Se potessi intervistare Roberta Tatafiore sul suo suicidio sono certa che avrebbe da dirmi qualcosa di sorprendente. Dico “intervistare” perché il mio rapporto con lei, da quasi trent’anni, era di attenzione e di scambio di pensiero: stavamo in due città diverse e non ero tra le sue amiche strette, e oggi grande parte del loro dolore mi è risparmiato. Quando le parlavo ero sempre sicura di non trovarla là dove mi sarei aspettata, ma sempre un passo oltre, a forzare il limite di una libertà che lei concepiva come estrema e lancinante.
Non l’ho conosciuta abbastanza a fondo, come dicevo, per potermi fare un’idea sull’imprinting di questo suo impulso a cercare e rovistare senza protezioni ideologiche, senza fare caso ai rovi, ai graffi, al male che inevitabilmente si faceva – e di certo sarà stato lì, come per tutti, all’origine, nello spazio sconfinato tra il corpo della madre e quello del padre-, ma mi sento di dire che questo lavoro doloroso lei l’ha fatto per tutti. E che con la sua clamorosa uscita, in qualunque modo lei abbia voluto motivarla, l’ha portato a compimento.
Posso dire di lei solo dicendo di me, partendo da me -come faceva sempre anche lei- per capire quello che è accaduto, raccontando il definitivo mutamento del mio paesaggio interiore per dire quello che è capitato fuori. E anzi opponendole me stessa e il mio senso delle cose, come tante volte mi è capitato di fare con lei viva.
Mi sono fatta l’idea che Roberta sia voluta andare a frugare anche oltre quel limite, il limite dei limiti, e dato che farlo con la testa non bastava l’ha fatto anche con il corpo: faceva parecchie cose con il corpo, credeva alla sua sapienza insostituibile. E la sua meticolosa e impietosa esplorazione di eros forse è leggibile anche come una lunghissima preparazione, lunga quanto tutta la sua vita, all’incontro con la morte, con cui ha voluto giocare alla pari, senza lasciarsi sorprendere, e anzi sorprendendola lei con un ultimo gesto di ricerca e di libertà, stoico e politico.
Dico politico per almeno due ragioni: perché il suo suicidio, come quello di Alexander Langer –hanno, o avrebbero avuto, più o meno la stessa età- è la resa di un Hoffnungsträger, di un portatore di speranza schiacciato dall’enormità del peso che sta portando, e tuttavia condannato a portarlo anche da morto, perché chi pensa a lei-lui continua a pensarlo per quello che è stato e ad aggrapparsi alle sue spalle. Anche Roberta la penso come una Hoffnungsträger, probabilmente suo malgrado, perché per me e per tante lo è stata. Io speravo sempre che avesse trovato qualcosa di luminoso, quando la interpellavo. E forse non avrebbe cercato così tanto se non fosse stato per la speranza, e anzi la certezza di poter trovare qualcosa di decisivo in un altrove che vedeva spostarsi sempre più in là.
Penso al suo suicidio come politico anche perché oggi non c’è niente di più politico del discorso sui fondamentali, sulla vita e sulla morte: la cosiddetta biopolitica. La vicenda Englaro l’aveva evidentemente presa anima e corpo, anche nel corpo nel senso che dicevo prima. E se non per la sua morte, per il suo post mortem –la gestione del suo memoriale- Roberta ha voluto dimostrativamente affidarsi a quella relazione, “a quella “zona grigia sottratta al controllo statale” che le era parsa, come pare anche a me, la sola alternativa alla burocratizzazione delle morte e all’impossibilità di morire in pace. Lo dice nel suo ultimo articolo, pubblicato a metà febbraio sul sito Donnealtri, che si conclude così: “Mi chiedo come fare, qui e ora nel mio paese, a mettere la sordina a quel “dispiegamento di potenza”… che ha fatto il bello e il cattivo tempo nella politica e sui media intorno alla umana troppo umana vicenda di Eluana Englaro. Non trovo risposta, ma so che dare una risposta è essenziale”.
Ecco, la risposta è arrivata. Il paradosso è questo, e Roberta mi perdoni, se ancora è, e dovunque sia, ma io sto cercando di fare una critica della sua vita, morte compresa: che per dire la sua irriducibile e dolente libertà –è strano come tante si siano affrettate a dire che non c’era un dolore: il dolore c’è sempre, e capita che sia soverchiante- le sia toccato usare la lingua di chi ha voluto dire l’irriducibile legame. Che è stato, anzi, il legame, è questo il senso vero dell’attributo di Logos, o Verbo. E cioè: prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo. Per onorare Roberta, la libera, io mi prendo la scandalosa libertà di dire questa cosa che penso con tutto il cuore. E mi domando se non è sempre lì, alla fine, in questo darsi da mangiare agli altri, in questo sacrificio per gli altri, che va a parare l’umanità più bella.
(pubblicato su Il Foglio, 17 aprile 2009)