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Donne e Uomini, economics, italia, lavoro, Politica, questione maschile, Senza categoria Settembre 22, 2014

#Jobsact: c’è troppo poco sul lavoro femminile

Da anni ci viene raccontato -da Bankitalia, dall’Ocse, non da femministe “interessate”- che un aumento dell’occupazione femminile in Italia in direzione di quell’obiettivo di Lisbona indicato nel 60 per cento, avrebbe effetti virtuosi, anzi virtuosissimi, non solo sulla vita delle donne nel nostro Paese, ma anche sul Pil, sulla natalità (siamo la nazione meno prolifica nonché la più anziana d’Europa, e tanti di quei pochi che nascono a 18 anni ci salutano) e via dicendo.

Lo abbiamo letto in molti editoriali firmati prevalentemente da editorialisti uomini (gli editorialisti restano quasi esclusivamente uomini): più donne al lavoro farebbero + 7 punti di Pil secondo Bankitalia, una dozzina in più secondo l’Ocse. Generebbero un indotto occupazionale, “esternalizzando” servizi di cura oggi delegati quasi esclusivamente a loro, 3 miliardi di ore lavoro annue gratuite:  secondo l’Ue la riorganizzazione e la valorizzazione del settore dei servizi alla persona potrebbero creare 7 milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro. Una ristrutturazione del welfare sul modello francese, che l’Europa indica come l’eccellenza assoluta, trasformerebbe il settore dei servizi da costo per lo Stato in Pil aggiuntivo. La natalità aumenterebbe: contrariamente a quanto ci si ostina a credere, più le donne lavorano fuori casa, più figli fanno. Inoltre una massiccia femminilizzazione potrebbe innovare profondamente l’organizzazione del lavoro: le donne sono le più interessate a una flessibilità worker-friendly: part time, telelavoro, tempi elastici, coworking e così via. Secondo la School of Management del Politecnico di Milano, la diffusione di modelli di lavoro agile o smart working può portare alle imprese un beneficio di ben 37 miliardi l’anno tra riduzione dei costi di gestione e aumento di produttività, oltre a 4 miliardi di riduzione per trasporti e pranzi fuori, e alla riduzione di 1.5 milioni di tonnellate di inquinanti come il CO2 ogni anno. Altro effetto virtuoso.

Tutte ottime ragioni per posizionare l’occupazione femminile al centro di una efficace riforma del lavoro nel nostro Paese. Vedremo i dettagli del jobsact, ma non mi pare che questo stia capitando -tolto il giustissimo intento di estendere l’indennità e le tutele alla maternità oltre il “recinto” delle garantite, e qualche forma di incentivazione per le imprese che assumono donne-.

I famosi Pigs, dove la crisi morde di più, sono proprio quelli in cui gli stati delegano moltissimo alle donne, intese come welfare vivente. In quei Paesi, Italia compresa, l’occupazione femminile non cresce e la natalità nemmeno, si crea cioè una paralisi di sistema. Si dovrebbe ragionare su quanto questi modelli di non-welfare e non-occupazione femminile contribuiscono al rischio default.

Resiste invece un’idea del lavoro femminile come un di più, un lusso a cui dover rinunciare nei momenti di vacche magre.

Ma pensare ai lavoratori come lavoratrici sarebbe il cambiamento più formidabile.

Corpo-anima, economics, WOMENOMICS Gennaio 11, 2011

CONSUMATI DAI CONSUMI

Non è che stamattina io mi sia iscritta al Movimento per la Decrescita Felice, né che io creda che il Fil (Felicità interna Lorda) possa essere totalmente indipendente dal Pil. Ci mancherebbe. Ma quando leggo che la ripresa dei consumi in Italia (+1,6%) arriverà solo nel 2012, dopo un modesto 0,4% del 2010 e un calo nel biennio 2008-2009 a livelli di dieci anni fa -e però se non si muove il mercato del lavoro, e al momento non ci sono segnali confortanti, Gesù, vediamo come andrà il referendum a Torino, hai voglia a fare proiezioni…-, ecco, quando leggo questo, mi viene da fare un distinguo.

Non è detto che la decrescita sia necessariamente felice, ma anche la crescita dei consumi può non esserlo affatto. Intanto dipende da quali consumi. Ci sono consumi che ti danno una botta apparente di felicità, sul momento, a cui segue un rovinoso down, tipo cocaina: consumati dai consumi. Insomma, voglio dire che c’è consumo e consumo. E mi pare a occhio di poter dire questo: che meno un consumo è facilmente consumabile, quanto più un oggetto di consumo dura, insomma, e maggiori garanzie di “felicità” ci dà. L’usa-e-getta del godimento immediato, senza il differimento del desiderio, a cui una certa idea dei consumi ci ha abituato -e di cui l’economia dice di avere bisogno- è spesso infelice, ha in sé l’idea della deperibilità e della morte: l’animale umano ha bisogno di un minimo di stabilità e dell’attesa desiderante. Quindi, da un certo punto di vista, meno consuma e più è felice.

La qualità, la quantità e la stabilità delle relazioni: questo sì, che promette felicità.

Insomma: qualche pensiero sparso, stamattina, per non farci ingannare dal tromp-l’oeil di un 2012 allegramente ri-consumistico e perciò felice. Credo che questi tempi, alla Sex and the City, non torneranno più. Nemmeno in Sex and the City, che quando lo rivedi ti pare così antico… Usiamo il 2011 come un surplace per capire che cosa davvero vogliamo consumare. E quindi che cosa vogliamo davvero produrre.

Archivio Giugno 25, 2008

Non è un paese per madri

Rproduco qui su richiesta di una gentile amica un articolo sul lavoro femminile, pubblicato qualche settimana fa su “Io donna”-“Corriere della Sera”. Chiedo scusa ai disinteressati. Domani un bilancio del dibattitino sugli uomini.

Guai a chi tocca il lavoro delle donne! E non per fare un piacere a loro. E’ il sistema Paese ad averne bisogno. Le donne sono così scolarizzate, efficienti, capaci… Ciò che fa ostacolo alla valorizzazione di questa risorsa fa ostacolo allo sviluppo tout court. Fa un certo effetto sentire illustri economisti maschi ed esponenti di Confindustria parlare di conciliazione, di asili nido, di quote. “Sono cose che dicevamo vent’anni fa…” commenta una pioniera, quasi amareggiata di avere avuto ragione. Ma se è vero, come valuta il professor Maurizio Ferrera, esperto di welfare e autore di “Il fattore D- Perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia”, che 100 donne occupate in più non solo non “rubano” spazio agli uomini ma creano un indotto (servizi, etc.) valutabile in +15 posti, facendo lievitare torta dell’occupazione e consumi; se è vero che +100 mila donne al lavoro equivalgono a un +0.28 del Pil, si capisce perché questione è ai primi posti nell’agenda degli imprenditori. Chi fa impresa non fa astratte questioni di genere: il problema, molto concreto, è il profitto.
“Priorità-Paese” per Confindustria, dove le donne (Emma Marcegaglia, Annamaria Artoni, Federica Guidi, per dirne alcune) non a caso tengono il pallino, il lavoro femminile non sembra invece fra le prime preoccupazioni della politica, saldamente in mano agli uomini. Uno dei primi provvedimenti, lo sconto fiscale sugli straordinari, non è certo ad hoc per le lavoratrici: il “lusso” degli straordinari è maschile, le donne li fanno a casa. E gratis. Non li possono, ma nemmeno li vogliono fare, disponibili anche a rinunciare a una fetta di stipendio pur di guadagnare tempo per la vita, l’amore, i figli. Fattore T: tutte le criticità, per le donne, hanno a che fare con il tempo.
Ma vediamo che cos’ha in mente il governo sulla questione. Mara Carfagna, ministra per le Pari Opportunità, è troppo presa a litigare con i gay e al momento non ha nulla da dire. Mariastella Gelmini, sua collega alla Pubblica Istruzione, intervenendo a un convegno sul Fattore D organizzato dal “Corriere della Sera”, spiega che “le leve sono due, quella fiscale e quella del merito: e la meritocrazia premia le donne. E poi servizi con orari flessibili, e una banca del tempo, da cui la donna possa “prelevare” ore se ne ha bisogno, per restituirle quand’è meno pressata”. Donne e famiglia nelle politiche governative fanno un tutt’uno. Il governo-ombra invece separa le questioni: “Pensiamo a misure transitorie di defiscalizzazione” dice Barbara Pollastrini, ministra uscente alle Pari Opportunità “non solo per le imprese che assumono donne, ma anche per le lavoratrici. E poi flessibilità negli orari lavorativi e dei servizi”.
Vent’anni che se ne parla, diceva la pioniera. E sempre a vuoto. Nel frattempo nel mondo del lavoro è successo di tutto. E buona parte del tutto ha a che fare con le donne, un’“invasione” che ha fatto irrompere la vita nel lavoro. Con le loro sofisticate strategie di sopravvivenza in una realtà a misura duramente maschile. Una rivoluzione che autorizza alcuni, come Sergio Bologna, studioso del lavoro da sempre, a parlare del “lavoro femminile come lavoro tout court” e non più “eccezione” alla regola di un lavoro maschile.
Le donne sanno più di tutti che cos’è il lavoro, quello per la produzione e quello per la riproduzione: se sono una risorsa è anche per questo preziosissimo doppio sapere. Sono loro le protagoniste del postfordismo e dei cambiamenti più tumultuosi. Ma il modo in cui sono costrette a lavorare resta quello degli uomini, una parità dolorosa e obbligatoria.
“La vera grande fatica” dice Gabriella Zanardo, imprenditrice intervenuta al convegno del “Corriere” “è adeguarsi a un modello che non è il nostro”. E’ anche per questo che il numero delle dirigenti resta basso. Lo conferma Anna Maria Artoni, presidente degli industriali dell’Emilia Romagna: “In Italia c’è un’incredibile crescita di imprese femminili: siamo tra i primi al mondo!”. Le donne salgono negli organigrammi aziendali per guadagnare una più agevole via di fuga: imprese autonome, percorsi lavorativi non standardizzati. Perché lì possono organizzarsi a modo loro. Il problema è trattenerle, più che sostenerle. Dice ancora Artoni: “Quello che serve non sono tutele. La chiave è il tempo, le chance sono lì: ormai anche nell’industria manifatturiera si possono flessibilizzare gli orari”. E perché non si fa? Perché il tabù resiste?
Quello che fa ostacolo alla valorizzazione della risorsa D è la detenzione dei corpi, è la rigidità degli orari, sono le perdite di tempo (Dio! Le riunioni!), l’organizzazione di tipo militare, le truppe sempre schierate, magari a non fare nulla. Anche tanti uomini non ne possono più. Siano benedetti asili e servizi, anche se il carico familiare può essere solo alleggerito, mai eliminato. Ma le vere soluzioni stanno altrove.
“Le donne mirano all’organizzazione del lavoro” dice Lia Cigarini della Libreria delle Donne di Milano. La Libreria ha posto il tema al centro della sua riflessione, e dedica al lavoro un inserto del periodico “Via Dogana”, in uscita in questi giorni. In questione è una ridefinizione del lavoro umano. E la chiave principale è una diversa concezione del  tempo. Ma c’è qualcuno che sia davvero disposto ad ascoltare il Fattore D, quando parla? Per dire, ad esempio, che il problema non è semplicemente dove piazzare i figli. Le giovani donne non sono più disposte a perdersi le prime parole e i primi passi dei loro bambini. “Perché invece di alleggerire il carico familiare delle madri non si pensa mai ad alleggerire quello lavorativo?” ci scrive una lettrice. “Perché invece di investire nei nidi non si prolunga il congedo parentale? Perché non si pensa al part-time e non si incentiva il telelavoro?”. Più che il carico familiare, il vincolo è l’incapacità organizzativa dei datori di lavoro.
In “Il doppio sì – Lavoro e maternità”, saggio in uscita sempre a cura del Gruppo lavoro della Libreria delle Donne di Milano, si spiega che il conflitto sessuale dall’ambito della coppia sembra spostarsi in quello lavorativo, tra il modo maschile e quello femminile di intendere il lavoro. Le donne del “doppio sì” non vogliono dover scegliere, il loro equilibrio sta nell’et-et, lavoro e maternità. Il libro parte dall’ascolto di quello che le donne hanno da dire, con particolare riguardo alla questione del tempo. E racconta tra l’altro esperienze di “part time di qualità”: donne che sono riuscite a garantire un’alta qualità del lavoro pur riducendo il proprio orario, puntando “più sul lavorare bene che sul potere e sul presidio fisico della postazione”.
La politica è disposta a tener conto di questi racconti, di queste esperienze, di queste invenzioni? Anche se, c’è da scommetterci, le cose che contano capiteranno nella vita reale, nelle pratiche concrete, non in quella politica. Tanto per cambiare.

MARINA TERRAGNI