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#paris

jihad, scuola Novembre 19, 2015

Il non-minuto di silenzio delle 6 studentesse musulmane di Varese

Mi chiedo che cos’avrei fatto al posto dell’insegnante delle sei quindicenni musulmane che in un istituto tecnico di Varese si sono rifiutate di aderire al minuto di silenzio per le vittime parigine. Lei non le ha ostacolate, ha consentito loro di uscire dall’aula, e al loro rientro ha ritenuto di discuterne con la classe.

“Volevano capire perché commemorare solo Parigi e non l’aereo russo o Beirut” ha spiegato la prof. “Il gesto è stato una richiesta di aiuto a capire quale sia la discriminante nella valutazione dei morti”.

Probabilmente mi sarei comportata come lei: avrei consentito alle ragazze di uscire di classe e di manifestare liberamente il loro punto di vista, e poi avrei aperto la discussione. Per concluderla, possibilmente, invitando tutta la classe a ripetere il minuto di silenzio dedicandolo anche alle vittime dell’aereo russo e di Beirut, e a tutte le vittime del terrorismo jihadista e di ogni terrorismo.

Non ho informazioni precise, ma non credo che sia andata in questo modo.

Se non intendiamo aderire immediatamente e senza farci ulteriori domande alla spiegazione più autoconsolatoria, si dovrebbe riconoscere che restano molti dubbi aperti sulla motivazione del gesto, così come è stata espressa dall’insegnante.

Perché le ragazze non hanno semplicemente chiesto di estendere la commemorazione anche alle altre vittime? Come si è formato in loro il convincimento che fosse necessario un atto così forte -rifiutarsi di onorare la memoria delle vittime della barbarie jihadista-? Quando l’hanno concordato? E’ stata una decisione autonoma o c’entrano le famiglie? In quali discorsi si è formata la loro decisione? Esiste in quelle ragazze anche solo il germe di quell’identificazione solidale con gli shahid che si è manifestata nei fischi e nelle grida dei tifosi turchi allo stadio di Istanbul? E se sì, perché sei ragazze di quindici anni dovrebbero eventualmente voler considerare le “ragioni” dei terroristi?

Mi pare che il lavoro importantissimo della prof –e di moltissimi altri prof di questo Paese- cominci proprio adesso.

jihad, Politica Novembre 17, 2015

Perché esitiamo a chiamare nazisti i nazisti di Isis

Se sui social network tu provi a definire i terroristi di Isis “nazisti criminali” (è quello che sono), a meno che tu non ti stia rivolgendo a una platea destrorsa raccoglierai ben pochi “mi piace”. L’obiezione che serpeggia la sintetizzerei così: “Si deve essere lucidi e carcare di usare la testa“. Come se non equivalesse a usare la testa -profferendo un preciso giudizio etico, politico e storico- il fatto definire nazisti degli sgozzatori spietati, violentatori e aguzzini di donne e bambine, massacratori di innocenti cristiani, ebrei, yazidi e anche musulmani, assassini di gente che dopo una settimana di lavoro si stava mangiucchiando un piatto cambogiano low cost o si stava godendo un concerto.

La cosa me la spiego così: quando tu dai a qualcuno del nazista stai pronunciando un giudizio inappellabile e definitivo. Un nazista è la catastrofe dell’umano, è quanto di peggio la storia abbia conosciuto, è l’oscurità totale, la caduta definitiva del senso. E’ la disastrosa banalità del male. Se invece tu esiti a dare del nazista a chi, nei fatti, si sta comportando come un nazista, vuol dire che la tua condanna mantiene una riserva, c’è sempre qualche “se” e qualche “ma”, quando non un sottile, ambiguo e inconfessato masochistico sentimento di comprensione per gli spietati macellai.

Che vanno capiti perché sono per lo più dei poveracci di seconda generazione venuti su nei ghetti e nelle banlieu (anche se poi Jihadi John era figlio della media borghesia londinese), vanno capiti perché l’humus in cui prosperano sono gli errori capitali dell’Occidente colonialista e sfruttatore, vanno capiti perché ci sembrano l’evoluzione tecnologica e social delle Intifade per cui abbiamo fatto il tifo, perché sono nemici del “cattivo” Israele e forse anche del capitalismo neoliberista.

Sento correre questi sentimenti in parte della sinistra e ne sono orripilata. Sentimenti che fanno il paio con un eccesso di silenzio, salvo magnifiche eccezioni, di buona parte comunità islamiche: perfino il moderato Romano Prodi ha ammesso che di fronte alla strage parigina qualche voce in più se la sarebbe aspettata.

Può benissimo essere che i reattivi droni americani, i cacciabombardieri francesi e la navi russe del giorno dopo non siano affatto “la” soluzione, può essere che servano per esempio vere politiche comunitarie europee, compreso un miglior coordinamento delle intelligence, e che si debbano riservare le nostre migliori energie alle politiche di integrazione e di educazione, che si debba stroncare il commercio di armi, che si debba smettere di comprare petrolio prodotto nei territori controllati dal Califfato. Tutto questo certamente è importante e dobbiamo fare in modo che si realizzi.

Ma gli uomini di Isis sono e restano dei nazisti assassini. Su questo non può esserci nessuna incertezza.

P.S: un esempio, stamattina, ci ciò che intendo. A Radio Popolare il conduttore parla di ‪#‎Isis‬ come di fascisti.Un ascoltatore: no, loro sono i partigiani.

Aggiornamento ore 17.00: lo psicoanalista Boris Cyrulnik parla della similitudine Isis-nazismo.

jihad Novembre 14, 2015

La bomba umana jihadista (che piange prima di morire) #Paris

Perché poi un terrorista kamikaze è questo. (guardate il filmato, l’immagine è un fotogramma)

Un ragazzino di 20 anni mandato a morire perché Allah è grande, perché lo hanno convinto che il jihadista non muore davvero (“Non considerate morti coloro che sono stati uccisi sul sentiero di Allah, sono invece vivi e godono della provvidenza del loro Signore“, Corano, terza Sura, versetto 169), ma che un momento prima di partire per la sua missione scoppia in un pianto disperato, perché inaspettatamente la vita gli urla dentro.

Come si può fermare uno shahid, un martire (letteralmente: testimone della fede)? Che cosa può essere più forte di ciò che appare come una fede titanica, al punto da rendere desiderabile il martirio, e di cui noi non abbiamo più nemmeno gli indizi?

In mancanza di ragazzi come questo, l’azione orrenda di  jihad che ha colpito il cuore dell’Europa non sarebbe stata nemmeno immaginabile.

La bomba umana è la più intelligente delle armi intelligenti, costa molto poco, è efficace ed è in grado di cambiare traiettoria fino all’ultimo secondo, non si riesce a intercettare, sfugge all’intelligence.

La bomba umana è fatta di umiliazione, di rabbia, di gioventù, di intemperanze ormonali, del non credere più che convenga cercare qualche America. Del fatto di essere trattato come un eroe per tutto il tempo della preparazione e fino al momento dell’azione. Dell’onore, forse anche dei soldi che toccheranno alla famiglia in conseguenza del sacrificio. Della prevalenza della comunità (umma, la stessa radice di umm, madre) sul singolo: altra cosa difficile da comprendere per la nostra cultura individualistica e “dirittistica”.

Soprattutto è fatta dell’enorme potere di condizionamento da parte delle organizzazioni jihadiste: secondo Scott Atran, ricercatore francese, il condizionamento assoluto, simile a quello che avviene in una setta. è il fattore decisivo.

Come si ferma uno shahid? Che cosa dobbiamo essere capaci di dirgli, per convincerlo a vivere e a non uccidere? E come dirglielo? Qual è il punto che stiamo mancando? Quale la strategia che non stiamo attuando? Ed è pensabile poter procedere per via di umanità?

Quel pianto ci dà qualche indizio? Non somiglia, quel maledetto piagnucoloso bambino assassino, a uno dei nostri figli?

Dov’era sua madre, in quel momento? Che cosa è stato fatto a lei, per ridurla al silenzio?