi, hanno disboscato selvaggiamente, insomma hanno scelto il tutto-e-subito, poi se domani ti cade in testa una collina vedremo.

I liguri sono anche quel popolo che ha saputo tenerlo su per secoli, quel territorio naturalmente pericolante, lavorandolo pazientemente, fornendogli l’esoscheletro dei muri a secco, oltre che preservando lo scheletro naturale delle piante con le loro radici. Poi, quando i soldi sono diventata l’unica misura per tutti, i contadini hanno abbandonato le terre, e tanti liguri i propri valori antichi.

Ma ammettiamo anche che quell’amico FB abbia ragione, che le colpe prevalenti siano “dei liguri”. I quali, magari, non hanno fatto diversamente dai veneti e dai lucani, solo che il loro territorio è più fragile e più desiderato.

Ebbene, questo non solleva la politica dalle sue gravi colpe. Riconducibili essenzialmente a una: aderire del tutto alla logica dei palanchi, rappresentarla pienamente, sprezzare ogni tentativo di salvaguardia ambientale, abdicare–mi viene da ridere- da ogni compito pedagogico nei confronti della popolazione, che in nessun modo è stata scoraggiata nei suoi intenti speculativi. Anzi: dove c’è stato da mangiare si è mangiato.

E allora: è colpa dei liguri o della politica?

E’ un bel po’ che lo dico a Claudio Burlando, presidente Pd di Regione Liguria: è ora di cambiare musica.

Perché se andiamo avanti così presto non ci sarà più una Liguria, né una musica da suonare.

bambini, Donne e Uomini, economics, lavoro, pubblicità Gennaio 19, 2014

Prima madri e padri. Poi lavoratrici e lavoratori

Nell’attesa che si sciolga il nodo della legge elettorale, speriamo di liberarci dall’impiccio al più presto, vediamo quello che c’è subito dietro l’angolo. E scalpita, perché nessuno di noi può più permettersi di aspettare: la questione lavoro-welfare.

Qui c’è da fare e da dire moltissimo, e ognuno approccerà la cosa dal proprio punto di vista. Io non riesco che a partire dalla vita: dalle esistenze reali, dal cambiamento dell’idea del lavoro e del rapporto lavoro-vita, dalle soluzioni, dagli aggiustamenti e dalle invenzioni prodotte dalle persone reali, intuizioni che dovrebbero essere la materia prima politica con cui quell’altra politica può lavorare (quell’altra politica non inventa mai davvero nulla: quando è buona è perché sa cogliere ciò che sta capitando, rappresentarlo e facilitarlo).

Mi sembra interessante quello che è stato pensato da un gruppo di madri e padri che a Milano si sono incontrati per ragionare insieme e mettere in comune le proprie esperienze. E che tanto per cominciare si qualificano come “madri e padri” e non come lavoratrici-ori anche quando parlano di lavoro e welfare, privilegiando sempre (primum vivere) questo aspetto della loro identità, ciò che dà davvero un senso alla propria esistenza (vale anche per un numero sempre maggiore di uomini). Questa è la prima intuizione: rimettere le cose nel loro giusto ordine.

La seconda è l’assunzione che non solo il lavoro ma anche la percezione del lavoro sono profondamente cambiati: e infatti parlano di “nuovo lavoro“, tenendo in mente le/i venti-trentenni (le madri e i padri) che oggi hanno bisogno di un welfare che tenga presente, oltre alla minoranza dei dipendenti, la grande maggioranza di “autonomi, collaboratori, professionisti e partite Iva, madri a part time, padri con lavori intermittenti etc. etc.. Smantellando cioè un immaginario sul lavoratore che non ha più riscontri nella realtà e cambiando prima di tutto l’immaginario del cambiamento.

La proposta dell‘indennità di maternità universale prende le mosse di qui, da questi cambiamenti nel lavoro e dalla percezione del lavoro, e dall’idea che i figli e la cura non siano più una faccenda esclusiva delle donne: si parla infatti di un welfare per l'”universal caregiver, per chi presta lavoro di cura, preziosissimo e insostituibile, donna o uomo che sia.

Una terza intuizione (la proposta la trovate integralmente qui) è che il welfare non può essere inteso come un modello uguale per tutti, ma deve offrire “libertà di scelta in modo che ciascuna/o possa praticare le proprie “preferenze e strategie personali e familiari”, che cambiano da individua-o a individua-o e nelle varie fasi della vita.

Cerchiamo di non dimenticare mai la vita reale, anche quando parliamo di contratti e di servizi.

Donne e Uomini, economics, italia, lavoro, Politica Gennaio 10, 2014

#JobsAct: i lavoratori sono lavoratrici

Sorprendente che l’Europa, nella persona del commissario al lavoro Ue Laszlo Andor, promuova a tambur battente una bozza di riforma del lavoro – allo stato “un elenco di titoli”, come scrive Tito Boeri- formulata non dal governo di un Paese membro, ma dalla segreteria di un partito di quel Paese. Forse non è mai successo prima. Come se l’Europa preferisse dialogare direttamente con il prossimo titolare -non a quello del 2015, ma verosimilmente già del 2014- che entra in campo a gamba tesa, senza perdere tempo a cincischiare con un governo che, da Cancellieri a Saccomanni a Di Girolamo, fa acqua da tutte le parti.

Insomma, tra la calendarizzazione del dibattito sulla legge elettorale -il 27 gennaio- e l’approvazione Ue, quella di ieri per Matteo Renzi è stata una gran giornata. Sul Jobs Act per ora il dibattito è cauto. La segreteria Pd (in particolare Marianna Madia e Filippo Taddei) è al lavoro sui dettagli, che non sono roba da poco: tipo da dove trarre le risorse per il sussidio universale, che costerebbe dai 20 ai 30 miliardi, nonché per la diminuzione dell’Irap, o come diventare appealing per gli investitori stranieri, che girano al largo per gli alti costi dell’energia, l’eccesso di burocrazia e la giustizia che non funziona.

Ma qualcosa, da non-economista, mi sentirei di dirla, se può servire: sarebbe un’ottima cosa se al centro dell’attenzione riformatrice, anzichè un lavoratore maschio pensato come universale neutro, ci mettessimo una donna, vera grande novità del mondo del lavoro nell’ultimo mezzo secolo. Se poi ci mettessimo come soggetto la coppia madre-bambino/a -la maternità oggi è il primo tra i “diritti negati”- faremmo bingo, e a vantaggio anche delle non-madri e dei maschi.

Sarebbe un criterio metodologico ottimo per tutti. Non che il binomio donne-lavoro sia nuovo: a essere precisi, fino dalla notte dei tempi il lavoro è femminile tout court. La maggior parte di ore-lavoro nel mondo sono sempre state erogate da donne. Insomma, di lavoro le donne se ne intendono più di tutti, ne hanno grande competenza, e oggi questa competenza è molto utile. La novità dell’ultimo mezzo secolo semmai è l’accesso massiccio delle donne al lavoro retribuito: una presenza che ha cambiato e sta cambiando il senso e l’organizzazione del lavoro. Provare a pensare i lavoratori come lavoratrici quindi può dare buone indicazioni per tutti.

Se Matteo Renzi tenesse in mente “Francesca”, a cui si era rivolto durante il dibattito-primarie su Sky per promettergli più asili nido, non sarebbe una cattiva cosa. E Francesca avrebbe da dirgli essenzialmente questo:

Primum Vivere. Partire dalle vite reali per parlare di lavoro. La vita non può più essere intesa come quel poco tempo che resta una volta che sei uscita/o dall’ultima riunione indetta dal capufficio alle 19, che sei corsa/o al super per prendere 6 uova, dalla nonna a raccattare i bambini e via dicendo. Qualità e condizioni di lavoro incidono quanto le garanzie. C’è una flessibilità “buona” a cui non si vuole rinunciare. La riduzione della separazione tra lavoro e vita è la principale domanda che le donne stanno ponendo al mondo del lavoro, per sé e anche per gli uomini. Ben prima del posto fisso, in cima alle aspirazioni c’è una vita degna e non alienata, che comporta la possibilità e probabilmente anche il desiderio di muoversi tra un lavoro e l’altro, tra un posto e l’altro, godendo di adeguata protezione sociale.

Da questa idea femminilizzata del lavoro -e anche dal desiderio di prossimità dei nuovi padri– discende una diversa concezione del welfare e dei servizi, che non possono più essere intesi in modo rigido e fordista -otto ore di nido o nulla- ma chiedono il massimo di flessibilità e di modularità, fino alla personalizzazione. La riduzione del numero dei contratti, insomma, non può coincidere con la riduzione della vita a un modello unico. Flessibilità, smartwork, postazioni in remoto, contributi per uffici condivisi e coworking: tutto questo diminuirebbe anche la quota di servizi necessari, oltre a produrre altri effetti virtuosi, e contribuirebbe alla salute pubblica e alla natalità.

Contribuisco in questo modo alla discussione in corso, anch’io limitandomi per ora a enumerare qualche titolo.

Prevengo l’obiezione scontata-conosco i miei polli-: ma come? tutti questi capricci e queste sofisticherie proprio adesso che c’è la crisi? non ci si dovrebbe accontentare di poter lavorare e sbarcare il lunario, altro che smartwork? Io dico che non c’è mai stato momento migliore per discutere a fondo di lavoro, e non solo di contratti. Prima il pane e poi le rose, prima il quantum e poi il qualis: questi sono solo trompe l’oeil.

Si tratta, come dice l’americana Rebecca Solnit, di cambiare anche l’immaginario del cambiamento.

ambiente, bellezza, economics, lavoro, Politica Gennaio 1, 2014

#2014: aggrappiamoci alla bellezza

Pizzo Calabro, Chiesa rupestre di Piedigrotta

Questa di cui vedete uno scorcio è la Chiesa Rupestre di Pizzo Calabro, scavata nel tufo, affacciata su una piccola baia turchese. Pochissimi la conoscono: varrebbe un viaggio da Oltreoceano. Ci penso continuamente da quando mi ci hanno portata. Pensiero che è fonte di energia e di gioia.

Dappertutto nel nostro Paese, a pochi passi dalle nostre case, abbiamo bellezza e bontà. Mi sono chiesta com’è che è capitato proprio da noi. Com’è avvenuto che un terzo di tutte le bellezze artistiche del pianeta siano state edificate sulla nostra penisola.

Credo che sia andata così: che le bellezze naturali erano tali e tante, così varie e sovrabbondanti, che chiunque sia nato in mezzo a tanto splendore o si sia trovato a passare di qui ha provato a emularle e a gareggiare invidiosamente, arrivando spesso a sfiorare il sublime.

Se noi perdiamo il senso della bellezza, se, per esempio, e come in gran parte è accaduto, ci affidiamo alla misura unica del denaro, perdiamo tutto. Ma se lo riguadagnamo, e siamo in tempo per farlo, ricominceremo a primeggiare.

Qualunque cosa facciamo, di qualunque cosa ci occupiamo, e lo dico in particolare alle amiche e agli amici del Sud, con tutta la sua magia, aggrappiamoci alla bellezza, contempliamola, fidiamoci dell’istinto che ne abbiamo, produciamola, offriamone al mondo.

Nutriamo il pianeta!

Questo è il mio augurio -e il mio manifesto politico- per il 2014.

p.s. Si chiama proprio “La Grande Bellezza” il film di Paolo Sorrentino che sta conquistando le platee di tutto il mondo. E’ un segno, ed è un auspicio. Jep Gambardella torna alle sue radici e si aggrappa alla bellezza per rinascere. E’ quello che dobbiamo fare tutti.

ambiente, economics, Politica Novembre 20, 2013

Bombe d’acqua e montagne di soldi

 

Non leggo mai la cronaca delle catastrofi: ho abbastanza immaginazione per visualizzare la paura, lo strazio, la valanga del dolore umano. Preferisco, in casi come la Sardegna, Genova, le Cinque Terre, la cronaca politica: capire, cioè, se vi siano responsabilità umane, riconducibili unicamente al profitto, in quello che è accaduto, in modo da evitare che accada ancora.

E accadrà ancora. Non si risana in pochi mesi un dissesto idrogeologico procurato in anni e anni di incuria e di speculazioni cementizie. Insieme al cambiamento climatico che ci ha regalato questa bella novità delle bombe d’acqua autunnali e sul quale a questo punto possiamo fare ben poco, la concausa delle catastrofi sono i soldi: disboscare per fare soldi, privando la terra del suo scheletro naturale e rendendola friabile; riservare il denaro pubblico a vistose grandi opere per guadagnare consenso, e quindi soldi, anziché investirlo nella cura umile e indispensabile del territorio, che non si vede e quindi non porta voti e soldi; glassare la terra di cemento, che è impermeabile e agevola lo scorrimento delle bombe d’acqua: speculazioni edilizie, sempre per fare soldi; concedere la possibilità di costruire sempre più vicino agli argini dei fiumi, per rendere quei terreni edificabili e quindi aumentarne il valore commerciale e fare soldi.

Si potrebbe continuare all’infinito, parlando di coste snaturate da porti e porticcioli, e declinando le modalità delle catastrofi annunciate sulla specificità dei territori. Ma la chiave resta quella: fare soldi, occupazione principale della politica di destra e di sinistra negli ultimi decenni.

Il collega Ferruccio Sansa, che è ligure e conosce in particolare il disastro di quella splendida e delicatissima regione dove le montagne si tuffano in mare, e a cui solo il paziente lavoro dei contadini, con i terrazzamenti e i muretti a secco, ha dato la forza di non rovinare in acqua, su “Il Fatto” di oggi parla di “3500 morti in 50 anni. Senza contare i costi: l’alluvione di Genova 2011 ha provocato oltre un miliardo di danni. Mettere in sicurezza il territorio sarebbe costato un quinto. Invece si punta sulle grandi opere: con i 10 miliardi della Mestre-Orte (destra-sinistra-Napolitano) si risanerebbero intere regioni“. 

Faccio un esempio specifico di cui mi sono occupata da vicino: quello della splendida piana di Marinella di Sarzana, ai confini tra Liguria e Toscana -una delle due sole piane della Liguria: l’altra è al capo opposto, ad Albenga-. Località già devastata negli ultimi anni dalle piene anomale del fiume Magra: bombe d’acqua, anche qui, agli estremi della Lunigiana ferita a morte, che sono riuscite addirittura a spezzare in due un ponte, ricostruito soltanto la scorsa estate. Un incredibile masterplan nel 2007 pianificava l’edificazione di un ecomostro senza precedenti: due megadarsene per oltre mille posti barca -molto redditizi- escavate nella piana, core business circondato da un luna park di alberghi, ville, villette, centri commerciali, maxi parcheggi, strutture sportive, addirittura una metropolitana leggera per raggiungere le spiagge, e via devastando (vedere qui). Il problemino da niente, che non ha mai trovato soluzione e ha stoppato l’opera faraonica, è la cosiddetta “risalita del cuneo salino”: in poche parole il rischio che il mare, invadendo le megadarsene, andasse a inquinare le falde acquifere da cui si abbeverano Massa e La Spezia, assetando due intere province.

Ora l’impresa prometeica si è rimessa in moto: firmato un protocollo d’intesa per una ripartenza a razzo tra comuni, Regione Liguria, e Marinella S.p.a., proprietaria del 66 per cento delle aree e composta da Monte dei Paschi e da una serie di coop (tutta roba “rossa” e Pd).

Gli ambientalisti della zona sono in stato di allerta permanente nell’attesa di conoscere i dettagli del progetto -“Marinella come Miami, recitava uno strillo locale- che prende le mosse da quel pazzesco masteplan, e che dovrebbero essere resi noti a dicembre. Intanto propongono in una lettera aperta una valorizzazione del territorio ispirata a criteri di salvaguardia ambientale, paesaggistica e slow.

Stiamo a vedere come va.

Donne e Uomini, economics, italia, lavoro, personaggi Novembre 1, 2013

Chi sono i veri “abortisti”

Il dibattito seguito al mio ultimo post -post che si limitava a dare una notizia sulla giunta di Firenze, verificata e verificabile, e di riportare il  commento di uno dei candidati alla segreteria del Pd, Giuseppe Civati: ho interpellato personalmente anche Gianni Cuperlo, che però evidentemente non ha nulla da dire- è diventato uno scontro feroce  tra “pro-life” e pro-choice, con punte truculente, alla Santorum.

Tra le molte contumelie, mi sono beccata anche della “abortista”. E allora consentitemi di dire quello che penso sulla questione.

Penso che:

1. quando un uomo parla di aborto, di feti e così via c’è sempre da stare all’erta. Addetti ai lavori a parte, gli uomini capiscono poco di aborto, tendono a disinteressarsene, e spesso lo ritengono, “da utilizzatori finali”, una comoda soluzione. Quando l’interesse di un uomo si accende, specie se si tratta di un politico, quasi certamente ci sono voti da raccattare.

2. “Donna abortista” è un ossimoro, perché nessuna donna vorrebbe mai abortire. A molte è capitato, e quando è capitato è sempre stata un’esperienza vissuta con sentimenti che vanno dalla tristezza, al dolore, al trauma e al dramma, secondo la sensibilità e secondo le circostanze. Non ci sono donne abortiste: ci sono donne che hanno abortito, e altre che hanno dato loro una mano perché ciò avvenisse in condizioni di sicurezza. La grande maggioranza delle donne di questo Paese, militanti pro-life comprese, condivide l’auspicio che nessuna debba mai più morire d’aborto. Sperare che le donne muoiano d’aborto -per esempio auspicando l’abrogazione della 194- non è una buona strategia pro-life.

3. La legge 194 ha ottenuto il risultato di ridurre a quasi-zero la mortalità per aborto. E’ una buona legge, apprezzata dalla maggioranza dei cittadini e delle cittadine. Anche in forza di questa legge, il numero degli aborti è diminuito. Purtroppo oggi la 194 è una legge di carta: non essendo riusciti ad abrogarla, la stanno svuotando dall’interno. La legge è sostanzialmente inapplicata* in buona parte del territorio nazionale a causa di un’adesione massiccia all‘obiezione di coscienza da parte di ginecologi e anestesisti. Fare aborti non piace e non conviene a nessuno in termini di carriera, e molte direzioni sanitarie apprezzano e premiano chi obietta. Il diritto all’obiezione non può non essere riconosciuto, ma la legge 194 va applicata come qualunque altra legge dello stato: ormai stiamo tornando al “turismo abortivo” e alla clandestinità. Se ne esce soltanto con l’obbligo da parte delle direzioni sanitarie ospedaliere di assumere una quota garantita di non obiettori che consenta di espletare il servizio imposto dalla legge. Un’altra strada, più complessa, sarebbe la depenalizzazione dell’aborto -è la strada che io  preferirei- ma non ci sono oggi le condizioni politiche per riaprire il dibattito. Non basta, perciò, che un politico dica retoricamente e a costo zero: io sono a favore della 194: questo impegno non significa nulla. Bisogna che dica: farò tutto ciò che serve perché la legge venga applicata.

4. I veri abortisti sono tutti coloro contribuiscano a qualunque titolo alla creazione di condizioni sfavorevoli alla maternità. A cominciare da quei datori di lavoro che costringono le giovani donne a firmare all’atto dell’assunzione dimissioni in bianco, da utilizzarsi in caso di gravidanza, o che le condannano al precariato permanente. Per arrivare alle banche che non concedono mutui per l’acquisto della prima casa, impedendo a molte giovani coppie di costruire un proprio nido. E alla politica che non investe nel welfare e nei servizi, abbandonando le giovani madri al loro destino, che non mette in atto vere politiche per il sostegno familiare -altro che Paese della famiglia: siamo il fanalino di coda in Europa-.  Che non ragiona su una dis-organizzazione del lavoro che consenta di avvicinare tempi di lavoro e tempi di vita. Nella gran parte dei casi, le donne abortiscono perché costrette da condizioni materiali inaggirabili. I veri abortisti sono anche quegli uomini che non condividono i pesi della vita familiare o, peggio, che non si assumono la loro responsabilità contraccettiva e lasciano la donna sola con la sua gravidanza, “tanto c’è l’aborto”. E’ su questi temi, e non manifestando davanti alle cliniche ostetriche o inneggiando ai cimiteri degli aborti, che i “pro-life” devono esercitare la loro volontà politica. Il programma è questo, condivisibile anche dai pro choice.

5. L’aborto non è un tema politicamente marginale. Non lo è mai stato. E non può essere terreno di esercizio del “ma anche”. Non puoi accarezzare il pelo dell’oltranzismo cattolico,”ma anche” sperare nel consenso dell’elettorato femminile. Questo consenso forse l’avrai se le elettrici non saranno state debitamente informate. Ma su un tema così sensibile le posizioni -tutte legittime, s’intende- devono essere chiare e nette. Il presidente Barack Obama sta affrontando il suo secondo mandato anche grazie al sostegno dell’elettorato femminile. E se le donne hanno deciso in maggioranza per Obama, è stato anche per la sua posizione sul tema del’aborto: tema dirimente, come hanno dimostrato le analisi del voto Usa. La questione numero 1 per il 39 per cento delle americane, anche per il suo forte portato simbolico.Perfino più importante del lavoro.

* In Lombardia sceglie l’obiezione di coscienza il 67,8 per cento dei ginecologi. Un dato poco al di sotto della media nazionale, pari al 69,3 per cento di obiezione nel 2010, secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero della Salute. La Lombardia, insomma, non è la regione messa peggio, considerando le punte toccate da Basilicata (85,2 per cento), Campania (83,9), Molise (85,7) e Sicilia (80,6).

 

 

 

 

 

ambiente, economics, Politica Ottobre 25, 2013

“Nobel” per l’alimentazione alle multinazionali Ogm. Vandana Shiva: “Operazione di pr”

La Word Food Prize Foundation ha deciso quest’anno di insignire del “Nobel per l’alimentazione” Robert Fraley, biotecnologo della Monsanto Company, il gigante degli Ogm. Motivazione del premio, “aver contribuito a migliorare e accrescere la disponibilità di cibo nel mondo”.

81 membri della Fondazione si sono ribellati e dissociati, accusando la Word Food Prize Foundation di aver tradito le sue finalità sociali e sostenendo che questa decisione “dà forza a un modello di agricoltura che riduce i contadini in estrema povertà… L’impatto più drammatico si è avuto in India, dove tra il 1995 e il 2012 si sono suicidati 270 mila piccoli agricoltori, strozzati dai debiti per l’obbligo di acquistare semi e pesticidi dalle multinazionali dell’agricoltura”

Insieme a Fraley, è stata premiata Mary-Dell Chilton della società biotech Syngenta, produttrice di pesticidi che intossicano ambiente e colture.

Chiedo a Vandana Shiva di commentare questa incredibile decisione:

Sia Monsanto sia Syngenta” dice Vandana “sono veri giganti della chimica, che partono dalla chimica di guerra. Syngenta nasce dalla fusione di Ciba Geigy, Sandoz, Astra and Zeneca. Oggi è il principale produttore di chimica per l’agricoltura, e sta trasformando la produzione di sementi grazie all’ingegneria genetica e i brevetti. Syngenta è inoltre proprietaria dei brevetti del cosiddetto riso Golden Rice, 7000 volte meno capace di fornire vitamina A rispetto alle alternative “biodiverse”. Il Golden Rice è diventato il cavallo di Troia per favorire la penetrazione degli OGM, data anche la forte resistenza incontrata da altri tipi di piante geneticamente modificate, come quelle resistenti al Round Up e quelle che esprimono la tossina BT. Novartis, che nasce dalla fusione di Ciba Geigy e Sandoz, è una delle più grandi industrie farmaceutiche del mondo. Ha intentato causa all’India per poter brevettare un farmaco generico anticancro già esistente. Il tribunale e l’ufficio brevetti hanno chiarito: un farmaco già esistente non può essere rivendicato come un’invenzione brevettabile… Insomma: queste multinazionali prima provocano il cancro con i pesticidi, poi pretendono di curarlo brevettando e vendendo farmaci antitumorali!”

Perché allora la Word Food Prize Foundation ha preso questa contestatissima decisione?

E’ un segno di disperazione. Un tentativo di riscattare l’immagine di Monsanto e Syngenta. Si tratta semplicemente di un’operazione di pubbliche relazioni”.

Secondo alcune voci Monsanto avrebbe promesso una donazione di 5 milioni di dollari alla Food Prize Foundation…

“Non ne dubito affatto. Questa vicenda è assolutamente paradigmatica, illustra bene il potere economico e politico delle multinazionali, in tutto il mondo e in ogni settore produttivo”.

L’Italia è il Paese della biodiversità: l’esatto contrario delle monocolture Ogm.

“Proprio per questo il vostro Paese deve assumere un ruolo centrale in questa lotta contro le multinazionali degli Ogm: per la sua incredibile biodiversità, per la sua ricchissima cultura del cibo. E anche per indicare una via d’uscita dalla crisi”.

Come si dovrebbe reagire alla decisione del Word Food Prize Foundation?

“Lo spiego qui, e qui. L’imperatore Ogm è nudo! Onore agli eroi che nutrono davvero il pianeta!”.