marina abramovic e ulay, performance

marina abramovic e ulay, performance

La prima cosa che ho pensato, leggendo il discorso del Patriarca Angelo Scola ai veneziani per la bella festa del Redentore, è che il puro sesso è davvero un pessimo investimento. Sempre che esista un sesso in questo supposto stato di “purezza”: il nostro ambiente naturale è il simbolico; per noi, bizzarri animali, le cose, e perfino gli istinti, cominciano a essere solo dal momento in cui gli diamo un nome.
“Normati” e costretti per la vita, anche da vecchi, a rincorrere quel piacere momentaneo; un sacco di energie spese per allestire fuggevoli rendez-vous. Ma fin dai primi e provvisori bilanci esistenziali, ti rendi conto che è già un successo se di quelle circostanze roventi te ne ricordi un paio.
Un tempo il consumismo sessuale tentava solo l’umanità maschile. Gli si davano altri nomi –collezionismo, dongiovannismo– e forse, tutto sommato, qualcosa di sacro resisteva. Oggi il sesso è dappertutto, nella triste e diffusa provincia dei ragionieri scambisti e dei sabati al privé. Ma se il sesso è dappertutto, come dice Charles Melman, allievo di Lacan, vuole dire che non è più al centro. E questo è un guaio per la nostra identità.
Oggi anche l’umanità femminile si dà al raunch e alla caccia grossa, “liberata” nel corso della cosiddetta rivoluzione sessuale, storico imprinting dell’omologazione tra i sessi. E allora, ti dicono tanti ragazzi, meglio una bella partita di pallone, una sgambata in montagna, casomai una sbronza nel week-end. E tocca a un cardinale ricordarci che cos’è il desiderio, il godimento, il “bell’amore”.
Una sera a cena due di questi ragazzi, due ventenni fatti con il pennello e assediati da fanciulle con il piercing ombelicale, mi dicono che di tutto questo ne hanno abbastanza. Che vorrebbero qualcosa di diverso, qualcosa che duri, un’amica, una consolazione, una carezza, un progetto. Una con cui puoi parlare di tutto, perfino di figli, perché dicono di volerne due o anche tre, non come noi baby boomer che ci siamo sterilizzati in tutti i modi possibili. Ma dicono anche che “di ragazze così non se ne trovano”, consapevoli del fatto che se per loro sarà difficile trovare un posto fisso, figuriamoci un amore fisso. Poi non chiediamoci perché si sbronzino.
Il Patriarca vive nel celibato sacerdotale, ma la relazione, il legame, il matrimonio, il “caso serio dell’amore” sono da molto tempo al centro del suo magistero. In cerca di quella ragionevole felicità che si incontra solo quando si smette di credere nell’individuo irrelato, triste chimera che ci sta divorando e che oggi seduce più le donne, neofite dell’individualità, che gli uomini. Convinte di poter fare tutto da sole, lavoro, casa e anche figli, da tirare su senza l’ingombro di un padre, tendono a diventare loro stesse la copia conforme di quegli uomini da cui si tengono accuratamente lontane. Il rischio dunque è che l’esito di quella millenaria “perversione” dei rapporti tra i sessi (giudizio inequivoco di Joseph Ratzinger) che è stato il dominio dell’uomo sulla donna, sia una perversione ben più subdola e sottile, una nuova e più perfetta forma di dominio: l’asservimento delle donne al modo maschile di concepire la sessualità, le relazioni, il lavoro, il mondo.
Il concetto di emancipazione trattiene in sé e ipostatizza l’idea della schiavitù.
La donna ha sempre tenuto il posto dell’altro, e gli ha sempre fatto spazio in sé. Ma se anche lei si scorda vendicativamente di questo, se non vuole più essere l’Altra ed elimina l’Altro dalla sua strada, se non è più lì a testimoniare con il suo corpo schiuso quella radicale apertura che è il soggetto umano, inestricabile dal suo oggetto (certa psicoanalisi è giunta a parlare di oggetti-sé), quel dinamismo spirituale che nell’esperienza della maternità diventa carne, chi lo farà al suo posto suo?
Viviamo in un affascinante tempo di lotta tra l’epica dell’individuo e il “bell’amore” di cui ci parla Scola, quella relazionalità che ci segna fin nella nostra fisiologia più minuta, e che neuroscienze e scienza sociale, da Giacomo Rizzolatti a Jeremy Rifkin, classificano come empatia. In questa lotta la questione della differenza sessuale e del rapporto con il nostro primo altro -l’uomo per la donna, e la donna per l’uomo- è un passaggio decisivo. Oggi il lavoro grosso tocca agli uomini, che devono abdicare dall’assoluto e riconoscersi come differenza, alla ricerca di un’identità maschile che rinunci al dominio; ma anche per le donne c’è molto da fare. Prima di tutto riscoprire che “la maternità è il viaggio”, come diceva Carla Lonzi, geniale pioniera di quel femminismo della differenza che il Patriarca mostra di conoscere bene.
Molte parti del suo bel discorso per il Redentore si prestano a essere lette in chiave di appello a un femminile minacciato di estinzione, che lui vede incarnato soprattutto nell’avventura di Maria, a cui ha dedicato il suo ultimo libro. Anche là dove parla del consumismo sessuale, di quella “smania del tutto e subito” radicata nella paura della morte. Il paradosso è questo: che per sfuggire alla morte ci manteniamo al suo cospetto per tutto il tempo. Che per paura di morire anticipiamo la morte scegliendo la solitudine, e mandiamo a morte le relazioni, o meglio non le facciamo neanche nascere, e non facciamo nascere più nulla. Ma questo tenersi lontani dalla nascita, categoria cara ad Hannah Arendt (e lontani dalla rinascita cristiana, mediante la Resurrezione, in una vita non più minacciata dalla morte), non può forse essere letto come eccesso di maschilità del mondo?
Scola conclude parlando di castità, e riconducendo il termine al suo significato originario, che non è quello di privazione, ma vuole semplicemente dire “tenere pulito, in ordine”, attività che le donne hanno sempre praticato con pazienza meticolosa. Il senso di questa misura e di questa regola ce lo portiamo misteriosamente dentro, come un’impronta indelebile. Perfino certi sesso-dipendenti, tipo David Kepesh e altri disperati protagonisti dei romanzi dello spiritualissimo Philip Roth, con il loro disordine compulsivo non fanno altro che testimoniare la struggente mancanza del “bell’amore”, agitandosi intorno al vuoto scavato dalla mancanza di Dio.

pubblicato su Il Foglio il 21 luglio 2010