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paola bacchiddu

Donne e Uomini, Libri, media, Politica Maggio 14, 2014

Il fascino discreto del puttanismo

 

Annalisa Chirico, autrice di “Siamo tutti puttane” (a sinistra) e l’ormai immancabile Paola Bacchiddu, stranissima capa comunicazione della Lista Tsipras

Ci ho riflettuto un po’: ignorare? Poi ho pensato che di libri se ne vendono talmente pochi che anche quello di Annalisa Chirico non farà eccezione, e non sarà certo il fatto che ne scriva io a cambiarne la sorte. Quello che conta è l’indotto, il marketing: anzitutto il titolo, i passaggi in tv, il nome che circola, la firma che si consolida. E questo indotto è ormai assicurato, e il dibattito scatenato. Nel nostro Paese pornofilo e morbosetto il titolo “Siamo tutti puttane-Contro la dittatura del politicamente corretto” basta e avanza per fare il caso (lo sto ancora aspettando da Marsilio, non sono in grado di entrare nel dettaglio, mi riprometto di farlo: ma non voglio rimandare un post sul puttanismo con la sua vistosa fenomenologia).

L’ambizione femminile è sacrosanta –anche se troppa no- specialmente quando ci sono delle qualità: Chirico è una brava giornalista di nemmeno trent’anni, formazione radicale e libertaria, si è occupata molto di carceri e di giustizia, temi che non assicurano un’audience vastissima anche quando sei molto capace. C’è un orologio biologico anche nelle professioni, e a un certo punto devi svoltare. Il sistema mediatico resta saldamente in mani maschili, e non c’è niente che piaccia di più agli uomini di una donna che ammetta in modo complice il connaturato puttanismo femminile (con l’ovvia eccezione delle loro madri, mogli e sorelle), cioè quella disposizione a offrire il proprio corpo in cambio di vantaggi materiali: soldi, carte di credito, una macchina, un appartamentino, ma oggi soprattutto una carriera (l’emancipazione qualche variazione sui benefit l’ha apportata).

Non è una esattamente una notizia. Ci sono sempre state quelle che del loro corpo hanno ampiamente approfittato, anche nel nostro mestiere: potrei fare una sfilza di nomi e cognomi (ma mi querelerebbero) di colleghe che si sono aggiudicate una carriera, in genere piuttosto modesta e a termine, offrendosi ai loro capi. Sul momento, sarà capitato anche a Chirico, la cosa può innervosire, specie se sei più brava di loro. Ma portarsi addosso quello stigma –tutti sanno tutto- è una grande fatica. E se vali poco, poco continui a valere, specie quando il naturale sfiorimento fisico diminuisce le tue opportunità.

Ma l’avvento della libertà femminile, grazie alle madri di tutte noi –pure di Chirico- ha diminuito enormemente la necessità di ricorrere a certi espedienti per campare o per vivere bene. Possiamo guadagnarci il pane, non siamo più obbligate nemmeno a quel minimo fisiologico di puttanismo necessario a trovare un marito. Il corpo femminile può godersela senza doversi dare in-cambio-di. Quindi il puttanismo -sempre lecito, per carità- diminuisce in necessità e quantità (parlo dell’Occidente). Il titolo del libro sarebbe “Siamo sempre meno puttane” (e poi l’anti-political-correctness è roba veramente stravecchia, oggi va di più quel minimo di correttezza). Perché poi doversi dare in-cambio-di raramente è un’esperienza piacevole, specie se coatta, e se possiamo farne a meno è meglio. E’ quello che oggi la stragrande maggioranza di noi madri del West -che stranezza!- insegna alle figlie: NON essere puttane, perché grazie a Dio non ce n’è alcun bisogno per essere libere. E che questo sia un male, be’, è difficile sostenerlo. Il mondo va alla rovescia, ma non così alla rovescia. Per un bel po’ di anni questa pedagogia gentoriale minima ed essenziale ha dovuto vedersela con un bombardamento in senso contrario (corpo in cambio di merce), e non è poi così strano che adesso si pretenda di tenere piuttosto rigorosamente il punto, come in qualunque convalescenza o dopo qualunque eccesso.

Naturale che agli uomini la diminuzione della necessità puttanistica dispiaccia, perché diminuisce il loro potere d’acquisto. Anche la Bestia poteva possedere la Bella, remunerandola adeguatamente. E oggi c’è una quantità crescente di Belle e di Bellissime che non hanno bisogno di nessuno e fanno il gesto dell’ombrello. Qualunque cosa rassicuri gli uomini su questo fronte, per esempio garantire che sotto-sotto o sopra-sopra senza di loro non ce la caviamo, e che siamo sempre disponibili a essere carine, scatena le loro festose ole. Ma questa è una notizia priva di fondamento. Questa è una bufala, detto fra colleghe. La buona novella è che siamo sempre meno necessitate a essere puttane. A me pare buona, almeno.

Catturare l’audience vellicando l’orgoglio maschile ferito, in particolare nelle sue parti basse, non mi pare una strategia strepitosa. Al momento fai il botto, tutti i talk ti vogliono, entri a far parte del girone dei visibili e questo può dare una certa ebbrezza. Ma che io sappia queste cose hanno le gambe corte. E il down può essere bruttino. Attendo comunque il libro per entrare nel merito dei suoi argomenti.

Approfitto dell’occasione per tornare rapidamente sulla vicenda culo-Tsipras: dopo l’ormai celeberrimo e “geniale” bikini con relative gallery, la capa-comunicazione di Tsipras Paola Bacchiddu ritiene di non demordere e anzi rilancia, scattandosi un bel selfie con il libro di Annalisa Chirico. Dunque, vediamo, perché mi pare ci sia un bel po’ di confusione: la capa comunicazione della lista Tsipras sostiene Chirico, berlusconiana fervida e apertamente schierata, nientemeno che contro Barbara Spinelli, che della lista Tsipras è fondatrice e candidata, oltre che contro altre “veterofemministe” di cui la lista Tsipras presenta un discreto campionario,

Qualcuno spieghi a Paola Bacchiddu: a) che il compito di un ufficio stampa è dare visibilità al suo “cliente” -e non a se stesso- restando dietro le quinte   b) che normalmente un ufficio stampa sta dalla parte del cliente, e non dei suoi antagonisti dichiarati   c) che di fare la comunicazione di Tsipras non gliel’ha ordinato il dottore.

Ma magari sbaglio io. Sono tempi strani.

 

Aggiornamento venerdì 16 maggio:

il libro mi è arrivato, l’ho letto. Per fortuna è uno di quei libri che, diciamo così, si recensiscono da soli: temo che davvero con parole mie  non gli farei un buon servizio. Mi limito a riportarne alcuni passaggi significativi, che possono dare un’idea del tutto.

“ditemi chi tra voi non si sente un po’ puttana, suvvia, almeno un po’”.

“Siamo tutti puttane è un grido di coscienza, un’affermazione disinibita del sacro e inviolabile diritto di darla per interesse o per convenienza”.

“La differenza cruciale tra una puttana e una moglie sta nella durata”.

“Drive In è stato un autentico romanzo di formazione”.

“Le veterofemministe relegano la donna al ruolo di angelo del focolare”.

“Berlusconi… rivendica il diritto a una sfera privata ingiustamente violata”.

“Queste ragazze (quelle dei festini di Arcore, ndr) non si allineano al pensiero unico femminista, anzi lo sfidano a viso aperto, con una borsa in mano e un collier di perle intorno al collo”.

“Il vibratore… è una formidabile invenzione maschile pensata per le donne”.

“Consentire a qualcuno di vendere sesso è un atto altamente morale perché non abbiamo tutti le medesime possibilità di accesso al rapporto sessuale”.

“La prostituzione consente di migliorare la propria capacità di reddito indipendentemente dal punto di partenza”.

“Ritengo che la prostituzione possa essere un’opzione più che desiderabile… per un calcolo di utilità e di convenienza”.

“Il commercio sessuale serve a tenere in vita il matrimonio”.

“Provo un’autentica stima per la figura di Lina Merlin. Ciò non attenua però il giudizio negativo sulla legge che porta il suo nome”.

“La Donna Qualunque sa di essere seduta su un’impareggiabile fortuna”.

 

Non ho altro da aggiungere.

Femminismo, Politica, pubblicità, questione maschile Maggio 7, 2014

Lato B-sipras

Ho fatto di tutto per resistere -per amicizia, per affetto- e forse ormai sono l’unica giornalista d’Europa a non aver scritto sul tema Tsipras-culo, a questo punto indivisibile, come l’atomo. Ma il titolo di El Mundo sulla vicenda (Una “velina” de Izquierda) mi produce uno sconforto definitivo.

Che ciò che proviene dal Paese delle Veline venga regolarmente interpretato in questa chiave (ho girato per dibattiti vari posti d’Europa, nell’ultimo ventennio, e non c’era modo di parlare d’altro: “Ma è vero che le ragazze italiane vogliono fare tutte le veline?”) , be’, non è così strano. Era un rischio da mettere nel conto. A noi sembra passato un secolo ma il resto del mondo, che ci si è tanto divertito, si attacca nostalgicamente a ogni indizio e vorrebbe che tutto continuasse come prima.

L’unico modo è tagliare di netto con questa roba, e senza pietà. L’unico modo è essere inequivoci e inequivoche. La politica è una cosa, e ha molto bisogno delle donne e del loro sguardo, e anche dei loro corpi, ma giocati per sé, non per il piacere maschile. La seduzione sessuale è un’altra. Entrambe padrone nei rispettivi territori. Le svedesi possono anche permettersi gli sconfinamenti, noi no. Le afghane o anche le Pussy Riot devono permetterseli: lì la resistenza si fa anche dai parrucchieri clandestini o esibendo una spalla. Noi no, non possiamo, come convalescenti a cui anche poco più di un brodino di pollo può fare male. E infatti si è visto: ci è andato di traverso.

Viva il sesso, il corpo, il piacere e pure la lussuria. W chi se la spassa allegramente, e che Dio lo benedica. E del resto il femminismo -altro che veterofemministe- nasce proprio di lì: dal corpo e dal piacere, magari ci si informi prima di blaterare.

Ma come abbiamo detto -come la più grande manifestazione del dopoguerra, il 13 febbraio, ha gridato, come quel moto quasi risorgimentale ha testimoniato-: basta scambi tra i due territori, basta con i favori sessuali in cambio di un posto al sole, e mi pare di dire cose talmente ovvie che mi annoio da sola. Non siamo ancora guariti, tanto che un povero bikini fa saltare per aria la campagna elettorale. Tanto che basta non essere del tutto cessa perché qualcuno sospetti o, peggio, si permetta quello che abbiamo visto che tanti si sono permessi nei confronti di deputate, ministre e via dicendo (il repertorio è tutto illustrato in questo blog, buon viaggio). Qualunque cosa faccia pensare a quello, meglio di no.

Per questo, appena intravisto l’ormai celebre bikini per Tsipras mi sono permessa di sconsigliare Paola Bacchiddu, che è una giovane giornalista intelligente e in questo momento coordina la comunicazione per quella lista: tipo Cassandra, avevo immaginato quello che sarebbe capitato. Be’, ero stata ottimista (mi sono anche beccata una rispostaccia fuori tema).

Quasi nessuno, in questo Paese afflitto da analfabetismo di ritorno, sa chi sia il signor Tsipras e che cosa voglia da noi. Ma il bikini per Tsipras è stato elogiato perfino da Libero e da Bruno Vespa, che forse troppo tsiprasiani non sono, e la piccola idea è diventata immortale.

Dico piccola idea e non “geniale” idea, come definita da tanti, perché troppo idea forse non è: senza menzionare quella cosa che tira più di un carro di buoi, mi limito alle campagne di Cetto Laqualunque. Il corpo femminile è bello, accende il desiderio, fa vendere (per la pubblicità, per la tv, per i giornali la dignità femminile costituisce una catastrofe economica, tant’è che il famoso bikini, come in un loop angosciante, è stato ripreso su tutte le homepage, corredato di gallery di tutti gli altri bikini della giornalista) e, come abbiamo visto per un paio di decenni, fa anche votare.

Qui l’intento era spiritoso, certo. Ma oggi non ci sono le condizioni per certe uscite di spirito. Non ci sono ancora. Forse un giorno ci saranno. Ma al momento mi pare proprio di no. La cosa ha certamente rotto il silenzio mediatico -scandaloso- su Tsipras: personalmente mi auguro che la lista passi la soglia di sbarramento, e in particolare penso a un paio di candidate che mi piacerebbe vedere in Europa. Ma ha rotto il silenzio per dire che cosa? Giusto per segnalare il silenzio mediatico. Che continua su tutto il resto, salvo che per il bikini.

Questo servirà a portare i voti che servono? Qualche voto di donne, lo so per certo, elettorato molto importante per quella lista, è andato perduto. Speriamo compensato da qualche altro voto: ma su questo non ho prove certe. E comunque -per carità, non si butta via niente- ma che voti sarebbero? A occhio l’operazione non mi sembra riuscitissima.

Infine mi è molto spiaciuto che per difendere l’iniziativa si siano tirate in ballo le “veterofemministe che hanno fatto carriera passando dal letto dei potenti”, accusate di moralismo suoristico. Intanto perché il soggetto (la veterofemminista) andrebbe definito con maggiore precisione: chi sono? le femministe in menopausa? o le più vecchie? quelle che hanno reso possibile anche la nostra libertà? le madri di tutte noi? Quanto poi alla carriera, dovrebbe essere arcinoto che l’essere femminista non l’agevola affatto -semmai funziona bene il non esserlo- e infatti di anziane femministe quasi indigenti ne conosco alcune. E di quali diavolo di “potenti” si parla? E di quale diavolo di moralismo si va cianciando, donne che  per la loro gioia sessuale ne hanno fatte più di Bertoldo -avete presente la sex revolution– quando oggi mi pare di vedere una marea di ragazze andare in bianco?

Si è perfino sciaguratamente tirato in ballo il docufilm “Il corpo delle donne” come pietra miliare dell’irriducibile moralismo -sul quale docufilm, per carità, è legittimo esprimere qualsivoglia giudizio-. Si sarebbe tuttavia dovuto tenere conto del fatto che l’autrice di quel docufilm, Lorella Zanardo, è candidata proprio nella lista Tsipras, e forse non è stata un’ideona non pensarci prima.

E condannarla, lei e le altre candidate femministe, perché ce ne sono altre, a sprecare anche quei due minuti di visibilità che saranno loro concessi per parlare di un bikini, e non dei loro temi. Che forse, per le vite di tutte e tutti, pesano un po’ di più.

 

Politica, TEMPI MODERNI Giugno 9, 2013

Delusione arancione: lettere da Milano

Cara Paola,

mentre contemplavo la buca che ho da anni davanti a casa –mi ci sono affezionata, le voglio bene, guai a chi me la aggiusta!- pensavo che questa cosa di Milano degelatizzata ci sta dando la misura esatta della diffusa delusione nei confronti di questa giunta, per la quale molte e molti di noi hanno lottato tanto. Gente di Napoli che chiama amici e parenti emigrati qui: “Maro’! Manco o’ gelato!”. Poi il sindaco è costretto a precisare: ma no, c’è un equivoco… Tant’è.

La festa, l’arancione, il doppio arcobaleno… sì, ciao. Mia mamma, che di sindaci ne ha visti tanti, lo dice in una sintesi efficace: “Par che el sindich el gh’è no”. “Pare che il sindaco non ci sia neanche”: traduco per te, ragazza sarda flamboyant che vivi a Milano, e perciò milanese perfettissima come me che sono il solito miscuglio imbarazzante, dalla Germania al profondo Sud con deviazione a Pittsburgh-Pa.

Cara Paola, io vivo in una dead zone con potenziale grandissimo: c’è quel meraviglioso naviglio leonardesco, “la” Martesana, popolato di anatre, aironi, pseudo-castori (le nutrie), cani scodinzolanti, e umani corridori che si fanno al trotto o in bici tutta l’alzaia: si arriva fino all’Adda. Con lo skyline metafisico delle ferrovie e dei treni, circondato da parchi stupendi (l’ex Trotter, Villa Finzi e il Parco Martesana che via via sta venendo su).

Salvo un progetto per l’ex-Trotter, l’abbandono di questa zona -5 minuti 5 di linea rossa da Piazza Duomo-, è assoluto e incomprensibile. Be’, spostati di lì, diranno tanti: vai a vivere in centro, rinuncia ai tuoi pomodori sul terrazzo, al basilico e alla bicicletta.

Vorrei che tu vedessi i meravigliosi magazzini delle ferrovie in via Sammartini, attualmente in dotazione a Grandi Stazioni: una cosa per la quale qualunque sindaco dovrebbe leccarsi i baffi. Potrebbero diventare i nostri docks e configurare una perfetta zona da movida, visto che lì non ci sono case e non dai noia a nessuno, con la “riviera” del Naviglio a pochi metri, e il gelato te lo potresti fare anche alle tre di notte.

I magazzini delle Ferrovie in via Sammartini, meraviglia abbandonata al degrado

Recuperi del genere sono stati già realizzati a Berlino e a Parigi, ça va sans dire. E invece qui non si muove foglia, se non associazioni di volonterosi cittadini che lo scorso we hanno organizzato una festa per vivificare la zona morta. Segnalo anche, se posso, nell’adrianesca via Gluck che fa parte del comprensorio, uno stupendo Museo del Manifesto Cinematografico –ovviamente privato- dove si possono anche organizzare feste ed eventi, con un barettino delizioso dedicato ad Adriano (vai a vederlo, è al numero 45).

I magazzini ferroviari di Parigi, molto simili a quelli di Milano, dopo la ristrutturazione

Faccio questo esempio ma potrei farne mille altri a dimostrazione di un procedere svogliato, stentato e areaC-centrico. E che palle questo centro storico! Che noia, che dead zone, quella sì. Il prossimo sindaco lo vorrei abitante ad Affori, a Turro o all’Ortica, così lo sguardo finalmente cambierebbe. Guidato dal desiderio di portare la bellezza anche a casa sua. Perché la bellezza cambia tutto, è il vettore ed il motore principale di tutto, nel nostro Paese.

Così, sempre contemplando la mia amata buca e le sue compagne -oltre le quali si estende un giardinetto comunale anche lui abbandonato da anni, e se non bastasse circondato da una atroce retazza di plastica arancione forse per farci soffrire di più, o forse perché è arancione- mi pare che a questo sindaco e alla sua giunta oltre ai soldi manchi la potenza del sogno e della visione, manchi l’entusiasmo –come se fossero stati condannati a essere lì-, manchi il progetto politico, che poi significa perseguire la minore infelicità per il maggior numero e immaginare la città in cui questo sia possibile, avere un’idea di città. Ovvero dire definirne l’identità all’orizzonte e perseguirla usque ad sanguinis effusionem. Tutto questo che sta mancando rende la compagine governativa nostrana molto esangue e a tratti perfino un po’ torva: tu prova a fare una critica su come stanno lavorando e vieni automaticamente rubricata tra i nemici del popolo. Come se non fossero all’ascolto, ma in difensiva perenne. Se poi menzioni la cacciata biblica di Stefano Boeri, attivissimo assessore alla Cultura defenestrato senza che ancora ce ne sia stata data spiegazione plausibile a parte il suo caratterino, be’, allora cerchi proprio guai.

Cara Paola, non sono nata borghese. Sono cresciuta in un milieu operaio. La mia infanzia è stata tra le tute blu, rivediti “Romanzo Popolare”: il mio mondo era precisamente quello, le Vincenzine, i manufatti, sveglia alle sette con le sirene della Breda e della Falck e tutto il resto. Un’infanzia in cortile, per strada, al bar, dura e molto felice. Io amo il popolo, so esattamente com’è e che cosa vuole. E non ti dico la noia di ritrovarmi costantemente a colluttare con tanti di questi borghesi “comunisti” e talora guerriglieri del centro storico, che invece di godersi beati i loro molti privilegi –ne ho conosciuti alcuni che volevano andare a lavorare in fabbrica, alla catena, quella dalla quale io e tanti altri abbiamo voluto fuggire, traditori del popolo! e giustamente i genitori li hanno sbattuti in analisi dal professor Musatti-, hanno sempre preteso di insegnare alla sinistra che cos’è la sinistra, e al popolo com’è il popolo e che cosa è giusto per lui: la periferia, le bibliotechine sfigate, i mercati miserabili, le slot machine, i centri massaggi cinesi, i giardinetti spelacchiati con lo scivolo giallo rosso e blu. Mai la bellezza, mai il glamour, eh no, per carità! Perché se no il popolo non è più il popolo come lo pensano loro, se no la periferia non è più la periferia come deve essere. Gli si spostano gli stereotipi e gli viene una labirintite ideologica.

Tu pensa la vecchiezza di ragionare ancora in termini di centro-e-periferia, e non invece in una prospettiva policentrica, in cui ogni zona abbia la sua propria vocazione, il suo proprio centro vivo e pulsante.  Che fine ha fatto, a proposito, il progetto dei Municipi?

Che tristezza, Paola. Che delusione. Che mediocrità. Che provincialismo: con il low cost anche il popolo viaggia, in classe economica, e fa i confronti con il resto del mondo.

Almeno tu ogni tanto nella tua Sardegna ci puoi tornare. Quando ci vai, salutamela.

(questa lettera da-milanese-a-milanese è per Paola Bacchiddu, “giovane” collega che stimo molto e a cui auguro un grande futuro. Paola mi risponde)

 

Cara Marina, innanzitutto ricambio la stima.

Sono arrivata a Milano nel settembre del 1991. Avevo 16 anni. Ricordo ancora gli acquazzoni di quell’autunno – io, che arrivavo da Cagliari – e mio padre che, durante un pranzo, convocò me e le mie sorelle per spiegarci che Milano era “altra cosa” dalle città in cui avevamo abitato finora.
“In che senso?”, chiesi. “Nel senso che non è paragonabile a nessun’altra città”, mi rispose lui.
Ci penso spesso a quella frase che allora non capii. All’epoca, l’ultima coda di quella “Milano da bere” – amministrata dal socialista Paolo Pillitteri – stava per essere spazzata via dalla stagione di Mani Pulite, dopo l’arresto di Mario Chiesa nel febbraio dell’anno successivo. L’immagine di quegli anni sono i lampeggianti azzurri delle volanti che attraversano di corsa la città. Sono gli arresti, continui. E una parola, pronunciata come un mantra liturgico: tangenti. Ricordo anche il primo sindaco leghista, Marco Formentini, dopo la parentesi socialista di Giampiero Borghini e del commissario prefettizio Claudio Gelati. Bossi, il suo leader, urlava “terùn”, dalla piazza prospiciente Palazzo Reale. E mi chiedevo dove fossi precipitata.

Non ho percorso questo amarcord a caso. Quando penso a Formentini, oggi, a vent’anni di distanza, mi ritrovo a esprimerne un giudizio tutto sommato positivo. E questo mi sorprende. Due anni fa, l’ondata arancione dell’attuale sindaco Pisapia si guadagnò nove circoscrizioni su nove. La città era stanca dei dieci anni di gestione di centro-destra, con Albertini e Moratti. Gli associazionismi, i comitati germinati spontaneamente, i partiti politici, gli elettori stessi si erano stretti in un grumo fiducioso attorno a chi prometteva – per la vecchia capitale morale d’Italia – “la grande visione”. Nel suo primo discorso, al teatro Litta, come candidato premier del centro-sinistra, Pisapia parlò di “buche sulle strade”. E io pensai, con scarsa lungimiranza, che un sindaco che intende conquistarsi una città come Milano deve promettere molto più di questo: deve regalarci il sogno o, quantomeno, un orizzonte.

Due anni dopo, invece, con rammarico e uno strano senso del paradosso, noi, che a quel sogno ci avevamo creduto, ci troviamo a lagnarci proprio di quelle buche che la giunta non riesce a riparare, neppure in un’ordinaria amministrazione. Quelle a cui tu sei affezionata, e che io cerco di schivare, a bordo dello scooter, per non spezzarmi il collo in un Corso Sempione non proprio secondario, quanto a viabilità.
Che è successo? L’assessore Majorino risponde attribuendo la responsabilità al patto di stabilità, alla spending review, ai tagli attuati dal Governo centrale, al buco in bilancio lasciato da Letizia Moratti. Il suo collega D’Alfonso risponde alle legittime obiezioni di Marco Vitale (“”manca il progetto, non c’è la visione”), gettando benzina sullo scontento: “La macchina comunale si è rivelata essere un imbarazzante trabiccolo e in due anni siamo riusciti a cambiare poco o nulla”.
La città sembra aver perso tutti gli appuntamenti di gestione ordinaria che si era prefissato di risolvere: la sicurezza, la sporcizia, il traffico, la qualità dei servizi. L’ultima miccia che tu ricordi – un’altra puntuale ordinanza restrittiva per vietare il consumo dei gelati oltre la mezzanotte, allo scopo di evitare “gli assembramenti” nella zona della movida – ha deflagrato lo scontento. Con intempestivi comunicati di smentita che confermano il già deciso e accendono un riflettore su una giunta tesa, nervosa, divisa (ormai, dopo la cacciata di Boeri, non si contano più le tensioni intestine).

Cara Marina, Milano e chi la ama – come te e come me che non ci sono nata ma ho imparato a non poterne più fare a meno – non si meritano, forse, qualcosa di meglio? Mancano 24 mesi ad Expo e io ricordo, ancora con sgomento, le pattuglie di vigili urbani a multare le auto, anche straniere, parcheggiate attorno alla zona di via Savona, durante il salone del Mobile di quest’anno.
Ma perché? Perché trasmettere l’identità di una città che respinge? Perché, come tu ricordi, la Martesana non può essere un fiore all’occhiello che brilla nel cuore di un capoluogo ostaggio di luoghi comuni spesso ingiustificati? A Milano non si lavora, solo. Non si produce, solo. A Milano si vive, si lotta, e ci s’innamora. Milano è forte: nel suo spirito civico, nel suo apparato associazionistico, nelle sue strutture sanitarie (scandali a parte), in quella capacità – in fondo ancora ne è rimasta, anche se siamo in Italia – di consentire una possibilità di successo a chi qui viene ad abitare, e a scommettere sul futuro.
Uno scrittore che amo molto, Sandrone Dazieri, ha scritto in un suo romanzo una cosa che io condivido e che forse non molti comprendono: “Milano non è una città, ma un grumo di lava che ha subito tutte le furie. Che è sterile, come il deserto, e per starci bisogna essere attrezzati. Che non è adatta ai dilettanti. Per questo la amo”.

E allora, Marina cara, perché dovremmo accontentarci di una gestione dilettantistica?