Il mio intervento al convegno femminista “La civiltà è nelle mani delle donne”, che si è tenuto il 18-19 maggio alla Fabbrica del Vapore di Milano. In questo video tutto il panel “Le belle imprese del desiderio” a cui hanno preso parte Alessandra Bocchetti, Adele Nardulli e Monica Ricci Sargentini. 

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Dall’incontro del 1° dicembre alla Casa delle Donne di Roma ho portato a casa un senso di forte desiderio. Il minimo comune denominatore dei nostri desideri è rompere l’attesa infelice ed essere il più possibile noi stesse, evitare che il più delle nostre energie venga speso in difesa con le spalle al muro per contenere i danni della politica maschile. Una ragazza della Comune ha detto: quello che mi interessa è la vita tra una manifestazione e l’altra. Più o meno quello che diceva Mary Daly: «Dobbiamo mirare a qualcosa al di là dell’opposizione». Daly dice anche che il tempo “è adesso”, non c’è un Sole dell’Avvenire.

Questo desiderio compone un patrimonio intatto e lo sanno anche gli uomini. Sul Corriere della Sera Dario Di Vico parla riguardo alle donne di “un potenziale di aspirazioni quasi del tutto integro” e di “una straordinaria riserva”. Lui ne parla in riferimento all’economia e al Pil. Ma più che fare aumentare il Pil, parametro molto problematico, questo desiderio dispiegandosi saprebbe proporre soluzioni a molti problemi: un’altra idea di crescita, di ricchezza e di economia, un’altra idea di politica e di giustizia, del tempo e delle relazioni.

Negli ultimi anni ci siamo messe variamente in rete soprattutto per organizzarci sui vari fronti di contrattacco e credo che stiamo facendo un buon lavoro. Ma il miglior lavoro che possiamo fare è convincerci del fatto che questi sono colpi di coda, che ci troviamo nel corso di un tumultuoso cambio di civiltà che è già qui e ora. Questi colpi arrivano da fantasmi a cui non si deve dare grande credito. Va tenuto l’orizzonte che non è avanti né lontano -anche l’idea di futuro, come quella di Pil, è problematica- ma è qui nelle nostre vite e adesso, appena a lato, ogni volta possiamo essere noi stesse.

Credo quindi che la rete ampia che ci sta tenendo insieme non dovrebbe limitarsi a organizzarci per resistere e combattere.

Oggi tante parlano di efficacia, di escogitare soluzioni per produrre risultati in tempi ragionevoli. Mi pare però che la questione sia malposta. Se c’è una cosa che va riconosciuta al movimento delle donne è la sua efficacia, ha saputo rivoltare il mondo in tempi storicamente molto stretti, senza elette e senza eserciti, quindi direi che più efficaci di così non si può. La parola efficacia apre poi  facilmente la strada a false soluzioni politiciste e non politiche, scariche motorie che fanno persistere un malinteso su ciò che è politico. Il primo riflesso sono liste, elezioni, partiti delle donne. E’ difficile spostarsi di lì. La partecipazione alla politica maschile può essere il desiderio di alcune, una delle tante imprese a cui dare vita, ma non è una mediazione obbligatoria e ha già dimostrato la sua inefficacia. Quella politica in scadenza va tenuta d’occhio ma senza farsi troppe illusioni.

Alcune si sono preoccupate per questa parola che ho voluto usare, “impresa”, che può evocare uno scenario emancipazionista e collaborazionista, le cosiddette “donne in carriera” che ci hanno dato poche soddisfazioni tanto quanto le donne della politica. Io penso l’impresa come ogni volta che il desiderio femminile si dispiega. Imprese profit e no profit, qualunque cosa corra a partire dai desideri delle donne che sono tanti e diversi. Imprese come far nascere, vedere un mondo che prende forma, saltando le mediazioni inutili.

Anche la partecipazione alla politica maschile può essere ripensata come impresa, nel senso di non mettersi in gioco dove le possibilità di farcela sono poche, di non lavorare in perdita e ottenere risultati in tempi ragionevoli. Viceversa la libera impresa può essere già politica perché realizza a un tempo diversi obiettivi: mette alla prova la nostra competenza e il nostro modo di vedere il mondo. E offre soluzioni politiche: perfino al gap tra Nord e Sud, il patrimonio dei desideri ci tiene insieme, il maggior numero di imprese di donne è nato in Sicilia, Lazio, Campania e Lombardia. Anche sul fronte dell’immigrazione nelle pratiche di integrazione quotidiana, l’impresa di una donna può escogitare soluzioni diverse tra i due estremi dell’accoglienza indiscriminata e i porti chiusi.

Le imprese femminili oggi sono più o meno il 25 per cento del totale, e tendono a crescere. Problemi di occupazione e mancanza di servizi spingono le donne a crearsi da sole il lavoro, a organizzare modi tempi e priorità produttive, a rendersi libere dai ricatti come quelli sull’inconciliabilità tra lavoro e maternità.Un paio di settimane fa il New York Times è tornato sul tema dei cosiddetti “lavori avidi”, ovvero la necessità posta dagli uomini, ai livelli dirigenziali ma non solo, di essere disponibili h24, cosa che allontana le donne più di ogni soffitto di cristallo. Forse sapremmo inventarci qualcosa di diverso da questo inferno separato dalla vita.

Per me è stata molto ispirante una giudice americana, Rosemary Aquilina, che ha condannato un medico sportivo per aver usato violenza su quasi 200 giovanissime atlete. Ma la cosa più importante che ha fatto è stata incoraggiare le ragazze a distrarsi dalle violenze per tornare nel mondo a fare le loro “cose meravigliose”. L’ho preso come un vero programma politico per tutte: non lasciarsi ipnotizzare dalla scena delle violenze e delle ingiustizie e mettere il più delle nostre energie nelle nostre cose meravigliose. Cose meravigliose potrebbe anche essere un modo migliore di chiamare quelle che per comodità ho chiamato libere imprese.

Sono tante le imprese di donne che partono dall’insopportabilità dello spreco. Il caso più noto quello di Daniela Ducato in Sardegna che produce materiali per la bioedilizia a partire dagli scarti di lavorazioni agricole e pastorizia (ogni anno finiscono in discarica 9 mila tonnellate di lana tosata). Due ragazze uscite dal Politecnico di Milano si sono inventate Fili Pari, che produce un tessuto dagli scarti della lavorazione del marmo. Ci sono quelle che inventano alternative alla plastica. Al Salone del mobile giovani creative hanno presentato progetti legati al riciclo degli scarti alimentari, delle lavorazioni della canapa, del caffè, studi sul packaging degli alimenti, lavori sugli aspetti morali della produzione di cibo.

Mi piacerebbe poterle vederle tutte insieme, una specie di festa delle imprese femminili, vedere le loro produzioni, come si sono organizzate, le difficoltà che hanno incontrato, le opportunità che hanno aperto.

A questa cosa anticamente femminile di non sprecare oggi viene dato il nome di economia circolare. Se ci pensate sono le logiche dell’economia domestica che vanno in giro per il mondo, è quello che sappiamo fare da sempre. Impresa femminile è anche questo, portare le logiche di casa nel mondo, portarle nello spazio pubblico dal quale sono state estromesse per confinarle nel privato. E riportare l’economia a casa, nell’oikos. Ogni anno si consumano 93 miliardi di tonnellate di materie primee solo il 9 per cento è riutilizzato. Consumo che potrebbe raddoppiare entro il 2050. L’alternativa è l’economia circolare il cui valore è stimato in 3.000 miliardi di dollari, 88 miliardi solo in Italia con un bacino di 575 mila occupati e le donne in prima linea

Spesso queste imprese femminili producono arte, armonia e bellezza, moda, artigianato e indotti, c’è molto interesse per turismo e agroalimentare. L’esatto contrario del brutto della politica maschile. Le imprese sarebbero moltissime di più se non vi fosse un grande problema di accesso al credito, ai fondi, ai finanziamenti. Tante vi racconterebbero che per accedervi hanno dovuto coinvolgere un uomo, una testa di paglia maschile a garanzia. E poi oggi, in piena crisi, a quanto pare non ci sono soldi per fare niente. Gli uomini hanno finito i soldi e non solo le idee. Poi un giorno ho sentito parlare Romano Prodi, e sono rimasta di sale.  Prodi sta parlando dei cospicui investimenti pubblici del presidente Obama che hanno dato un grande impulso alla ripresa americana. Il giornalista Riccardo Iacona gli domanda: “Ma in Europa i soldi ci sono?”. Risposta di Prodi: “Tanti da morire”.

Quindi tanti soldi da morire. Anche nelle banche, una marea di soldi immobilizzati che aspettano buone idee in cui investire. Le nostre famiglie sono più ricche di quelle tedesche: 98 miliardi di euro, quasi metà dei quali stanno in banca ad aspettare buone occasioni. Probabilmente la grande parte di quei tanti soldi dell’Europa, li abbiamo prodotti noi: accettando di essere pagate meno sul lavoro (il gender pay gap è del 3.7 nel pubblico e 19.6 nel privato con tendenza all’aumento, e a livello globale è il 23 per cento: il più grande furto della storia ha detto una consigliera economica dell’Onu). L’Institute for women’s policy research quantifica il mancato guadagno globale per le donne in 482 miliardi di dollari l’anno. In Italia sono in media 3mila euro in meno l’anno, un paio di mesi non retribuiti, e quando sei madre il divario si accentua.

E poi le tasse che paghiamo in più rispetto agli uomini, le cosiddette pink tax, dagli assorbenti agli abiti da donna. Ma soprattutto c’è il lavoro di cura e domestico non retribuito che per il 76.2 per cento è in carico alle donne. Questo lavoro in Italia vale il 5 per cento del Pil. A livello globale sono 8 trilioni di dollari (un trilione è un miliardo di miliardi) che non entrano nelle nostre tasche. E anche il risparmio privato è realizzato in gran parte dalle donne che gestiscono i bilanci familiari.

Ma di tutte queste risorse prodotte dalle donne alle donne torna poco o niente. Queste due risorse, la marea del desiderio femminile e la marea di soldi, non si incontrano. A volte sospetto che ci tengano impegnate a difenderci sui minimi proprio per distrarci da questa faccenda.

Altra cosa: siamo la nazione al mondo con il maggior numero di iscritte all’università. Una parentesi: in questi giorni è partita una campagna per convincere le ragazze a iscriversi alle facoltà scientifiche e tecnologiche, dette STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica): oggi siamo al 18 per cento e a quanto pare le ragazze si intestardiscono sulle facoltà cosiddette umanistiche. Ma uno studio ha dimostrato che dove le donne hanno più libertà di scelta sono meno propense a scegliere le STEM. In Algeria il 41 per cento delle studentesse si laurea in STEM, numeri simili in Giordania, Qatar, Emirati Arabi. Molte meno quelle che scelgono STEM in Svezia, Finlandia e Islanda. Lo studio parla di paradosso. In sostanza dove le ragazze sono più libere scelgono di studiare quello che gli piace davvero, e a quanto pare non gli piacciono troppo le Stem.

Sulla questione dei fondi europei: Milena Gabanelli ci ha fatto notare che ne utilizziamo appena il 3 per cento. Funziona così: ogni nazione contribuisce al bilancio europeo in proporzione al proprio Pil; l’Europa, sulla base di progetti, redistribuisce quei fondi per la crescita. Noi non siamo capaci di accedere a queste risorse mentre la media europea di utilizzazione dei fondi è del 13 per cento con punte molto alte come la Polonia, che nel 2017 ha versato circa 3 miliardi all’Europa ma per i suoi progetti ne ha avuti quasi 12, con una crescita di oltre il 5 per cento del proprio Pil.

Perché non utilizziamo adeguatamente questi fondi? A causa della nostra burocrazia soffocante, che va ad assommarsi alla burocrazia europea: non è così facile capire come fare le domande per accedere. Ma c’è anche un serio problema di frodi e corruzione, che da noi pesa molto: tante volte te lo dicono chiaro, che i fondi sono già assegnati. Ho fatto personalmente l’esperienza. Contro questo muro di amici degli amici ho battuto la testa anch’io.

La cosa che vorrei dire è soprattutto questa: credo che sia venuto il momento di porre attenzione alla questione dei soldi. Troppe volte ci siamo dovute fermare perché non siamo state in grado di trovare le risorse. Ma quella dei soldi è sempre stata una questione molto delicata. In un libro di qualche anno fa, Le donne non chiedono,le americane Babcock e Laschever l’hanno messa a fuoco. Il pudore delle donne costa mediamente un milione di dollari a ogni donna che nel suo lavoro rinunci a negoziare. Il fatto di essere “abituate a faticare senza paga” induce una notevole automoderazione. Ma la ragione principale per cui le donne non lottano è “salvare le relazioni”. L’idea è che le donne ambiziose non piacciono, sono oggetto di ostilità e perdono le relazioni.

C’è anche altro, secondo me, ed è il fatto che la sacrosanta critica del movimento delle donne al modello neoliberista e alla finanziarizzazione del mondo si è tradotto spesso in assoluta estraneità e poverismo francescano. C’è un compiacimento della gratuità, che pure è anch’essa una bellissima risorsa femminile e va salvaguardata.

Ma fra fare tutto per soldi, come nel mondo degli uomini, e non fare niente per soldi e non avere soldi per fare niente credo che vada trovata una misura. Giusto opporsi alla dismisura maschile, al fatto che i soldi nella storia non abbiano mai contato tanto come oggi, diventando una misura universale e distruttiva. Ma questo significa porsi il tema di quale sia la giusta misura e di che cosa intendiamo per economia. Il primo passo quindi è autorizzarci a guardare dentro la questione e non sentire di tradire noi stesse applicando lo sguardo. Devono restituirci i soldi che ci rubano. Stiamo perdendo troppe occasioni, troppe cose meravigliose perché non abbiamo i soldi per farle.

A me piacerebbe che la rete che ci vede insieme contro violenza, prostituzione, utero in affitto possa diventare un riferimento anche per questo, per i desideri e per le imprese.

Un esempio: a Milano c’è una delle maggiori piattaforme di crowfunding del mondo. Funziona benissimo sia per le start up, cioè le imprese che nascono, sia per le piccole medie imprese già esistenti (equity crowdfunding). Questi finanziamenti possono essere a fondo perduto o in cambio di una partecipazione. Si potrebbe pensare a una piattaforma di crowfunding dedicata, oppure appoggiarsi a una piattaforma professionale già in funzione gestendo come rete una “sezione” per le donne. Questa piattaforma milanese sarebbe interessata a interloquire con un soggetto politico femminile -è questo che intendo per soggetto politico, non un partito- che si faccia mediatrice e collettore di imprese femminili da finanziare. A queste piattaforme si rivolgono anche grandi aziende che cercano progetti da finanziare da inserire nei loro bilanci cosiddetti “sociali”.

La stessa rete, consolidata e “istituzionalizzata”, potrebbe offrire un punto di riferimento e di orientamento, una guida per accedere per esempio ai fondi europei, semplificando l’accesso con facilitatrici e interlocutrici istituzionali. La rete potrebbe così diventare anche luogo di incontro tra risorse economiche e la grande risorsa dei nostri desideri.

 

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