Mi scrive “Mamma di briciolina”, e qui pubblico il racconto della complessa e dolorosa esperienza di una donna, che prova il desiderio di condividerla.
“Sono ancora la sua mamma anche se non l’abbraccerò mai.
Quattro mesi fa ho subito un aborto terapeutico alla 19a settimana. Il mio bambino aveva una gravissima malformazione cardiaca incompatibile con la vita.
Non voglio raccontarvi lo strazio dei mesi precedenti, l’immenso dolore dei momenti precedenti e di quelli successivi. Vi vorrei raccontare del meraviglioso supporto offerto dai medici che lungo la strada abbiamo incontrato e che ci hanno aiutato a vivere senza ulteriori ostacoli le ultime settimane con nostro figlio. All’ospedale Sacco, al Buzzi, alla Mangiagalli e al policlinico di San Donato abbiamo trovato medici con alti livelli di specializzazione che hanno saputo fare con attenzione tutte le valutazioni di un caso estremamente complesso come il nostro, ma soprattutto hanno seguito con cura e premura ogni nostra visita e la crescita della creatura che avevo in grembo. Io ringrazio il cielo per tutto il personale ospedaliero che abbiamo incontrato: i dottori, le infermiere e soprattutto l’ostetrica del Sacco che ha accolto mio figlio tra le sue mani e gli ha dato l’ultimo saluto.
Abbiamo scoperto che nostro figlio aveva una “complessa malformazione cardiaca” molto presto, alla 15 settimana. Sono stati i medici del Sacco a fare la prima valutazione. Ci hanno ricordato che la legge ci consentiva “di fare le nostre scelte secondo coscienza”. Abbiamo aspettato alcune settimane, per valutare la gravità della malformazione. In tanta tristezza nasceva in me una forza incredibile. Una forza di difendere questa vita con i denti stretti, a tutti i costi. Non mi importava se nostro figlio non sarebbe mai stato un campione olimpico, se non avrebbe mai potuto fare i viaggi con lo zaino in spalla e tante cose. Io volevo difendere questa vita a tutti i costi. Volevo dargli una vita. Non mi interessava la mia qualità di vita, non mi importava di soffrire. Volevo lui vivesse. Nell’attesa ho incominciato a sentirlo muoversi. Mi sembrava un segno. Mi sembrava che fosse forte. Ma rimasi da sola a pensarla così. Nessuno ci credeva più. Anche il suo papà aveva cominciato a gettare la spugna. E io invece ballavo di nascosto con lui, prendevo la Folina, mi alimentavo bene, mi accarezzavo la pancia, gli parlavo, lo proteggevo.
Abbiamo fatto l’amniocentesi al Sacco perché i medici temevano ci fosse un’alterazione cromosomica. Ma con il tempo, man mano che il cuore del nostro bambino diventava più grande e le ecografie più nette, la situazione si complicava. La speranza cominciava a svanire. Siamo stati al Buzzi, e poi al policlinico di San Donato. Ringrazio tutti i medici che mi hanno visitata. Quei medici che ci hanno accompagnato, che ci hanno accolto e che hanno risposto a tutte le nostre domande. Ci hanno chiamati per nome, e ci hanno aiutato a fare la scelta che a noi sembrava più giusta. Ci hanno informato senza nasconderci nulla, ma hanno messo cuore in ogni parola che ci hanno consegnato.
Abbiamo fatto tutte le visite necessarie, gratuitamente, attraverso il servizio sanitario, senza aspettare più di 48 ore. Dentro e fuori dagli ospedali di Milano.
Alla 18 settimana un’ecografia più nitida squarciò quella parvenza di felicità: non solo la parte destra del cuore non era cresciuta, ma anche la parte sinistra aveva un difetto e l’arco aortico era interrotto. Malformazione incompatibile con la vita. “Ineluttabile” è stato l’ultimo aggettivo che ho memorizzato prima di scegliere. E poi sono arrivati giorni di febbre altissima e digiuno. Giorni bui, giorni di assenza. Fino al ricovero in ospedale. Mi hanno indotto un parto. Un parto vero. Chiesi di essere stordita. Mi diedero la morfina. Ma non fu abbastanza. Non abbastanza per non essere lucida. A un’ostetrica devo molto, la ringrazierò per sempre per avere atteso che calmassi il mio pianto prima di farmi spingere. Per avermi aiutata, per avermi protetta, per avermi detto quando chiudere gli occhi. Come volevo io.
Il giorno più brutto è stato il primo risveglio a casa, senza pancia, e senza di lui. Tutte quelle attenzioni alimentari e nel muovermi erano inutili. Ero magrissima, uno scheletro, senza forza di camminare. Partorire un figlio alla 19 settimana di gravidanza è una cosa mostruosa.
Sono passati quattro mesi. Nostro figlio ci manca. Ma è una presenza più dolce. Ho capito che il mio amore son sarebbe stato sufficiente a far battere quel cuore fuori di me. Fuori da me non avrebbe respirato. Mi sono attaccata al suo papà come fosse il mio respiratore.
Ora ci segue una genetista della Mangiagalli. Ci ha aiutato a capire, ci ha informato sul nostro futuro, con un amore e un attenzione che a volte non si trovano nemmeno in un amico.
Non sono arrabbiata con nessuno. Nessun discorso sull’ingiustizia: implicherebbe una colpa, un giudice e un condannato. Non è così. La gravidanza non è meritocratica.
Mio figlio per me è una presenza costante. Una cicatrice sulla pelle. Sarebbero mancate poche settimane e l’avrei conosciuto. L’ avrei stretto tra le mie braccia, l’avrei posato sul mio petto, avrei chiuso il mio dito tra le sue mani. Lo immagino con gli occhi azzurri del suo papà. E a volte, quando lo guardo, mi sembra di guardare lui. E’ nei miei pensieri. Ogni giorno, ogni momento. Occupa tutta la mia testa, i miei pensieri, i miei sogni, così come prima occupava il mio corpo.
Sembrerà assurdo, ma ci sono giorni in cui sono felice. Felice di quello che ho provato, felice di quello che ho ricevuto dalla vita. Dell’amore che ho respirato. Per aver ballato, camminato, preso il treno, fatto yoga con lui. Mi sento ancora fortunata per essere stata ed essere ancora mamma. Sono ancora la sua mamma anche se non l’abbraccerò mai. Ho ancora il suo papà al mio fianco. La radice della vita insieme a me. Guardo i bimbi, le pance delle amiche che crescono e penso “che bella la vita, che bello essere generatrici di vita”.
La natura ci chiede di aspettare, e non credo sia a torto. Il mio corpo sanguina ancora. E i miei occhi sono ancora pieni di lacrime”.