La cosiddetta “madre surrogata” va riconosciuta come la vera madre del bambino che partorisce, e se lei non intende più consegnarlo ai committenti –benché uno di loro sia il genitore genetico e la donna che ha partorito non abbia alcun legame biologico con il bambino- le va riconosciuta la potestà genitoriale.

Questo il succo di un’importante sentenza inglese, giudice Mrs Justice Russell, secondo la quale la donna protagonista della vicenda, chiamiamola Jane, si è dimostrata “più capace di corrispondere ai bisogni fisici ed emotivi del bambino, nonostante non abbia alcun legame biologico con lui”. La migliore cosa per il bambino è restare con Jane, “emozionalmente più disponibile” rispetto ai genitori intenzionali e dotata di una “maggiore e istintiva capacità di comprendere le necessità del bambino”. Separarlo da lei costituirebbe un danno. Nemmeno il legame genetico del bambino con i fratelli biologici (la coppia di committenti ha già dei figli) giustificherebbe il fatto di portarlo via da “una casa accogliente, felice e amorosa”.

Una sentenza in controtendenza rispetto a quelle che, sempre più frequentemente, anche in Paesi come l’Italia in cui l’utero in affitto è vietato, riconoscono come superiore interesse del bambino quello di restare con i genitori surrogati. 

In breve, la storia: già madre di un bambino di 6 anni, Jane entra in contatto Facebook con una coppia gay. L’incontro, pochi minuti in un Burger King, si conclude con la sottoscrizione di un contratto standard di surrogacy scaricato da internet. Miserabile, 9 mila sterline, la cifra pattuita.

La legge inglese non consente la surrogacy commerciale: alla donna può essere riconosciuto un rimborso delle spese non superiore a 15 mila sterline: troppe, evidentemente, per la coppia, che preferisce la strada illegale, senza troppi controlli e al risparmio.

Nei Paesi in cui la surrogacy è stata regolarizzata, al mercato legale si affianca sempre un mercato nero.

Nell’utero di Jane vengono impiantati due embrioni realizzati con ovociti acquistati da una donna americana e seme di uno dei due committenti. L’impianto avviene in una clinica di Cipro. Una donna che aveva partorito due gemelli per la stessa coppia contatta Jane su Facebook. Le dice che quei soldi erano davvero pochi e che la gravidanza aveva compromesso la sua salute. Jane comincia a ripensarci. Perde spontaneamente uno dei due feti e progetta di abortire anche l’altro. Ma poi cambia idea: la gravidanza continua e il bimbo viene alla luce.

“E’ il mio piccolo” dice. “L’ho messo al mondo. L’ho sentito scalciare dentro di me. Lo sto allattando. Lui è felice e molto amato. Sono terrorizzata all’idea che me lo portino via”.

Jane ha vinto la sua battaglia e ha ottenuto la custodia del bambino. Lo crescerà con suo marito e come fratello del loro bambino. Al padre biologico è stato riconosciuto il diritto di incontrarlo un week end ogni 8, oltre al dovere di condividere le responsabilità parentali.

Secondo la giudice Jane è “una giovane donna vulnerabile poco più che ventenne in una situazione di difficoltà economiche” ed è anche afflitta da difficoltà di apprendimento che l’hanno resa incapace di scegliere “liberamente e senza condizionamenti”. Ha incontrato il padre biologico del bambino una sola volta nel fast food. Nella clinica di Cipro è stata “esclusa da ogni decisione e lasciata sola senza credito sul suo cellulare”. La coppia di commitenti ha avuto un comportamento “manipolatorio, disonesto e sfruttatorio, quanto meno potenzialmente”.

Insomma, un “caso indiano” in Gran Bretagna.

La sentenza Russell accende i riflettori sul mercato nero dei bambini, e sul fatto che nessuna regolamentazione costituisce un argine efficace. Al contrario, la regolamentazione in senso solidale è quasi sempre il cavallo di Troia che introduce usi e abusi commerciali.

Sarah Norcross, a capo di “Progress Educational Trust”, associazione che accompagna i percorsi delle coppie infertili, ha dichiarato che “la legge inglese sulla surrogacy ha più di trent’anni e va urgentemente rivista e riformata per tutelare meglio il benessere dei bambini”. ‘

Josephine Quintavalle, fondatrice di “Comment on Reproductive Ethics”, chiede che i contratti privati di surrogacy vengano dichiarati illegali.

Sulla vicenda, gli articoli del Daily Mail e di BioNews.

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