Francesco parla di perdono alle donne che abortiscono, e non dei non-padri. Ma dietro ogni aborto e c’è un uomo responsabile tanto quanto la donna, e talora molto di più
Giubileo: essere assolte dal peccato di aborto per molte è una liberazione
Sulla possibilità di essere assolte dal peccato di aborto in occasione del Giubileo, Lea Melandri ha ragione di notare: “Completamente rimosso il fatto che sono gli uomini a mettere incinta le donne, a procurare gravidanze indesiderate, gravidanze frutto di violenza. Ma si sa: il potere maschile sulle donne non porta colpe, legittimato dalla legge del più forte e da privilegi e diritti millenari“.
In poche parole, gli uomini godrebbero di assoluzione permanente, una sorta di tacita licenza a lavarsene le mani. Papa Francesco farebbe bene a tenere conto dell’osservazione di Lea.
Non condivido affatto, invece, molta parte dei commenti che girano sul web, il cui succo è “le donne non hanno bisogno del perdono di nessuno” e/o “chi è la Chiesa per giudicare?”.
Per molte, moltissime donne del mondo (il Giubileo è un evento universale, non locale) la possibilità di essere sciolte da questo peccato è un fatto di grande portata simbolica, la definitiva liberazione da un peso doloroso. In cuor proprio, la gran parte di queste donne cattoliche si è già autoassolta: solo loro sanno in quali circostanze hanno dovuto prendere questa decisione, in molti casi per costrizione, e quanto hanno sofferto e pagato, spesso rischiando la pelle. Ma il perdono definitivo da parte della Chiesa le libera del tutto, e permette loro di voltare finalmente pagina.
Difficile da capire per le donne che non credono e che vedono nella Chiesa unicamente un retaggio patriarcale. Forse per loro è più facile capire questo: è la prima volta che un Papa si rivolge direttamente e con misericordia alle donne che hanno abortito. Ribadendo, sì, che l’aborto è un grave peccato, ma manifestando ad un tempo comprensione e compassione. Inoltre, non tutta la Chiesa sarà con Francesco in questa decisione: ed è un’altra ragione per tenere nel giusto conto il suo messaggio.
“Io lo amo, e voglio tornare con lui“. Sta in un letto d’ospedale, le hanno asportato la milza spappolata dalle botte e dai calci del compagno, che ora è in carcere per tentato omicidio, ma Rosaria Aprea, ventenne casertana non ha dubbi: «Non voleva sicuramente farmi male» dice al Corriere del Mezzogiorno «Ci amiamo e non vedevamo l’ora di andare a vivere insieme con nostro figlio. Sto male al pensiero che sia rinchiuso in carcere. Vorrei poterlo incontrare perché sono certa che si è pentito. Vorrei potergli dire da vicino: mi manchi tanto, vorrei tornare a passare le nostre serate assieme sul divano della tavernetta». (la denuncia potrà anche ritirarla, ma non serve: per tentato omicidio la Procura procede d’ufficio).
Lo sconcertante “voltafaccia” di Rosaria mi fa tornare in mente la storia di quella settantenne milanese che aveva denunciato il marito per averla accoltellata, e qualche mese dopo aveva chiesto al Gip che concedesse all’uomo un permesso “per passare il Natale insieme”. O la protagonista del film “East is East”, inglese sposata con un pakistano manesco: dopo l’ennesima violenza contro la madre i figli si rivoltano contro il padre, ma lei difende il suo aguzzino.
I comportamenti di queste donne -della stragrande maggioranza delle donne abusate che non sporge denuncia, o di quelle che la denuncia la ritirano- non vanno giudicati, ma attentamente interrogati (va peraltro detto che se a Milano, e verosimilmente anche nel resto del Paese, più di metà delle denunce per maltrattamenti o per stalking viene archiviata senza alcun atto d’indagine, spesso denunciare serve solo a esacerbare gli aguzzini).
Rosaria sta dicendo questo: non voglio una vita peggiore -il carcere- per lui; quello che voglio è una vita migliore per tutti noi. Voglio la tavernetta, e i giochi con il bambino. Quello che mi ha fatto è stata una violenza, ma lui NON E’ un violento.
C’è la speranza di poter salvare la relazione, di cacciare fuori dalla storia tutti quelli che sono intervenuti nel momento dell’emergenza e riprendere il filo interrotto dell’amore. C’è il desiderio di cancellare quello che è capitato, e di farcela da soli, lei e lui senza l’incomodo di terzi, a uscire dai guai (e invece senza un terzo non se ne esce). C’è l’ingenua caparbietà del sogno d’amore -la ragazza ha vent’anni-, e c’è un bambino, che soffrirebbe ad avere il padre in galera.
Queste donne sbagliano un sacco di cose, certo. Ma c’è in loro anche una tenacia nella ricerca delle mediazioni, il tentativo di non distruggere tutto, di farcela a uscirne insieme. C’è il non affidarsi del tutto alla “legge che fa chiagnere”, per dirla con Filumena, la nostra Antigone, la legge che taglia i bambini a metà, che mette in galera e che recide i fili. C’è una pazza ostinazione nel ricucire, nel rilanciare, nel credere che l’amore alla fine l’avrà vinta.
E questa non è tutta roba da buttare, insieme all’acqua sporca della violenza maschile.
Conversando con Vandana Shiva, le ho detto che il patriarca in declino è un animale morente. E lei mi ha risposto: “Un animale morente è sempre feroce. C’è solo un modo per fronteggiarlo: non-violenza, compassione. Diversamente saremo specchi che riflettono quella paura, quella violenza. E fermeremo il cambiamento”.