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pierfrancesco majorino

Politica Gennaio 4, 2016

Sapessi com’è strano svegliarsi l’8 febbraio a Milano

Dopo un’estenuante serie di preliminari, le primarie milanesi del centrosinistra (più Pd che altro) sono entrate nel vivo.

Il gioco tra i tre principali contendenti (Francesca Balzani, Pierfrancesco Majorino, Giuseppe Sala) non è proprio all’insegna del fairplay. Balzani entra in campo baldanzosamente, ostenta da subito un parterre de reine, chiede perentoria al collega Majorino candidato da tempo di mollare il colpo, porta a casa un bel picche, e al momento arranca un po’, affaticata dalla scarsa notorietà, dai troppi appelli eccellenti in suo favore e dall’accusa di salottismo.

Majorino sembra ringalluzzito, campagna molto social e luogocomunista, esagera con la promessa un po’ molto pacchiana di un assessore Lgbt –quei voti gli servono, vuole perdere bene-, sostanzialmente è raggiante perché Giuseppe Sala, il probabilissimo vincitore, lo omaggia riconoscendogli una sensibilità sociale di cui lui difetta. Leggi: tranquillo, come minimo ti rifaccio assessore. In fondo è quello che, sparando alto, l’abile Majorino sperava di portare a casa. Qualcuno grida scandalosamente al ticket occulto.

Quanto a Sala, asso pigliatutto, campione del Partito-Expo-Nazione, entusiasma perfino certe furbette assessore di Sel, Cristina Tajani e Daniela Benelli: le idee non si mangiano. Piace a Cielle, a Ncd, a Scelta Civica (Scelta Civica????) e a un bel pezzo del centrodestra, orientato a candidare un uomo di paglia per non dare troppo disturbo all’uomo che garantirà un po’ tutti. E si comincia a intravedere la cospicua fila dei saltatori sul carro dell’ultim’ora. L’impatto mediatico dell’ex-ad Expo, oltretutto, è sorprendente: chi tra i suoi antagonisti sperava in un’immagine scostante da manager anglofono ha dovuto ricredersi. L’uomo ha la concretezza del gran lombardo, dà del tu all’interlocutore, non si perde in chiacchiere e promesse volatili, punta dritto al tema delle periferie -vulnus della gestione Pisapia- dove intende radicare il suo successo, ha quella faccia un po’ francese da sindaco di Milano. Forse è tutta fuffa, ma presentata bene. In breve: per i competitor un osso durissimo.

A meno di miracoli sempre possibili o di fattori esogeni imprevisti, tipo irruzioni della magistratura, l’8 febbraio, il giorno dopo le primarie, Milano si sveglierà di fronte alla seguente scena politica: un candidato centrista (Sala), un altro candidato centrista (Passera), un candidatuccio di centro destra (?), e la signora Bedori, carneade 5 Stelle, che dal momento della sua candidatura è totalmente sparita dai radar.

Il popolo arancione, rosso, rosa e verde si ritroverà desolatamente alla deriva, anche e soprattutto a causa di una partita condotta davvero malissimo dal sindaco uscente. Un popolo frantumato tra una mesta realpolitik, un orgoglioso aventino e la tentazione 5 Stelle che a Milano non è mai andata oltre la protesta pre-politica. A meno che, ed è la variabile su cui tenere lo sguardo, a questo popolo non venga offerta a sorpresa un’alternativa, un/a candidato/a che potrebbe puntare a replicare l’exploit ligure, quel 10 per cento guadagnato dal candidato “civatiano” Pastorino, o perfino bypassarlo se la proposta sarà sufficientemente suggestiva.

Del resto nemmeno Renzi può pretendere che un bel pezzo di Milano, quello che ha dato carne e sangue all’anomalia pisapiana, a questo punto si dissolva come neve al sole, parola turna indré, come si dice da queste parti. Anche perché questa gente, altro che indré, ha l’ambizione di andare avanti.

 

 

AMARE GLI ALTRI, migranti, Politica Giugno 17, 2015

Sono figlia di figli di migranti

Alain Delon migrante lucano in “Rocco e i suoi fratelli”

L’altra notte scrivo all’assessore milanese Pierfrancesco Majorino, in prima linea sulla questione migranti: “Magari quel cubo di plexiglas in stazione dove sono temporaneamente ospitati potrebbe essere oscurato con un po’ di carta da pacchi“. Così, per troncare sul nascere le polemiche sui “migranti in vetrina”, e per garantire a quelle donne, a quegli uomini e a quei bambini un minimo di privacy. In effetti la mattina dopo il cubo è stato oscurato.

Mi vengono dei dubbi: i migranti sugli scogli di Ventimiglia non vogliono essere nascosti. Vogliono stare lì, avvolti nelle metalline, perché il mondo li possa vedere. Oggi papa Francesco chiede “perdono per chi chiude la porta ai rifugiati”. E’ giusto che restino dove intendiamo tenerli, sulla porta, a bussare, fintanto che intenderemo tenerceli.

Ogni volta che passavo dalla stazione e vedevo quelle famiglie sistemate nel mezzanino, donne uomini e bambini, e i volontari che scodellavano pasta e distribuivano biscotti, e i milanesi che arrivavano a frotte con i loro borsoni di viveri, indumenti e giocattoli, era come passare davanti alla grotta di Nazareth, con il Figlio dell’Uomo, i Magi e i pastori. Un punto di santità, un tempio che mi commuoveva nel profondo.

Giusto che profughi e migranti vengano accolti degnamente, quanto meno una brandina al coperto e un bagno dove lavarsi. E giusto che si trovi un modo umano per regolare i flussi, per ridurre al minimo i problemi e i disagi per tutti. Ma la logica non può essere quella del nascondere, del non vedere. Vedere è la prima cosa, per trovare soluzioni efficaci e degne.

Parlo da figlia di figli di migranti (e dalla mia pelle si vede!).

Libri, Politica Aprile 16, 2015

Nel suo “memoir” Giuliano Pisapia regola i conti. E apre la campagna elettorale

Giuliano Pisapia è sempre stato un garantista, e nel suo libro “Milano città aperta” uscito proprio oggi da Rizzoli spiega dettagliatamente il perché, compresa un’esperienza personale di ingiustizia che lo ha segnato profondamente. La sua tenuta sui diritti, dalle coppie di fatto al fine vita, è insieme ad area C e all’intervento sul traffico giustamente premiato dall’Ocse l’eredità più significativa che lascia a Milano. Le pagine sul suo lavoro di avvocato e di giurista sono le più belle.

Ma scrivere un memoir in corso d’opera, a più di un anno dalla fine del mandato, mentre stai ancora giocando, non sembra molto opportuno. In genere si attende di essere davvero fuori dal recinto di gioco, o quanto meno di avere smesso la casacca, altrimenti si dà l’idea di voler continuare a giocare nel ruolo di arbitro: una specie di auto-amoveatur ut auto-promoveatur. Per esempio, molti ritengono, al ruolo di leader di quella coalizione sociale che potrebbe diventare la nostra Podemos.

Anche le pagelle su assessori e compagni di strada (da Pierfrancesco Majorino, a cui si rimprovera di avere “attaccato con rudezza la mia compagna“, a Carmela Rozza, al veterano Basilio Rizzo) non renderanno certo più facile il lavoro di giunta nel prossimo anno. Per non parlare dell’imbarazzante rancore fuori tempo massimo nei confronti dell’ex-competitor Stefano Boeri, già fatto fuori in tutti i modi possibili. Tra l’altro un bel po’ delle cose di cui il sindaco si fa giustamente un vanto, da BookCity a PianoCity al nuovo skyline di Porta Nuova, le ha fatte proprio Boeri, e sarebbe stato carino riconoscerlo*. Pisapia, insomma, è già in campagna elettorale e sembra voler indicare nome e cognome quelli che, a suo parere, devono proprio togliersi dalla testa di prendere il suo posto. 

Chi ha esercitato un potere raramente abdica senza voler continuare a segnare di sé quello che verrà in seguito: è una cosa normale, capita sempre così, specialmente agli uomini, che tendono a voler mantenere il controllo del territorio. In questo senso il libro di Pisapia, più che un commiato, si presenta come un manifesto programmatico.

Infine, se si può dire, il tono del libro appare un tantino autocelebrativo: un commosso ricordo della rivoluzione arancione alla quale, sempre se si può dire, hanno partecipato anche moltissimi milanesi, circa la metà, che non tifavano affatto per lui. Insomma, come dice una mia amica e maestra quando mi inorgoglisco di qualcosa di buono che ho fatto: “Non sei stata tu. E’ stato lo Spirito Santo”. E’ stata la città a “liberarsi”, se vogliamo ricorrere a questa retorica, erano i tempi a essere maturi. Attribuirsi tutti i meriti pare un po’ esagerato. La svolta non è avvenuta perché c’era Pisapia. Diciamo che Pisapia ha potuto esserci perché la città voleva svoltare.

Infine, qualche sfumatura autocritica non avrebbe guastato: Pisapia dice di passare molto tempo della sua giornata a girare la città. Gli sarà capitato di vedere in che stato si trova, appena fuori dalla seconda circonvallazione, e magari anche dentro: buche, sporcizia, abbandono. Cose su cui si potrebbe anche pazientare, visto il deficit di bilancio ereditato. Se non fosse che in quelle buche, in quel degrado, potrebbe piantare i suoi semi una destra aggressiva, pronta a spazzare via qualunque sfumatura di arancione.

* dimenticavo il Museo dei Bambini. Anche il Muba l’ha fatto lui, mica Boeri…