La nomina di Lino Banfi all’Unesco è l’amarissima ciliegina sulla coeva manovra del popolo, che non spreca soldi in minchiate come i libri, la scuola, la ricerca e l’università. La definitiva dimostrazione che la cultura non serve a niente. Una cosa enorme, nella sua meschinità
“Scuorno!”, direbbero a Napoli, che sta lì giusto a pochi chilometri da Pompei. Sento personalmente la vergogna e l’umiliazione per la reprimenda in qualche modo provvidenziale dell’Unesco (leggere qui) che ci intima di trovare soluzioni entro la fine dell’anno allo stato di abbandono di quello stupefacente sito. Un richiamo fortemente simbolico, al quale ci dovremmo aggrappare come a una zattera di salvataggio.
Qualche settimana fa raccontavo della chiesa rupestre di Piedigrotta a Pizzo Calabro, gioiello seicentesco di arte votiva affacciato su una piccola baia dalle acque turchesi, edificata a celebrare il miracolo di un naufragio scampato. Scavata nel tufo dorato, la navata centrale dai soffitti affrescati, le cappelle laterali, le statue che la popolano fittamente come stalagmiti dalle sembianze umane, scolpite da Angelo Barone e poi dal figlio e dal nipote. Ebbene, durante la visita avrei potuto portarmi via quello che volevo: un frammento di affresco, un pezzo di statua o una intera, il tufo è leggero. O farmi prendere da un acting out iconoclasta. Il custode-bigliettaio non c’era. Se ne stava tranquillamente al bar, un centinaio di metri sopra.
Poco più a Sud, in una sala del Consiglio Regionale della Calabria, giacciono da tre anni i Bronzi di Riace, sdraiati su catafalchi come malati terminali, malamente esposti insieme ad altri preziosissimi reperti restituiti dal mare e dal tempo. A quanto pare non hanno una sala dove rimetterli in piedi. Vorrei rapirli di notte e metterli in mostra a casa mia. E chissà quante altre meraviglie ignorate, tra Pizzo e Reggio, e nel resto della Penisola, quante cantine e quante soffitte piene di tesori accatastati.
Io non me lo dimentico, no, il progetto scellerato di una discarica contigua a Villa Adriana (era appena ieri, governo Monti: salvati giusto in tempo dall’indignazione del mondo). E il fatto che gli investimenti per la cultura sono calati dal 39% al 19% del Pil nel giro di una decina d’anni.
Stiamo andando rovinosamente contromano. Le rose sono il nostro pane. La bellezza e la qualità per noi sono tutto, sono il lavoro, il nostro new deal, il futuro, la felicità, la salvezza. Siamo il super-brand. Siamo il posto del mondo in cui tutti vorrebbero vivere, anche a costo di doversela vedere come capita ogni giorno a noi con la corruzione, il gigantismo burocratico, la non-certezza del diritto, il costo folle dell’energia etc. etc. E tutti quegli osservatori internazionali che continuano a ripeterlo: è la bellezza che potrebbe fare dell’Italia la prima economia in Europa.
Sepolti a Pompei ci siamo noi, soffocati dalla lava della cattiva politica. Quei Bronzi ammalati e legati al catafalco siamo noi. Dalla politica non aspettiamoci niente. La politica, come sempre, arriverà per ultima e di malavoglia. La politica, destra e sinistra -il partito trasversale del cemento- il nostro territorio, le nostre bellezze, li hanno solo sfruttati, sfregiati e devastati per farci affari. La cosa importante è che lo diciamo a noi stessi e ai nostri figli, e che ce ne convinciamo profondamente, fino a trasformarci, e a cambiare il nostro sguardo e i nostri gesti: la bellezza salverà quel pezzetto di mondo che siamo.
E’ questo il compito che ci è stato assegnato: testimoni del qualis contro la logica rovinosa del quantum.
E’ questa la lotta che c’è da fare. Non perdiamo altro tempo.
Nell’elenco del patrimonio dell’umanità amministrato dall’Unesco compaiono anche numerosi beni immateriali. Insieme ai campanili di Belgio e Francia, ai trulli di Alberobello e all’arco geodetico di Struve, anche il Carnevale di Oruro, Bolivia, il ritmo dei tamburi conga nella Repubblica Dominicana, la nostra opera dei pupi, il canto “a tenore” dei pastori sardi.
Proporrei una tutela anche per la gentilezza del nostro Sud. Non so come si faccia a tutelare un tratto così squisito e delicato, e in tutte le sue molteplici manifestazioni: dall’ospitalità, alla cucina, alla sorprendente capacità di entrare in relazione con lo straniero e di condividere con lui la miracolosa bellezza di quei luoghi. Ma l’idea che possa andare perduto sotto i colpi del cafonismo e dell’individualismo contemporaneo mi procura uno sconforto assoluto.
Scrivo su un giornale del Nord, ma ho ben presente come tanta parte di questo Nord sia fatta di talenti e di energie del Sud. Non sapevo, però –me l’ha spiegato un signore che si intende di queste cose- che è fatto anche dei soldi del Sud. Una parte cospicua dei denari che ci servono per fare impresa qui -finanziamenti, prestiti bancari e così via- provengono dalle tasche e dai conti correnti dei risparmiatori del Sud. Se girate nel Mezzogiorno, fate caso a quanti sportelli di banche nordiche aperti negli ultimi anni. Sicché, mi diceva questo signore, se il federalismo fiscale ci avvantaggerebbe, un eventuale federalismo bancario ci metterebbe con le spalle al muro.
Questa cosa io non la sapevo, e un po’ me ne vergogno. Spesso al nostro giudizio sulla questione Nord-Sud mancano troppi elementi perché non si tratti solo di venale pregiudizio. Una cosa, tuttavia, mi sento di dirla, per quel poco che so: che i baricentri del nostro sviluppo –e uso cautamente questo concetto, nella consapevolezza che sarebbe ora di sottoporlo a seria revisione critica- sono almeno due, uno sta a Nord e l’altro a Sud; e che forse le risorse più preziose in questo momento della nostra vita e della nostra storia, a cominciare dal bene assoluto della relazione, si trovano più facilmente “giù”, in quell’Italia splendida, misteriosa, antica. E straordinariamente gentile.
(pubblicato su Io donna – Corriere della Sera il 27 settembre 2008)