Per confrontarmi con Verona scelgo fra tutti il discorso di Giorgia Meloni, perché è una donna e mi viene più facile.

Nel 2007 ho scritto un libro intitolato “La scomparsa delle donne”, e poi altri libri e altre cose più recenti i cui temi sono risuonati nell’intervento di Meloni. Sarebbe facile partire subito all’attacco opponendole l’obbrobrio del ddl Pillon, ma a Verona del Pillon lei non ha parlato e del resto il suo partito, Fratelli d’Italia, ha presentato una proposta alternativa al ddl leghista.

Sto a quello che ha detto ieri e che potete ascoltare qui.

Meloni attacca come “retrogrado e oscurantista chi ha cercato di impedire il Congresso della Famiglia”: anche a me non piace la censura preventiva e riconosco il diritto di associarsi per discutere liberamente. Non do grande importanza alla faccenda dei patrocinii istituzionali, ma riconosco che sarebbe stata necessaria una maggiore prudenza. Noi femministe abolizioniste siamo state recentemente scottate dal ritiro frettoloso del patrocinio già concesso dal Comune di Bologna a un incontro con la sopravvissuta di prostituzione Rachel Moran perché la sua posizione “offendeva le sex worker”.

Impresentabili” dice Meloni “non siamo noi che parliamo di famiglia, ma quelli che sostengono pratiche come l’utero in affitto (chiede, come noi, che l’Onu lo dichiari reato universale), l’aborto al nono mese e i bloccanti dello sviluppo ai bambini”: qui c’è una coincidenza di obiettivi anche se manca, per completare il quadro, ogni riferimento alla legge Merlin e all’accanito lavoro della lobby prostituente universale per decriminalizzare il papponismo. Va tuttavia registrato che dopo un iniziale presa di posizione a favore della riapertura delle case chiuse, recentemente Meloni si è detta favorevole all’introduzione del modello nordico che punisce i clienti: “Probabilmente la via che può portare a dei risultati più efficaci, è quella adottata dalle Nazioni del nord Europa che punta a disincentivare la domanda. Un tentativo che vale la pena fare”. Forse valeva la pena di ribadire il concetto anche a Verona.

Va invece amaramente registrato che Non Una di Meno, che ieri ha dato vita a un imponente corteo, chiede lo smantellamento della Merlin e la decriminalizzazione del reato di favoreggiamento. Il che resta un mistero doloroso.

Continua Meloni: “Dicono che noi vogliamo limitare la libertà delle donne: figuriamoci se io penso questo. Vogliamo il contrario: il diritto a essere madri senza rinunciare al posto di lavoro”. Gli atti politici del centrodestra però dicono altro: la legge sulle dimissioni in bianco varata nel 2007 per iniziativa del Pd venne abrogata un anno dopo come primissimo atto del neonato Governo Berlusconi. Ed è tornata in vigore solo nel 2016 con il governo Renzi, contestualmente al Jobs Act. Va anche detto che questa misura a quanto pare non basta, se è vero che in media ogni anno 25 mila neomamme lasciano il lavoro subito dopo il parto.

Meloni sostiene anche “il diritto a essere madre senza lavorare”: l’alternativa tra casa e lavoro però non funziona, e questo è ampiamente verificato. Le statistiche dimostrano che in Occidente la natalità cresce in proporzione diretta con il tasso di occupazione femminile: è quello che il femminismo ha chiamato “il doppio sì”. Le donne che scelgono di dedicarsi esclusivamente al lavoro di cura –diffuso desiderio maschile- sono una minoranza esigua, ed erano probabilmente minoranza anche al Congresso della Famiglia.

Progettare misure per favorire questa scelta è antistorico e mette a rischio la libertà femminile. Sono certa che la stessa Meloni non consiglierebbe questa strada a sua figlia. Mentre le idee di trovare “risorse per chi mette al mondo un bambino” e di “asili nidi gratuiti aperti fino a tardi” sono perfettamente sensate e normalmente adottate dalle socialdemocrazie europee, benché la chiave della conciliazione si sia rivelata molto difettosa e la soluzione vera consista in una profonda femminilizzazione del lavoro, che riduca le distanze tra lavoro e vita, modifichi l’organizzazione maschile del lavoro, i suoi tempi, i suoi modi, le priorità produttive. L’approccio, quindi, dovrebbe essere ben più complesso.

Meloni chiede la piena applicazione della legge 194, non la sua abolizione, e parla del “diritto di una donna che si trova a dover abortire perché non ha alternative ad averla, quell’alternativa. Se una donna ha solo la possibilità di abortire, quella non è autodeterminazione”.

Al solito gli uomini spariscono dalla scena, mentre sarebbe interessante quantificare il numero di aborti causati dal rifiuto, dall’abbandono, dalla pavidità e dall’immaturità maschile, e dall’auto-deresponsabilizzazione sul piano procreativo. Questo conto non si fa mai, il maschio resta il convitato di pietra. Quanto all’alternativa da proporre, è tutto da vedere in che modo verrebbe offerta: se, com’è altamente probabile, colpevolizzando chi la rifiuta, il risultato sarebbe solo quello di aumentare il ricorso all’aborto clandestino, già in vertiginoso aumento soprattutto tra le più giovani che si rivolgono sempre meno agli ospedali e se la cavano da sole con la contraccezione d’emergenza e con farmaci acquistati online. Diversamente non si spiegherebbe come mai il tasso ufficiale di abortività in Italia sia la metà o un terzo di quello di quello registrato nel resto d’Europa: l’altra metà o 2/3 è affidato alle mammane chimiche. La legge 194 andrebbe forse rivisitata –se farlo non fosse pericoloso- alla luce di questi cambiamenti.

“Portare in Europa il tema della denatalità con investimento di risorse” potrebbe essere una buona idea: le risorse andrebbero investite soprattutto nella prevenzione dell’infertilità, prevista anche dalla nostra legge 40, e invece non si fa niente in questa direzione per non disturbare i profitti del mercato e del biomercato. Le giovani donne non vengono informate sui limiti temporali della loro fecondità naturale, e non si fa nulla contro l’uso di pesticidi e di componenti (come gli ftalati) di oggetti di uso comune, dalle plastiche ai comuni detergenti, tra le principali cause della caduta vertiginosa del tasso di fecondità maschile (-1 per cento ogni anno).  Ma più che di aumentare la natalità, in linguaggio statistico demografico, avrei parlato di non ostacolare il desiderio delle donne che vogliono diventare madri, precondizione inaggirabile, di rivalorizzazione della maternità -ulteriormente svalutata con l’utero in affitto-, di portare la maternità al centro della politica.

Meloni parla anche di “famiglia naturale fondata sul matrimonio”, e dice che “lo Stato non è tenuto a riconoscere uguali diritti e doveri a chi fa scelte diverse”, come la convivenza o le unioni civili. Il fatto è che l’unico nucleo davvero “naturale” è quello costituito dalla madre e dal bambino-a. Il matrimonio è un fatto storico e culturale, istituzione fondativa del patriarcato per assicurare agli uomini la proprietà dei figli e il massimo possibile di certezza genetica mediante il controllo delle donne.

Del matrimonio si può pensare che è cosa buona o meno buona: ognuna e ognuno la vedrà come ritiene. Ma attribuirgli “naturalità” è sbagliato. Non c’è una famiglia “naturale” fondata sul matrimonio e una nucleo “innaturale” che si costituisce con un’unione civile o una convivenza. Parlare di “naturalità” è anche pericoloso, visto che il numero dei matrimoni è in caduta libera: il rischio è di affogare nell’innaturalità. Tenere duro su questo, vero obiettivo della kermesse veronese, è davvero antistorico. La madre e la sua creatura: questo è naturale. Tutto il resto è un assetto culturale. Non conviene forse a tutti che anche le unioni non consacrate –come per esempio la sua- vengano riconosciute come famiglie?

Su quanto segue, invece, il mio accordo con Meloni è incondizionato: “Rifiuto” dice “una società in cui ogni desiderio diventa un diritto, in cui non ho responsabilità, ho solo diritti”. E parla di “sacerdoti del pensiero unico” contro i quali mi batto quanto lei.

“E’ giusto” dice “che se un cucciolo di cane non può essere strappato dal grembo della madre invece lo si possa fare con un bambino strappato a una madre disperata che lo vende a due uomini ricchi?”. Se è vero che il 30 per cento dei casi di utero in affitto è in capo alla popolazione gay, ovvero più o meno al 2 per cento della popolazione generale, valeva tuttavia la pena di menzionare anche le molte coppie eterosessuali che ricorrono a questa pratica: il modo migliore per allontanare da sé il sospetto di omofobia.

E ancora: “Del padre di Eluana Englaro si è detto che nessuno meglio di un genitore sa quello che vuole un figlio: perché questo non è valso anche per i genitori di Charlie Gard e di Alfie Evans? Perché vince sempre chi vuole staccare la spina, perché vince sempre la morte? Quanto tempo deve passare perché non si passi a eliminare chi è anziano o disabile perché non corrisponde ai canoni del perfetto consumatore? Perché la famiglia è un nemico e fa paura? Perché ci definisce, è l’identità, e tutto ciò che ci definisce –identità familiare, nazionale, di genere- è un nemico perché ci vogliono schiavi perfetti. Devo essere un numero, e allora sarò lo schiavo perfetto in balia della speculazione finanziaria, il consumatore perfetto”.

Il consumatore perfetto di cui parla Meloni è il neutrum oeconomicum funzionale al capitalismo neoliberale profetizzato da Ivan Illich e da Alexander Langer, che ho citato tante volte.

Se posso tentare un affondo critico nei confronti di Meloni, è il seguente: che come me anche lei parla a partire dal suo essere donna, ma si ferma a metà del guado. Non arriva cioè a osservare che l’origine di tutti i mali che lei stigmatizza, e su buona parte dei quali si può essere d’accordo -dall’oppressione delle donne, al prevalere della morte sulla nascita, alla misura unica del denaro che chiede la mercificazione di tutto e di cui l’utero in affitto è il massimo paradigma- si radicano in quell’eccesso di maschile, nel dispositivo millenario e camaleontico del dominio maschile –per nulla naturale, ma culturale e storico- a cui diamo il nome di patriarcato, che oggi si fa più violento perché batte i colpi di coda della sua fine.

Meloni si arresta di fronte alla necessità di quel cambio di civiltà di cui il femminismo sta parlando. C’è un femminismo, infatti, che sta parlando soprattutto di questo.

 

 

 

 

 

 

 

 

  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •