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bellezza, pubblicità Dicembre 21, 2015

Milano, cercasi programma. Questo -su periferie e città metropolitana- è il mio

Gabriele Basilico: Milano, quartiere Isola, 1978

Qui Milano. Visto che downtown è tutto un Risiko di alleanze e contro-alleanze, candidature e controcandidature, chi sta con chi, a casa di quale candidato ci si vede oggi, ma di programmi, ovvero di che cosa c’è da fare in questa città non sta ancora parlando nessuno, rompo gli indugi e ne parlo io, che non sono candidata a niente. Così, magari li ispiro.

Quello di cui voglio parlare è il tema periferie-città metropolitana. A cominciare dal dire che forse sulla città metropolitana si rischia un eccesso di burocratismo che di sicuro non farà affezionare la gente al processo e non la renderà partecipe dell’impresa. E il fatto di vedersi passare la cosa sopra la testa e calare le cose dall’alto non è di buon auspicio perché la cosa funzioni. Quindi sforziamoci di deburocratizzare il processo, di renderlo più amoroso.

Si tratterà di una bella rivoluzione. E quelle che oggi sono intese come le periferie diventeranno nuovi centri, luoghi-ponte nel processo di costruzione della città metropolitana. Ponti non solo topografici, ma anche concettuali e sentimentali. Nuclei della città nuova, collocati nel punto di tensione tra la forza centripeta del centro storico e quella centrifuga dei comuni metropolitani. L’ultima rivoluzione di questo tipo –anche se non sono un’urbanista-  probabilmente è stata la progressiva annessione alla città dei borghi e dei cosiddetti Corpi Santi, tra fine 800 e primi 900. Lì qualcosa è andato bene e qualcosa male. Nella maglia sono rimasti dei buchi che si sono riempiti di abbandono e di nulla.

La prima questione da impostare è quella ambientale. Viviamo nell’area più inquinata d’Europa, una specie di Pechino. Se la città metropolitana è il futuro, l’aria avvelenata è il presente. Tra i molti gap del nostro bizzarro Paese c’è anche questo: tra l’aria più pura d’Europa (Sila) e quella più impura (pianura Padana). Va posta da subito la massima attenzione a una politica integrata dei trasporti: all’efficienza della mobilità cittadina oggi si contrappone l’incredibile fatica del pendolarismo extraurbano, con la fiumana di auto in entrata ogni mattina. Ma si deve pensare anche alla riqualificazione energetica degli edifici pubblici e privati, alla salvaguardia e una progettazione di nuovi polmoni verdi. La questione ambientale è del resto strettamente connessa anche al tema del lavoro e delle nuove povertà: la redditività degli investimenti pubblici per la riqualificazione energetica e per la salvaguardia del territorio è notevolmente superiore a quella di qualunque “mancia” fiscale a pioggia.

Nell’ambito della conferenza sul clima di Parigi, Naomi Klein ha introdotto un bellissimo concetto-paradigma, quello di “democrazia energetica”. Non lo intendo solo dal punto di vista delle fonti di energia, penso che possa essere suggestivo anche per molte altre questioni, dal lavoro al modello di città che andremo a costruire.

Tornando alle cosiddette periferie: considerato il ruolo centrale che assumeranno nel processo di costruzione della città metropolitana, il passaggio preliminare a ogni soluzione urbanistica è l’autoconsapevolezza, il racconto che ogni quartiere fa di se stesso: narrazione da cui traspare il genius loci, il talento inespresso, la vocazione di ogni luogo. Ogni quartiere dovrebbe poter raccontare la propria storia, il proprio unicum, il proprio potenziale. Per partire, più che dall’ elencazione dei problemi, dall’autorappresentazione del proprio meglio -ogni quartiere ne ha uno- e per agevolarne la fioritura, assecondandone la vocazione e sostenendone il programma “genetico”. Un lavoro antropologico –ascoltare chi vive in quei luoghi, raccoglierne la memoria e i desideri- prima ancora che politico.

Come dice Italo Calvino, “Ci sono frammenti di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici”.

Niente può essere calato dall’alto. E’ chi vive lì che ti deve far vedere il suo posto bello. Non si tratta di invitare sussiegosamente a una partecipazione civica, ma di vero protagonismo nei processi. Paradigmatico, a questo riguardo, un caso come quello dei Quartieri Spagnoli di Napoli, che noi vediamo come il massimo del degrado urbano, ma la cui autorappresentazione spesso è molto diversa. Penso al pride di una signora affacciata da un basso che mi ha detto: “A Napoli io non ci vivrei mai”. Che cosa capita lì di buono che noi non sappiamo vedere? E nella stessa logica, dov’è il buono di ognuna delle nostre periferie? Ogni luogo ha una sua storia da raccontare, e si tratta di fargliela raccontare. Decenni di quantum, di necroeconomia, di case fatte su in fretta e furia e con il cartone in una logica di profitto sono la crosta che dobbiamo scrostare, la concrezione che dobbiamo demolire.

Si tratta di fuoruscire da una logica “centripeta”, non sentendosi più gli esclusi dal centro storico ma gli inclusi nel centro dei propri contesti. Tante nuove aree C. Saper fare dei propri luoghi di vita posti dove la gente vuole venire perché lì trova qualcosa che non troverà da nessun’altra parte della città, che dobbiamo immaginare strutturata ad arcipelago, ogni isola con la sua specificità. Alcuni processi sono già in atto, si tratta di saperli leggere, rappresentare e facilitare. Per esempio l’area intorno al naviglio Martesana, fortemente strutturata sulla memoria di una storia condivisa e sulla presenza del corso d’acqua, sta spontaneamente diventando una cittadella dello sport, con l’alzaia popolata di maratoneti e ciclisti che arrivano da tutta la città, vocazione che va considerata e valorizzata.

Il linguaggio è importantissimo perché è il primo gesto propriamente umano. Da molti anni insisto nel dire che non si dovrebbe più parlare di periferie. Bisognerebbe buttare via questo termine e sostituirlo con qualcos’altro. Trovare il nome della cosa significa farla esistere. Se il nome fosse già stato trovato, probabilmente oggi quelle che chiamiamo periferie sarebbero in una situazione migliore. Se ci si fosse già mossi in una prospettiva policentrica e non area C-centrica, la questione della città metropolitana sarebbe in gran parte impostata. Vivendo in periferia devo purtroppo dire che negli ultimi 5 anni la situazione non è affatto migliorata, si è anzi sperimentato un certo abbandono. Forse non l’assoluta miopia borghese della sindaca Moratti, che agli abitanti di Greco, devastati dal fracasso delle ferrovie, disse: “E chi gli ha detto di andare ad abitare proprio lì?”. Ma anche con la nuova giunta nella migliore delle ipotesi abbiamo visto un certo paternalismo che peraltro non ha prodotto risultati apprezzabili.

Quando penso alle periferie non mi riferisco a buchi neri tipo via Gola o ad altri complessi popolari che sono diventate fortini inespugnabili della criminalità organizzata. E’ sbagliato pensare di impostare il lavoro su situazioni limite. Sto parlando dei luoghi di vita della gran parte di noi e dei nostri concittadini: nelle cosiddette periferie vive più o meno dignitosamente il 60 per cento dei cittadini milanesi. Tra lo splendore di Porta Nuova e l’orrore di via Gola c’è la parte più importante delle cose da dire e da fare.

La politica ha molta difficoltà a prendere atto del fatto che nelle cosiddette periferie non solo c’è il futuro, ma anche la parte più interessante del nostro presente. Per esempio: mi ha molto –negativamente- colpito una cosa che ha detto l’ex-candidato sindaco Emanuele Fiano: che la mente della città, il suo motore innovativo sta in centro, e poi fuori c’è il corpaccione dei luoghi dove la gente vive, su cui questa mente deve applicarsi. E’ concettualmente molto sbagliato, perché se c’è un luogo da cui può nascere e dove sono sempre nate innovazione, cultura, anche nuova cultura politica, è proprio la cosiddetta periferia. Spesso le periferie urbane sono luoghi dove si produce e si consuma contemporaneità.

Mi viene in mente una cosa che anni fa ho sentito dire da Vivienne Westwood, strepitosa designer inglese madre del punk, il cui segno ha influenzato fortissimamente gli ultimi  decenni. Lei è nata poverissima nel villaggio di Tintwistle, Derbyshire, proprio non avevano da mangiare, e ha imparato il suo lavoro di stilista dalla madre che le cuciva quattro stracci perché non c’erano soldi per comprare i vestiti. Poi approda a Londra e va a vivere in non so quale zona strapopolare. Intanto si afferma come stilista, la sua griffe comincia a diventare importante e tutti si aspettano che lei cambi casa per stabilirsi a Kensington o in qualche altro quartiere posh. Ma lei dice che non si sposterebbe mai da dove abita, perché perderebbe le sue radici, la sua creatività, il suo desiderio, e non combinerebbe più niente di buono, non farebbe nemmeno più soldi, niente di niente. Certo, essere nato e vivere in periferia aiuta molto a capire. L’architetto Renzo Piano, che al tema sta dedicando grande parte della sua recente riflessione professionale e politica, in periferia ci è nato e cresciuto.

Etty Hillesum dice che la bellezza è dappertutto. Lei ha saputo vederla perfino nel campo di detenzione di Westerborck, prima di andare a morire ad Auschwitz, quindi la sua lezione è piuttosto importante. La bellezza è dappertutto e ha bisogno di noi che sappiamo vederla, trovargli un posto nel nostro cuore, ospitarla dentro di noi come una donna ospita un bambino nel suo grembo, e fargli molta pubblicità, senza lasciarci accecare dalla grande quantità di brutto e cattivo che vediamo intorno. E’ fin troppo facile trovare la bellezza dove è conclamata. Così non ci mettiamo al lavoro né politicamente né spiritualmente. Quando contempliamo qualcosa di bello, i Bronzi, la facciata policroma del Duomo di Firenze o una qualunque delle nostre molte meraviglie, dovremmo saper vedere non tanto il risultato consolidato quanto il fervore umano che l’ha prodotto e continua ad animarlo, che è la lotta del qualis contro il quantum, il massificato, il triste, il mortifero. Prima queste bellezze non c’erano e poi ci sono state. E’ proprio su quest’arco di tempo che corre tra il non esserci e l’esserci che dobbiamo porre la nostra attenzione.

Si tratta di cogliere il moto del desiderio: e il desiderio è la materia prima di cui le periferie abbondano.

Quanto alla mancanza di soldi: Edi Rama, artista albanese, primo ministro di quel Paese, prima è stato sindaco di Tirana. Riguardo a questo incarico, Edi Rama ha detto: “È il lavoro più eccitante del mondo, perché arrivare a inventare e a lottare per una buona causa di tutti i giorni. Essere il sindaco di Tirana è la più alta forma di conceptual art. È arte allo stato puro“. Trovatosi nel 2000 ad amministrare una città difficilissima, senza un piano edilizio, sconciata da un abusivismo arrogante spesso gestito dalla criminalità, Edi Rama ha demolito centinaia di edifici abusivi, piantato migliaia di alberi e ripristinato le strade: ma soprattutto ha riempito le case di colori. Le facciate di case, palazzi e uffici di colore grigio sovietico sono state dipinte di colori sgargianti. Gli spazi pubblici sono stati restituiti alla collettività e nello stesso tempo sono diventati una piattaforma di sperimentazione per artisti, un’installazione permanente; la città ha ripensato il modo di autorappresentarsi e rifondato la sua identità su nuovi principi. L’idea è stata la bellezza a costo quasi-zero per fare una nuova politica. Non si tratta di bilanci opulenti, che non ci sono più, né di mega-interventi magniloquenti e speculativi. Si tratta di saper lasciare segni di bellezza intorno ai quali si coagula vita. Catalizzatori vitali.

Lo dice bene Fulvio Irace, Storico dell’architettura e professore al Politecnico di Milano, si dovrebbe immaginare una sorta di “agopuntura urbana, che oppone alla visione dall’alto la percezione dei luoghi nella loro dinamica sociale e fisica: a innesti e tecniche di manipolazione minimali, capaci di stimolare il metabolismo urbano e produrre l’autorigenerazione della città e dei suoi spazi pubblici”.

Naturalmente a questo modo di vedere le cose molti potrebbero opporre la questione onnivora della sicurezza, il fatto che nelle periferie la priorità è questa, i ladri che ti entrano dalle finestre e i piccoli borghesi pistoleri, oltre alla difficoltà di convivenza con gli stranieri che si concentrano in quei quartieri (politica abitativa sbagliatissima). Va intanto detto che il nostro modello di integrazione non è certamente tra i peggiori. La microfisica delle relazioni quotidiane insieme alla nostra abitudine millenaria a essere zattera per tutte le etnie ci hanno risparmiato il peggio che vediamo nelle banlieu. Va comunque attentamente considerato il disagio di chi si ritrova a convivere con differenze che ti mettono in crisi, e di questi tempi possono anche farti paura. Il tema è molto vasto e per affrontarlo conviene attaccarsi al midollo dei leoni, in questo caso alle profetiche parole del mio amico Alexander Langer, che più di vent’anni fa ha compilato un Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica che dovremmo portarci tutti in tasca come vademecum.

Ma la cosa importante da dire è che tra il tema della sicurezza e quelli della vivibilità, della bellezza, della cura dei luoghi non c’è soluzione di continuità. Si tratta di un tutt’uno politico. Voi conoscerete la teoria delle finestre rotte: l’esistenza di una finestra rotta genera fenomeni di emulazione, portando qualcun altro a rompere altre finestre o un lampione e dando il via a una spirale di degrado e a problemi di socialità e di sicurezza.Se ne potrebbe controdedurre una teoria delle finestre in ordine: la cura, l’amore per il luogo in cui si vive, la migliore socialità che ne deriva, possono costituire un ottimo presidio contro l’insicurezza.

Se il brutto è contagioso, perché non dovrebbe esserlo il bello? La logica dei neuroni specchio, una delle più importanti scoperte delle neuroscienza, e oltretutto la scoperta di un italiano, Giacomo Rizzolatti, ha chiarito le basi dell’empatia. Non vale solo tra un individuo e l’altro: se io vedo un mio simile piangere si attivano i me gli stessi neuroni attivati nella persona che piange, permettendomi di condividere il suo sentimento. Vale anche per le relazioni con l’ambiente: se io vedo il bello si accende in me il bello, o più precisamente il bello-e-buono, il kalos kai agathos di cui parlavano i Greci, concetto modernissimo di una bellezza che è anche morale, a cui corrisponde quello di una bruttezza che è anche amorale e antisociale. Noi viviamo in un Paese in cui le bellezze naturali hanno prodotto per via emulativa la bellezza dei manufatti umani, e in modo virale: perché non dovremmo riconnetterci con la nostra anima profonda, in un moto di progresso che si volta a guardare indietro, alla nostra storia più autentica?

Nel controllo di vicinato, esperienza già praticata in vari comuni italiani, si opera in stretto collegamento con le polizie locali con cui si conferisce regolarmente, polizie a cui tocca in via esclusiva il compito della repressione: periodicamente ci si incontra per fare il punto della situazione. Ma soprattutto -il buono è qui- si stringono relazioni di vicinato che rendono possibile un intervento positivo sul proprio territorio. Il tema della sicurezza e della difesa dal crimine può quindi “secondarizzarsi”, diventando solo uno dei temi di intervento. Il “controllo di vicinato” può occuparsi di un albero pericolante, ma anche di piantarne di nuovi. Può richiedere la chiusura del campo rom, ma anche prendere iniziative per l’integrazione dei bambini che ci vivono. Si tratta quindi di far salire tra le priorità la cura, e di far scendere il tema della sicurezza come normalmente la intendiamo. Di dare valore alle comunità di cura che si oppongono alle comunità del rancore, come le chiama il sociologo Aldo Bonomi.

Ecco, nella nostra politica di tutta questa ricchezza di riflessione, di questa passione, di questa contemporaneità, di questo accumulo esplosivo di desiderio raramente c’è traccia: il disinteresse borghese è assoluto, nella migliore delle ipotesi l’approccio è paternalistico, da dame della carità che non dimenticano gli ultimi e pensano alle bibliotechine di quartiere.

Il nuovo sindaco, la nuova sindaca, non deve necessariamente essere uno o una brava a leggere i bilanci: per quello ci sono i ragionieri. Stiamo davvero esagerando l’importanza dei comparti contabili, ci stiamo rassegnando all’idea delle città-holding. Una città non è una holding. Una città è un luogo di relazioni umane, con i suoi aspetti contabili. Un buon sindaco non è prioritariamente un buon manager capace di governare il movimento degli affari. Un buon sindaco è prioritariamente qualcuno/a capace di intravedere il potenziale delle relazioni umane. Serve, come si dice spesso –ma poi non si fa mai- capacità di visione.

Come stiamo vedendo tutti gli schieramenti hanno fatto e fanno una gran fatica a indicare nomi di possibili candidati/e. A Milano vive un sacco di gente, compresa tanta gente capace e competente. Eppure nomi faticano a saltare fuori. Ma in questa fatica di trovare “il nome” c’è qualcosa di buono e significativo: e cioè che degli uomini soli al comando -e anche delle donne, quelle poche volte che capita- probabilmente ci fidiamo sempre meno. Tu eleggi uno (o una) che poi mette insieme la squadra in base a criteri spesso imperscutabili -un po’ di Cencelli, le spinte e controspinte dei grandi elettori, qualche amico di famiglia, metti una sera a cena quattro chiacchiere tra amici-, con qualche rischio per le effettive competenze e quindi per il funzionamento dell’amministrazione.

La squadra, invece, quella che prenderà decisioni non irrilevanti per le nostre vite, quella che deciderà come gestire tutti i soldi che scuciamo come contribuenti e così via, ecco, forse sarebbe il caso di conoscerla prima. O quanto meno, lasciando qualche inevitabile margine di manovra per le alleanze al ballottaggio, sarebbe utile conoscere lo “squadrone” rappresentativo di un progetto e di un’idea di città dal quale il sindaco/a, primus/a inter pares, pescherà il suo team (con tutti gli altri comunque ingaggiati nell’impresa).

Io credo che anche a Milano si dovrebbe fare questo: delineare i 3-4 grandi temi di intervento, anche e soprattutto in relazione al progetto della città metropolitana, coagulare intorno a ciascuno di questi temi un buon numero di cittadine e cittadini competenti, formare una grande squadra che si presenti alla città con la propria visione e le proprie soluzioni. E in questa grande squadra (che resterà tutta quanta operativa sul progetto) scegliere, come dicevo nella logica del primus inter pares, il candidato sindaco o sindaca e la possibile futura giunta. Questo sarebbe davvero un modo innovativo di procedere, ma al momento non ne vediamo traccia.

Vediamo solo nomi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Politica Maggio 9, 2011

BOTTO FINALE

Si chiama killer application quel colpo finale a sorpresa, quell’uppercut che all’ultimo mette ko l’avversario politico: ricordate la faccia di Berlusconi che pronuncia il magico mantra “abolirò l’Ici”?

In genere la killer application è piuttosto costosa, più soldi hai da mettere sul tavolo e meglio ti viene. Scherzavo nell’ultimo post: “tutti gratis a Sharm”, “sconti dal chirurgo Santanché”, “pago io la tassa dei rifiuti per un anno”, o anche solo “ingresso libero nei miei cinema“: sono qui che aspetto il botto finale. Ma se soldi non ne hai, il populismo non ti viene bene.

Per questo pensavo che di fronte a uno spiegamento così immane di mezzi -tutto, pur di non perdere Milano- al “povero” centrosinistra non resta che giocare su un altro piano, che per me non può che essere il seguente -l’ho detto sabato a un dibattito con Manfredi Palmeri, Stefano Boeri, Piero Bassetti, Aldo Bonomi e altri, e lo ripeto-: una squadra di governo fatta di donne e uomini immediatamente riconoscibili dalla città come meritevoli, competenti e portatori di uno spirito innovativo. Una squadra forte, riconoscibile anche nel suo spirito di generosità e di servizio, e che con l’inattualità del suo gratis costituisca una sfida lampante ed efficace all’enorme schieramento di risorse economiche che ci troviamo a fronteggiare. Una squadra Big Society che possa fare innamorare i cittadini, insomma, al di là degli schieramenti.

Dipendesse da me, questa squadra l’avrei già presentata. Se si andrà al ballottaggio, la presenterei la sera stessa del 16 maggio. La squadra dovrebbe essere la killer application del centrosinistra. Gente di cui fidarsi. Io credo che così possa vincere.