In tutta umiltà, qualche pensiero sulle cose da fare. Forse qualcuno di questi pensieri può essere ritenuto interessante da Regione Lombardia: vivo a Milano, nel bel mezzo del cluster, e vedo troppe cose che non vanno.
Gli errori sono stati davvero tanti, sia da parte di Regione sia da parte del Governo nazionale, pur con l’attenuante dell’inimmaginabilità di una crisi di queste proporzioni. Io credo che tutti o quasi tutti abbiano cercato di dare il proprio meglio (tolta la terribile vicenda della mancata chiusura di Nembro e Alzano per non dispiacere a Confindustria, questo sì atto politico imperdonabile).
In ogni caso non è questo il tempo per recriminare né tanto meno per giudicare in base a schieramenti politici pregressi, di destra o di sinistra, atteggiamento irresponsabile e odioso in una situazione simile. Ogni minuto perso in questo modo è una vita persa e non possiamo permettercelo, dobbiamo spenderlo in maniera costruttiva.
Comincio da chi si ammala e viene lasciato solo a casa, con una diagnosi al telefono del tutto ipotetica e comprovata dal tampone solo in rarissimi casi -generalmente ricchi e famosi-. Sento dire che chi presenta sintomi di possibile Covid viene gestito “come se” fosse Covid. Potrebbe anche andare, ma le cose non stanno così. Se fossero così si intraprenderebbe da subito una terapia (a base, secondo i vari protocolli in atto, di idrossiclorochina, antibiotici, anticoagulanti, anti-infiammatori, antivirali) sotto attenta sorveglianza medica: tutti gli studi e soprattutto le esperienze concordano sul fatto che per evitare l’aggravamento della malattia la terapia va somministrata prima possibile. Alcuni valutano anche la possibile efficacia di una profilassi sul modello della profilassi antimalarica.
In troppi casi invece non viene somministrata alcuna terapia fino ad aggravamento e ricovero. Delle 200 “squadrette” di medici che dovrebbero garantire l’assistenza domiciliare oggi è operativa solo una trentina. Se è vero che il fronte ospedaliero si è alleggerito, non sarebbe possibile dirottare parte di questo personale sanitario all’assistenza territoriale? Si è capito nel tempo che l’ospedalizzazione di massa non è stata una buona strategia: è possibile una correzione di rotta, surrogando in tempi rapidi quella medicina territoriale che purtroppo è stata smantellata negli anni?
Anche in mancanza di analisi precise da parte di Regione Lombardia, è ormai chiaro che i luoghi in cui ci si contagia maggiormente sono ospedali, case di riposo e in casa. Il che è paradossale: ubbidiamo alle disposizioni e non usciamo, ma le case sono pericolose. A Milano ci sono interi condomini in quarantena: è assolutamente necessario ricordare a inquilini e condomini le cautele da usare negli ascensori e in tutti gli spazi comuni.
Quando qualcuno si ammala, la raccomandazione è quella di isolarsi. ma questo isolamento è praticabile solo in un’esigua minoranza di casi (a Milano, per esempio, la metratura media di un’abitazione è 88 mq). I familiari rischiano il contagio, spesso sono già contagiati e asintomatici ma nonostante il lockdown escono per necessità, per fare la spesa (tra parentesi: perché non si provvedere a un potenziamento della spesa online con consegna a domicilio? gli slot sono regolarmente esauriti), o andare in farmacia. In molti casi anche per andare a lavorare (si valuta che il 60 per cento delle aziende siano aperte) rischiando di spargere il contagio. Men che meno questi familiari vengono sottoposti a tampone.
Per l’isolamento dei malati dai contesti familiari vanno quindi proposte e attivate le cosiddette strutture a bassa intensità, come gli alberghi requisiti in cui i pazienti non gravi possono soggiornare per il tempo necessario (circa un mese) per poi rientrare a casa una volta accertata la guarigione con 2 tamponi. Queste strutture che possono essere utili anche per i malati e/o positivi pauci- e asintomatici che vivono soli e a cui nessuno può dare una mano. Strutture che peraltro esistono già: perché non vengono proposte di routine? A fronte del numero crescente di contagi a Milano l’hotel Michelangelo, destinato allo scopo, era vuoto per metà: come mai? Quando i malati vengono dimessi dagli ospedali, clinicamente migliorati ma non ancora guariti, perché non vengono inviati in queste strutture? Anzi: perché non vengono trasportati lì con automediche protette? Risulta che i dimessi (ma ancora contagiosi) debbano provvedere da soli a rientrare nella propria abitazione: come? In taxi? Con i mezzi pubblici? Sull’auto di un familiare che rischia di infettarsi? Piccole cose, ma anche il virus è molto piccolo eppure contagiosissimo.
E che cosa si aspetta a intraprendere un attento tracciamento dei contatti, come in molti altri Paesi che si apprestano a riaprire? (noi siamo partiti per primi e “finiremo” per ultimi) Che cosa manca per attivare questa procedura?
Quanto alle case di riposo, la situazione è talmente grave che posso solo dire questo: se si trattasse di un mio familiare, dopo aver accertato con tampone la negatività lo riporterei a casa almeno fino a che l’emergenza non sia superata. Si tratta in molti casi di anziani allettati non autosufficienti la cui gestione è molto complicata. Si dovrebbe allora prevedere un aiuto da parte degli enti preposti per la gestione domestica di questi anziani.
Tamponi: il presidente Fontana dice che mancano i reagenti per effettuare tutti quelli necessari. Probabilmente ogni regione -e, a livello europeo, ogni nazione- tiene gelosamente per sé queste dotazioni. Ma se non “guarisce” la Lombardia, se non si spengono i grandi focolai, davvero si può pensare che il Paese e l’Europa possano “ripartire”? Davvero non è possibile attivare una solidarietà nazionale e internazionale per reperire i materiali necessari, come i reagenti per i tamponi, convogliandone in quantità necessaria nelle zone più colpite? Si parla di Mes, di soldi, di Coronabond, di ripresa. Non è possibile cominciare dallo stretto indispensabile, dai dispositivi necessari per salvare vite, che sono le risorse più preziose? Parlo anche di solidarietà interpersonale: se davvero questi materiali sono difficilmente reperibili chi gode di un certo reddito può pagarli di tasca propria -è il costo di una cena al ristorante, dove peraltro non stiamo andando- garantendo la gratuità sotto una certa soglia.
E’ incomprensibile il fatto che proprio in Lombardia, dove la sanità è stata in buona parte privatizzata, oggi il privato sia “sparito”e non sia possibile eseguire tamponi e test sierologici privatamente. Si attende che comincino i test sierologici con il dispositivo messo a punto dal Policlinico san Matteo di Pavia. Si parla del 21 aprile, a cominciare dagli operatori sanitari e delle province di Bergamo, Brescia, Lodi e Cremona. E quando si partirebbe a Milano, che in questo momento è la provincia che a dire di Regione preoccupa di più?
Alcuni laboratori privati eseguono già questi test “pungidito”, con risultati immediati. Questi test sono già stati messi alla prova in alcuni ospedali lombardi e anche di altre regioni e avrebbero un’attendibilità più che sufficiente. In collaborazione con l’ospedale Sacco il Comune di Milano li adotterà per screenare il suo personale, a cominciare dagli autisti dei mezzi pubblici. Perché Regione Lombardia non riconosce come validi questi test? Riconoscerà quelli effettuati dal Comune di Milano con supervisione dell’ospedale Sacco? Alcuni sanitari si sono già sottoposti a test a loro spese, ma il risultato per Regione è carta straccia. Parlando di mascherine e di foulard che possono sostituirle, il governatore Fontana ha usato un proverbio milanese: “piutost che nient l’è mej piutost”. Vero. Perché non deve valere anche per test sierologici già disponibili e già stati utilizzati e testati in numerosi ospedali? (eventualmente “tamponando per sicurezza chi presenti anticorpi IgG, quelli che testimoniano di una “vecchia” infezione). Il rischio sono i falsi negativi: d’accordo. Ma è un rischio certamente inferiore a quello che consegue al non fare nulla. E in ogni caso i dispositivi di protezione (mascherine, guanti) resterebbero obbligatori per tutti. Molte aziende si sono già dette disponibili a effettuare test a proprie spese sui dipendenti: questa disponibilità andrebbe raccolta.
Infine c’è bisogno che qualcuno cominci seriamente a pensare a bambini e ragazzi: i loro due mesi in isolamento equivalgono ad anni per un adulto. Cosa sarà di loro nella cosiddetta fase 2 e nella prossima estate, visto che le scuole e i centri estivi sono chiusi? Sulla fase 2, peraltro, meglio non continuare a mistificare. Ha ragione il governatore Zaia, questa fase è già cominciata da tempo: le prefetture hanno ricevuto 105.727 comunicazioni di prosecuzione di attività da parte di imprese in seguito al lockdown; per 38.534 è ancora in corso l’istruttoria; per 2.296 è stato adottato il provvedimento di sospensione. Dunque grazie al silenzio-assenso gran parte di quelle imprese non essenziali hanno proseguito tranquillamente la loro attività. E qui la responsabilità è del Governo.
Dicevamo, i bambini: serve che si pensi a una fase 2 anche per loro. Anzi, per come la vedo io soprattutto per loro -ogni politica che è buona per i bambini è buona per tutti- con educatori formati a gestirli a gruppi per qualche minima attività all’aperto, per passare qualche momento insieme pur con tutte le necessarie cautele. Si dia vita a un tavolo di pedagogisti e sanitari che immaginino delle soluzioni. In ogni caso, se i genitori torneranno a lavorare, chi si prenderà cura di loro?