Una folla oceanica. Come negli anni Sessanta di Martin Luther King contro la segregazione razziale (“I have a dream”). E nei Settanta della guerra in Vietnam. Anzi, di più.

Il 21 gennaio a Washington –e in altre 600 città del pianeta, da Dublino a Bangalore- 2 milioni e mezzo di donne e uomini hanno dato vita alla Women’s March, la più grande manifestazione mai vista al mondo. Eccola di nuovo l’Old America delle lotte per i diritti civili, per la libertà e l’uguaglianza, dove hanno preso il via straordinari movimenti globali, dal pacifismo al femminismo a Occupy Wall Street. Un’America che sembrava estinta dopo la “gelata” Trump.

Una piccola folla mesta -tutti bianchi, un quarto della gente per il debutto di Barack Obama- ha seguito l’inauguration speech del nuovo presidente Usa: un “cupo delirio” (“Il Sole 24ore”) aggressivo, divisivo e demagogico, all’insegna del protezionismo, dell’”America first” e dell’attacco ai diritti a cominciare dall’Obamacare, riforma sanitaria voluta dal presidente uscente.

E immediatamente il giorno dopo, la marea dei 500 mila in marcia a Washington, gente arrivata da ogni parte degli States.

“Noi donne di tutto il mondo siamo sedute su una polveriera, e Trump potrebbe accendere la miccia” ha dichiarato Evvie Harmon, una delle organizzatrici della marcia ideata da Teresa Shook, anziana signora delle Hawaai, in risposta al sessismo di Trump.

La più grande piazza mai vista, voluta e organizzata dalle donne: ecco la straordinaria novità, il salto quantico. Women first.

Centinaia di migliaia di sorelle che hanno ripreso in mano i ferri per confezionare i “pussyhat”, i cappellini rosa in onore del sesso femminile oltraggiato dalle battute machiste del neo-presidente.

“Non torneremo dove lui ci vuole riportare” ha detto una manifestante: limitazioni all’aborto, chiusura dei confini, controriforma sanitaria, cancellazione dei diritti Lgbt.

“Noi donne non separiamo pubblico e privato” dice Lidia Ravera, scrittrice e Assessora alla Cultura del Lazio. “Sappiamo che un pessimo uomo non può essere un buon politico”. E che il machismo dell’“uomo forte” può celare una pericolosa fragilità.

“La rivoluzione parte da qui” ha dichiarato Madonna, tra le tante celeb in marcia: Scarlett Johansson, Charlize Theron, Cher, Julianne Moore, Miley Cyrus, la veterana Jane Fonda. Ashley Judd ha improvvisato un rap: “Sento che c’è Hitler da queste parti, i baffi scambiati con un toupet”. Femministe storiche come Gloria Steinem: “Conosco il popolo e tu, presidente, non fai parte di loro”. Mitiche attiviste per i diritti civili come Angela Davis. Ma anche tanti uomini: il regista Michael Moore, tra i pochi ad aver previsto la vittoria di Trump. Harry Belafonte. Hanno aderito Bob De Niro e Bruce Spingsteen. E tantissimi anonimi che per la prima volta hanno scelto di affidarsi politicamente alle donne, alla loro forza e alla loro sapienza.

“E’ il riconoscimento del fatto che senza le donne oggi non si combina nulla” dice un amico americano. “Sono loro, in testa a tutto”.

Il nuovo è questo: le donne che lottano per tutti, perché “women’s right are human rights”, i diritti delle donne sono i diritti umani.

Come ha scritto Carol Gilligan, pioniera dei Women’s Studies, “il soggetto del femminismo è passato da un noi che significava le donne a un noi che significa l’umano”.

Andrea Vitullo, executive coach e autore di “Maam. La maternità è un master” (Rizzoli) dice che “il passo indietro degli uomini non è rinunciatario. E’ riconoscere che il tuo schema mentale non funziona più. Farti portare dall’onda femminile è liberatorio. E’ accettare una logica relazionale e di cura che supera il modello maschile-reattivo. Al mondo serve questo”.

“Purché tutta questa forza non venga utilizzata per scopi politici angusti” ribatte Lorella Zanardo, autrice di “il corpo delle donne”. “Come il 13 febbraio di Se Non Ora Quando, che fu usato per far cadere il Berlusconi. Che non resti un attacco a Trump, ma si ponga obiettivi più alti”.

Quali orizzonti politici, per questo nuovo femminismo planetario?

Annarosa Buttarelli, autrice di “Sovrane” (Il Saggiatore) e fondatrice della Scuola di Alta Formazione per Donne di Governo, ha in mente un femminismo che sappia porsi come alternativa ai populismi dilaganti in Occidente. Si tratta di “strappare il popolo al populismo”: e chi più delle donne ha maggiore esperienza di quei bisogni umani radicali che cui oggi i populisti ritengono di interpretare?

“La presa di parola autorevole che abbiamo visto a Washington” dice “deve tradursi in agenda politica”.

“We are the people”, la gente siamo noi: il manifesto della Women’s March propone un’intera visione del mondo che va oltre ai tradizionali item del femminismo. Pane, sicurezza, cura, non violenza, lotta alle disuguaglianze, diritti riproduttivi, inclusione dei Lgbt e di tutte le minoranze, tutela delle lavoratrici e dei lavoratori, salario minimo, accoglienza dei migranti e giustizia ambientale. E ricorre al viso di Leila, principessa di “Star Wars”, per indicare la chiave della resistenza: “Woman’s place is in the resistance”.

Non è forse questa, l’essenza della forza femminile? La capacità di resistere, in una quotidiana e amorosa colluttazione con il mondo?

“State difendendo i nostri valori”: Hillary Clinton ha ringraziato le/i manifestanti. Con l’amarezza di non averne saputo convincere abbastanza per vincere.

“Un’altra ce l’avrebbe fatta” dice Lidia Ravera “ma Hillary non era quella giusta. Tante oggi saranno pentite di non averla sostenuta. Ma lei era l’establishment, la casta delle famiglie al potere. E’ stata una dura Segretaria di Stato. Non è come Michelle”.

La quale nei suoi ultimi commossi discorsi ha parlato come una grande politica. Preparata, appassionata, concreta. Una donna, nella sua differenza femminile.

L’hashtag #Michellefor2020 è stato a lungo tra i trending topic di Twitter. Lei ha sempre negato di voler scendere nell’agone. Ma a Washington erano in tante/i a portare il cartello “Michelle2020”. Mrs Obama cambierà idea?

(pubblicato su “F” in edicola oggi).

 

 

 

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