Perché prostituzione e immaginario pornografico pretendono di stare al cuore del discorso femminista? Perché il sex work spinge per consolidarsi come paradigma di libertà femminile e a dare corpo a iniziative politiche a tutto vantaggio del colossale business del mercato prostituente?
Alberto Stasi, secondo l’accusa (delitto di Garlasco, dove una volta c’era una celebre rotonda e ci si andava a ballare, e oggi c’è questa roba qui) avrebbe ucciso a colpi in testa la fidanzata Chiara Poggi perché lei aveva rifiutato di sottoporsi ai giochi erotici che lui le proponeva. A quanto pare l’aveva già forzata più volte a girare filmetti hard, sebbene lei non avrebbe voluto.
Non entro nel merito della questione giudiziaria. Da madre di un giovane uomo mi interrogo su questa sessualità che oggi, come mi ha detto una volta Charles Melman, decano degli psicoanalisti francesi, “è dappertutto, perciò non è più al centro”, ovvero non è più sacra né decisiva per la formazione dell’identità di un soggetto. Nessun moralismo, ma mi dico questo: formarsi sessualmente su un immaginario sostanzialmente libero, come è capitato a noi che oggi siamo adulti, è cosa diversa dal crescere sovrastimolati e oppressi da un repertorio di immagini già immaginate che non dà tregua.
In poche parole: le donne di carne, a questi ragazzi che si sono formati sulle evoluzioni sfrenate delle donne virtuali, devono sembrare molto deludenti. Bisogna riconvertirle in donne virtuali, per esempio fotografandole, filmandole, facendo loro interpretare un repertorio da pornostar, perché siano eccitanti. Una volta la donna di carta era il surrogato di quella di carne, oggetto vero del desiderio. Oggi sembra che capiti il contrario. Lo domando soprattutto agli uomini: è così?