La lotta contro la violenza non sta funzionando.
Sento di tutto: affermati professionisti che seviziano psicologicamente le mogli, abusi economici, violenze fisiche abituali. Per esempio una sopravvissuta al ferro da stiro lanciato da un importante marito –un dente comunque ce l’ha lasciato-, figli che malmenano le madri, mariti alcolizzati o variamente addicted, un’amica femminista con un marito che la tratta come uno straccio. Botte, crudeltà, soprusi dolore. Squarci confidenzialmente aperti su vissuti normalmente coperti da auto-omertà, in cui le donne cercano e spesso riescono a trovare assetti di rispettabilità e di relativo equilibrio, assumendo in se stesse il disagio del compagno per contenerlo e in qualche modo curarlo.
Si tratta di un importante filone del moltissimo welfare che le donne erogano gratuitamente, un vero e proprio servizio di utilità sociale: prestarsi a fare da terreno di sfogo violento del disagio maschile.
Il più della violenza è questa sotterranea e microfisica normalità: solo in una minoranza dei casi la violenza non si lascia più contenere dal privato di coppia e irrompe sanguinosamente sulla scena pubblica, dove trova ad accoglierla leggi inadeguate, servizi insufficienti, linguaggi inappropriati. In generale, un simbolico che non sa decifrarla e rappresentarla.
La lingua con cui stiamo parlando di violenza è sbagliata, ed è per questo che non si fa un solo passo avanti. Pedaliamo furiosamente in surplace e non arriviamo a niente.
Mi sono spesso lamentata del fatto che da qualche tempo tante, troppe, quasi tutte si vogliano occupare di violenza e femminicidio senza adeguate competenze, un enorme rumore di fondo che contribuisce al surplace. In verità -tolta la questione ributtante del business, di quante e quanti vogliono mangiarci, partecipare alla spartizione della torta di quei pochi fondi pubblici, scriverci libri, produrre trasmissioni tv e prendere parte in qualche modo alla kermesse- tante, quasi tutte quelle che intervengono sul tema della violenza sessista lo fanno perché la conoscono personalmente. Ovvero: parlano della violenza patita dalle altre perché non sanno in che modo, con quali parole parlare della violenza che subiscono loro stesse. Di quella violenza normale. Lo fanno solo in situazioni privatissime, adeguatamente protette: e allora tutto il dolore, tutta l’umiliazione traboccano, affidati all’interlocutrice che si presta ad accoglierli e a partecipare al segreto.
La lotta alla violenza, dunque, non funziona perché tutte parliamo della violenza subita dall’altra, dei casi di cronaca, della storia dell’ennesima donna malmenata, perseguitata, molestata e uccisa. Ma della nostra storia non parliamo. Non sappiamo farne, se non rarissimamente, un discorso pubblico e politico. Così l’altra che viene uccisa è politica, quella che cerca rifugio e aiuto è politica, ma la violenza che patiamo noi resta un “privato” che va in qualche modo protetto dal segreto.
Un’importante lezione del femminismo e della pratica politica delle donne è affrontare ogni questione a partire da sé. Ma qui non sappiamo farlo. Quindi non sappiamo fare una buona politica sulla violenza, restiamo inchiodate tra il lamento e una politica inefficace.
E perché le donne non sanno parlare della violenza che subiscono personalmente e quindi non riescono a intraprendere una politica efficace? Perché non esistono ancora le parole per dirlo, manca cioè un simbolico efficiente. Una gran parte del lavoro da fare, dunque, è trovare finalmente queste parole.
Un modo per avventurarsi su questa strada, per esempio, è riconoscere il fatto che il contratto sessuale si è rotto, e la rottura del contratto sessuale inventato dagli uomini comporta una deriva identitaria maschile che si esprime nel ciclo paura-rabbia-violenza, il ciclo delle origini, il cuore della questione maschile.
Chiunque abbia a che fare con uomini –quindi la stragrandissima maggioranza di noi- si ritrova a fare i conti con questo enorme fatto politico. Nello schiaffo che prendiamo, nel sopruso che subiamo, nella rabbia violenta di cui siamo spettatrici e vittime, non c’è assolutamente niente di privato, niente che vada tenuto protetto e nascosto. Non sto banalmente dicendo che l’alternativa al silenzio è la denuncia alle autorità competenti. Sto dicendo che questo è un enorme fatto politico che va affrontato in quanto tale, e a cui servono risposte politiche. Anzitutto, come dicevo, con un attento lavoro sul linguaggio per mettere al mondo un simbolico comune –le parole per dirlo- che ci traghetti fuori dalle secche degli psicologismi e perfino dai giustificazionismi maternali e ci consenta di muoverci sul terreno proprio della violenza maschile, che è un terreno totalmente e assolutamente politico.
Per tutte queste ragioni accolgo con vera felicità la notizia che il Grande Seminario annuale della comunità filosofica femminile Diotima di Verona sarà dedicato al tema della Violenza. Se dobbiamo parlare di violenza, anzitutto costruiamo il linguaggio.
A seguire la presentazione e il calendario degli incontri. Tutte quelle –e anche quelli- che possono partecipino.
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“Violenza: era là dall’inizio? Non possiamo saperlo. Quello che possiamo fare è vedere il suo dispiegarsi negli eventi di cui siamo partecipi, osservare quando e come attraversa il mondo che viviamo e le nostre anime. Possiamo constatare che accade quando le mediazioni vengono meno. Le guerre, ad esempio, si scatenano quando non c’è più spazio di contrattazione tra le parti. Oggi le guerre diffuse, di cui fanno parte anche la maggior parte degli attentati, mostrano che lo spazio di contrattazione si è ridotto a quasi nulla. Molti uomini muoiono. Le donne subiscono la violenza della guerra due volte, per le armi e per la violenza maschile in guerra, contro i loro corpi.
Non solo c’è violenza quando non ci sono più mediazioni efficaci ma anche quando queste si rovesciano nel loro contrario. Il linguaggio, la prima e più importante forma di mediazione in quanto forma di scambio e contrattazione, può rovesciarsi nel suo opposto quando le parole sono troppe, si elidono a vicenda, sono usurate, non circola autorità. La violenza allora ne è il risvolto. Così le leggi – altra mediazione –, quando proliferano in modo estenuante, fuori misura e sovrapponendosi, lasciano spazio alla violenza.
Le donne hanno un udito fine nei confronti della violenza dell’anima propria e altrui e sanno della violenza maschile latente, potenziale sul loro corpo.
Sappiamo parlare di violenza solo se ne parliamo da un luogo dove abbiamo esperienza di relazioni di fiducia e di una lingua che apre spazi di vivibilità, che ci sostengono nell’accogliere il fatto doloroso che la violenza c’è e ci tocca. Quando ne siamo completamente coinvolte, rimaniamo nel mutismo. Non c’è sguardo, racconto. Non c’è storia.
La violenza è reale. Ed è reale anche il fatto che il patto sociale tra donne e uomini ci sembra andare verso la rottura, per uno sfrangiarsi e indebolirsi delle mediazioni e soprattutto per un sottrarsi delle donne alla funzione simbolica patriarcale.
Bibliografia:
Hannah Arendt, Sulla violenza, in Ead., Politica e menzogna, Sugarco ed., Milano 1985.
Judith Butler, Violenza, lutto, politica, in Ead., Vite precarie, Meltemi, Roma 2004.
Luisa Muraro, Dio è violent, Nottetempo, Roma 2012.
Carole Pateman, Il contratto sessuale, Moretti&Vitali, Bergamo 2015.
Diotima, La magica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005.
Il seminario inizia il 7 ottobre (2016) che è un venerdì alle 17,20 per poi continuare con il calendario qui trascritto per altri venerdì fino a venerdì 4 novembre, sempre con lo stesso orario.
Venerdì 7 ottobre, ore 17,20 aula T1: Luisa Muraro – Il cielo è dei violenti
Venerdi 14 ottobre, ore 17,20 aula T1: Manuela Asencor Alonso – Percezioni e significati di violenza
Venerdì 21 ottobre, ore 17,20 aula T1: Giannina Longobardi – Il gioco è finito
Venerdì 28 ottobre, ore 17,20 aula T1: Annarosa Buttarelli – Un uomo buono è difficile da trovare (Flannery O’Connor)
Venerdì 4 novembre, ore 17,20 aula 2.3: Rosanna Cima – La vita è come un uovo
Il seminario si tiene alla Università di Verona, Area studi umanistici, via San Francesco 22.