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#marenostrum

jihad, migranti Aprile 18, 2015

12 migranti cristiani annegati: un atto di jihad in mezzo al mare

Un anno fa ho passato una settimana su nave San Giorgio, missione Mare Nostrum. Ho partecipato al recupero di un gran numero di migranti dal Corno d’Africa, i più poveri di tutti. Erano cristiani, e la mattina di Pasqua hanno pregato sul ponte della nave. C’erano anche musulmani che sorbivano tè caldo avvolti nelle metalline fornite dalla Marina Militare, ma miseria e speranza non facevano differenze religiose.

In un solo anno sono cambiate molte cose. Che 12 cristiani siano stati buttati a mare da loro compagni di sventura musulmani è stata una frustata nel mio cuore. Erano musulmani in cerca di approdo e accoglienza sulle rive di un Paese cristiano, in cui la Chiesa ha la sua sede. Questo non ha impedito loro di esercitare l’intolleranza al livello più barbaro e atroce. Se i fatti saranno accertati, quei 12 cristiani annegati segnano un punto di non ritorno.

Nell’anno intercorso tra la mia esperienza e l’uccisione di quei fratelli si è verificata l’escalation dello stato islamico. L’uccisione di 12 disperati di fede cristiana per me non è meno grave dell’eccidio a Charlie Hebdo. Un atto di jihad in mezzo al nostro mare. Non voler vedere quello che è capitato significa perseverare in un’ignavia di comodo.

Quello che è capitato è che l’odio si è radicato anche nel cuore dei più deboli, di chi è costretto a rischiare la pelle traversando molte miglia di mare per conquistare una vita degna. Quei musulmani assassini non erano jihadisti o foreign fighters, ma poveracci senza speranza. Ma per loro quei cristiani non erano più fratelli, ma infedeli da convertire o da ammazzare, tertium non datur. E con la certezza di non correre rischi, perché i “crociati” smidollati sono incapaci di reazione. E anzi, stanno lì sulla riva nord, pronti ad accogliere, nutrire e curare (e anche a fare business sulla carne migrante, e questo è un altro fatto).

Fa male la Presidente della Camera Laura Boldrini a dire che in questo eccidio la questione religiosa è stata irrilevante: il suo intento è certamente buono, ma la strategia è sbagliata.

Numeri alla mano, la comunità cristiana è da tempo la più perseguitata nel mondo: notizia che mi ha colto di sorpresa.

Direi che c’è molta materia su cui riflettere.

 

Questo scrivo oggi nella mia rubrica su Io donna

 

Dopo l’orrenda strage degli studenti in Kenya qualcuno sui social network si è irritato per il fatto che si parlasse di “vittime cristiane”. L’argomento è che i morti sono morti, a prescindere dalla religione di appartenenza, e che sono i musulmani le prime vittime del naziterrorismo islamista.

Vero. Ma nessuno avrebbe obiettato se si fosse parlato di vittime ebree, nel caso in cui il commando avesse attaccato una sinagoga o una scuola ebraica. Specificare invece che si è trattato di cristiani martirizzati in quanto tali è ritenuta da molti un’informazione superflua e in qualche modo scorretta. E suona quasi una provocazione che qualcuno sottolinei, come il sociologo Massimo Introvigne, che quella cristiana è la comunità religiosa oggetto del maggior numero di violenze e discriminazioni nel mondo.

Il motto crociano, “non possiamo non dirci cristiani”, si è pervertito in un “non è il caso di dirci cristiani”, a meno di non essere dei torvi conservatori. Perché dirsi cristiani comporterebbe in automatico (di default, come si dice oggi) l’abdicazione a ogni laicità, la rinuncia a perseguire il progresso, l’assunzione bellicosa delle insegne crociate. Il plauso unanime va a Francesco quando sferza l’avidità umana, e non quando, in una logica giudicata “di parte”, stigmatizza come complice il nostro silenzio di fronte al martirio dei cristiani.

JesuisCharlie, Jesuisjuif, ma Jesuischrétien resta inaudito.

Non c’è niente di male a dirsi cristiani: mi accontenterei di questa rivisitazione di Croce. Non c’è niente di male nel dichiarare la propria fede in un Dio tanto amoroso da farsi uomo e morire per noi. Resta questo, lo scandalo più grande.   

 

 

 

AMARE GLI ALTRI, italia, Politica Febbraio 11, 2015

Migranti, soluzione finale: lasciarli morire in mare

Difficile da credere: ma il traffico di carne migrante è il più colossale business d’Occidente. E se non credete a me credete a Buzzi e a Carminati, che di soldi ce ne hanno fatti parecchi. Leggete il libro di Andrea Di Nicola e Giampaolo Musumeci “Confessioni di un trafficante di uomini” (Chiarelettere). Stroncare il business, che nutre la criminalità organizzata di entrambe le rive del Mediterraneo, e salvare vite umane sono un tutt’uno. Per questo la proposta scandalosa della sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini (andiamo a prenderli là, istituiamo campi profughi e corridoi umanitari con una governance internazionale tanto, come lei dice, “comun­que loro arri­ve­ranno, vivi, morti, anne­gati, morti di freddo, morti di fame, loro ven­gono”) è l’unica proposta sensata.

Almeno 330 i morti di oggi, siamo tornati esattamente al punto di prima, quando dopo la strage del 3 otto­bre 2013, 366 migranti morti, le banchine dell’isola ricoperte di salme, si decise di istituire la missione Mare Nostrum. Se il oggi il Mediterraneo non è una fossa comune –ma siamo sempre in tempo perché lo diventi- è solo grazie alla missione della nostra Marina Militare.

Oggi si replica quel terribile giorno di ottobre, centinaia di corpi allineati sul molo e a cui trovare sepoltura, tutti i lampedusani mobilitati per questo strazio. La scelta di chiudere Mare Nostrum e di arretrare la linea di intervento con Triton è fallimentare. A meno che non si consideri un successo che migliaia e migliaia di esseri umani in fuga dalla guerra e dalla fame crepino in mare, così risolviamo tutti i problemi. A meno che non si ritenga preferibile questa “soluzione finale” (Endlösung), l’acqua invece che i forni, che ricorda quelle perseguite in altri momenti storici.

#notinmyname

 

 

 

AMARE GLI ALTRI, bambini, Politica Dicembre 17, 2014

Mosè nato in mezzo al mare. Su nave Etna, Canale di Sicilia

Mosè, nato in mezzo al mare

Ieri notte a bordo di nave Etna nel Canale di Sicilia è nato Mosè. La mamma è una giovane eritrea di 20 anni, sola, assistita nel parto dalla ginecologa torinese volontaria della Fondazione Francesca Rava NPH Italia Onlus (la Fondazione Rava è da oltre un anno a bordo delle navi MM con oltre 60 medici e infermieri che hanno prestato assistenza a  60.000 persone).

 

La stessa Maita nei giorni scorsi aveva inviato una testimonianza straziante su una storia che invece è finita male.

“Con la luna piena e il mare relativamente calmo gli sbarchi sono assicurati.
Negli ultimi due giorni abbiamo raccolto circa 350 persone che confrontati con i numeri dell’estate sono poca cosa. Questi però sono i più poveri. Un interprete ci ha detto che un viaggio di questi tempi costa circa 1000 euro perchè è su gommoni. In estate costa il doppio perchè è su barconi. In genere d’estate viaggiano i Siriani che adesso non vediamo. Questi profughi sono tutti ragazzi tra i 20 e 25 anni più docili e collaborativi con noi e fra loro. Le donne sono poche e giovani anche loro. I casi più frequenti che vediamo sono di scabbia e ustioni di secondo grado, a volte molto diffuse soprattutto ai glutei e in zona genitale, per la reazione fra acqua di mare e carburante.
In questo gruppo c’è una mamma che ha perso nel viaggio il suo bambino di circa 5 mesi che stava ancora allattando. E’ arrivata sconvolta,in stato confusionale, con un importante ingorgo mammario. 
L’ho accudita facendole una fasciatura contenitiva del seno alla vecchia maniera. Fra qualche ora verrà sbarcata.
Nel piccolo ospedale da campo allestito sul ponte sono accolti un giovane papà di un bimbo di circa due anni. La mamma è partita con loro ma nel viaggio durante la notte ci sono stati dei tafferugli sul loro barcone, si è fatta male. Il marito dice che la moglie è già in ospedale a Lampedusa.
In realtà non ci sono notizie e tutti temiamo il peggio.
Il bimbo è buono e sorridente. Ha riconosciuto i pannollini sul tavolino dove viene cambiato, mangia e beve da solo. Un infermiere gli ha fatto una pallina di cotone e nastro adesivo con cui adesso gioca in infermeria”.
dal Canale di Sicilia, pochi giorni prima di Natale

 

AMARE GLI ALTRI, economics, Politica Aprile 23, 2014

Emergenza migranti: Mare Nostrum potrebbe chiudere prima dell’estate

Pozzallo, Sicilia, domenica di Pasqua: un migrante eritreo bacia la terra appena, sbarcato in porto (foto di Stefano Guindani per Fondazione Francesca Rava)

A bordo di nave San Giorgio c’è il cervello di Mare Nostrum, coordinato dall’ammiraglio Mario Culcasi. La sala operativa ospita lo staff con i responsabili dei vari rami di attività, sempre strettamente interconnessi, dalla pianificazione al legal advisor. Scopo della missione è garantire la salvaguardia della vita in mare e assicurare alla giustizia chi lucra sul traffico umano.

Un po’ di numeri di Mare Nostrum, che ha appena compiuto 6 mesi e impegna 779 militari, oltre a Polizia, Guardia di Finanza, team dell’ufficio immigrazione, mediatori culturali e squadra di fotosegnalazione (l’attività di identificazione dei migranti comincia a bordo), affiancati da volontari come quelli della Fondazione Francesca Rava (contattabile qui). Insieme alla San Giorgio, che ospita anche un’infermeria attrezzata con sale chirurgiche e un servizio di telemedicina connesso all’ospedale militare romano del Celio, altre 4 navi (Espero, Aliseo, Cassiopea e Sirio) perlustrano ininterrottamente un’area di mare di 71 mila km quadrati (3 volte la Sicilia) con l’ausilio di elicotteri e  natanti per lo sbarco dei naufraghi. Sono impegnati anche velivoli della Marina e della Polizia dislocati a Catania e Sigonella, e un drone.

Dopo essere stati assistiti e rifocillati, e dopo una prima identificazione, i migranti vengono sbarcati in genere nel giro di 12-15 ore: Lampedusa si raggiungerebbe più velocemente, ma attualmente è chiusa agli sbarchi per lavori nel centro di accoglienza e sulle banchine. I migranti salvati sono stati 28 mila in 6 mesi (compresi quelli, circa il 25 per cento, recuperati dalla Gdf, da pescherecci e mercantili).Nel 10 per cento dei casi si tratta di donne. Un altro 10 per cento è costituito da minori, molti dei quali non accompagnati. 78 scafisti sono stati identificati e arrestati.

I migranti vengono imbarcati prevalentemente in Libia, ma anche in Tunisia, in Egitto e più raramente dalla Grecia e dalla Turchia. Provengono in gran parte dal Corno d’Africa, dall’Africa sub-sahariana e dalla Siria, da dove partono intere famiglie in fuga dalla guerra. I porti di sbarco sono prevalentemente Augusta (Sr), Pozzallo (Rg) e Porto Empedocle (Ag)

La missione è costata finora 54 milioni, 9 milioni al mese, interamente stanziati dalla Marina Militare Italiana. Secondo l’ammiraglio Culcasi il dispositivo è ben bilanciato, ma per garantirne la continuità servono nuovi fondi, soprattutto per il carburante e per la manutenzione delle navi.

 

L’ammiraglio Filippo Maria Foffi è il Comandante in Capo della Squadra Navale. Gli chiedo se Mare Nostrum durerà ancora a lungo.

Potremmo dover cessare le attività a fine giugno-inizio luglio, qualora l’Europa non si rendesse conto che lo sforzo che stiamo compiendo va condiviso (il che significherebbe la strage dei migranti, ndr). Quello dei migranti non può essere inteso come un problema italiano: stiamo controllando il confine sud del continente europeo, e stiamo salvando decine di migliaia di vite umane. Ma se avessimo dovuto attendere finanziamenti dedicati la missione non sarebbe mai partita, e dopo la tragedia di Lampedusa non potevamo più aspettare. Siamo orgogliosi del lavoro che stiamo facendo, e vediamo con soddisfazione crescere un’opinione pubblica favorevole. D’altro canto siamo anche perfettamente consapevoli di non costituire la soluzione ai problemi che sono all’origine di questi flussi: siamo l’aspirina, non la terapia. Alla base di queste grandi migrazioni ci sono crisi economiche devastanti e situazioni di guerra. Noi facciamo la nostra parte, ma il problema dei flussi deve essere affrontato e governato dalle Nazioni Unite, che a quanto pare tardano a mettere a fuoco soluzioni efficaci, insieme a organizzazioni regionali come l’UE e l’Unione Africana, allo scopo di mettere al sicuro centinaia di migliaia di esseri umani in mano a milizie che lucrano su questo traffico. Ci sono migranti che al momento di imbarcarsi esitano per il terrore di dover affrontare il mare aperto, ma vengono minacciati, picchiati e perfino torturati con elettrodi. Molti magistrati esperti di diritto internazionale ritengono che questa catastrofe umanitaria debba essere formalmente classificata come un capitolo della tratta degli schiavi, e affrontata con gli strumenti che si adottano in queste circostanze. Non è compito di Mare Nostrum, che è un dispositivo di sorveglianza e di salvataggio. Ho partecipato a riunioni di coordinamento con il governo e posso testimoniare una grandissima sensibilità sulla questione, con l’obiettivo di utilizzare l’imminente semestre italiano di presidenza UE per richiamare alle loro responsabilità sia l’Europa sia le Nazioni Unite. Mi conforta l’attenzione crescente dell’opinione pubblica e dei media internazionali: la Germania sta facendo documentari su Mare Nostrum, esempio della capacità italiana di essere ad un tempo “coraggiosi e buoni”. Non esiste al mondo una nazione che fa quello che stiamo facendo noi, con tanto entusiasmo e tanta dedizione, spingendosi fino a 400 miglia dalle coste della Sicilia”.

Interpellata a riguardo, Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa in prima fila da anni sul fronte migrazione, ha dichiarato al Corriere della Sera che “occorre un Mare Nostrum 2” a terra, “sulla terraferma e sulle due coste”, perché una volta che le navi sono attraccate con il carico di migranti “non c’è quasi niente oltre alle banchine”. E ha chiesto anche che le navi vadano direttamente a recuperare i migranti “nei porti di Tripoli o di altre città africane tagliando così il business dei trafficanti”.

Una medica volontaria della Fondazione Francesca Rava con un piccolo salvato

 

 

 

AMARE GLI ALTRI, economics, italia, Politica Aprile 21, 2014

Migranti: lo sbarco di Pasqua

Emma Bajardi, volontaria della Fondazione Francesca Rava con un piccolo migrante a bordo della nave Espero

Il viaggio dei migranti eritrei  non è durato giorni o settimane. Il viaggio è durato mesi e mesi. Passando per Khartoum, Sudan, dove i più fortunati sono riusciti a trovare un lavoro per racimolare almeno parte della somma necessaria a pagare il “passaggio” sui barconi: gli altri soldi li hanno avuti dai parenti già emigrati in Europa, o sono un “investimento” dalle famiglie, un’assicurazione sul futuro. Poi da Khartoum la traversata del deserto fino alle coste libiche, dove i migranti in arrivo dal Corno D’Africa o dalla Siria vengono catturati, imprigionati in campi di detenzione, picchiati, torturati, le donne violentate: l’organizzazione criminale ramificata che specula sulla disperazione è uno dei principali business della Libia di oggi. Vogliono soldi, tutti quelli che riescono a estorcere, per assicurare il viaggio verso le coste nord del Mediterraneo.

L’esodo di Daniele, 22 anni -si è dato un nome italiano per facilitarci- è durato 8 mesi. Il passaggio sul barcone gli è costato 1650 dollari. Con quelle 4 parole italiane che ha a disposizione dice che in Libia sono “tutti ladri”, continua a ripetere che erano anche poliziotti e militari, ma “con maschera”, in faccia non li ha visti. Nei campi di detenzione, in attesa di imbarcarsi, è rimasto tre settimane. Tanto “picchiare”, un pane e un po’ di acqua quanto meno per tenerli vivi.

Nave San Giorgio ci sbarca ad Augusta. Dopo i recuperi biblici del 7-8-9 aprile, quasi 7 mila persone, il traffico si è momentaneamente fermato. Le condizioni del mare sono state proibitive. Anche per la settimana entrante si prevede tempesta. Ma a Sabato Santo e a Pasqua il maltempo ha dato una breve tregua. Veniamo avvisati che gli scafisti potrebbero approfittare di questa breve finestra di mare buono per far partire dei barconi. Attendiamo ad Augusta, finché non arriva la conferma: due barconi sono in viaggio, la fregata Espero e il pattugliatore Cassiopea si stanno dirigendo a recuperarli. Sbarcheranno a Pozzallo, nel Ragusano, estremo sud della Sicilia.

Ci trasferiamo da Augusta a Pozzallo e la mattina presto una motovedetta della Capitaneria di Porto ci permette di raggiungere la nave Espero, all’ancora con il suo carico umano a poche miglia dal porto. Il pilota della motovedetta taglia corto: “Ce lo lascerebbe, lei, un bambino di un anno ad affogare in mare?“. In prossimità della nave sentiamo un canto. La folla dei migranti -433, di cui 75 donne, 4 incinte, 3 bambini piccoli e decine di minori non accompagnati, migranti ragazzini- è assiepata sul ponte: un’altra notte all’addiaccio dopo la giornata e la nottata sul barcone, sull’Espero non c’è altro posto dove metterli. Hanno mangiato un po’ di pasta, ci sono pentoloni di the caldo e merendine. Non stanno cantando. Stanno pregando. Sono quasi tutti cristiani, è Pasqua anche per loro.

Bisogna vederlo il mare di notte, i fuochi tetri delle piattaforme petrolifere della Libia, per capire quanta paura puoi provare quando ti stipano su quei pezzi di legno che dovranno affrontare centinaia di miglia. Certe volte, dicono i marinai di Mare Nostrum, sono gommoni semi-sgonfi e talmente affollati che vedi solo un grappolo umano in mezzo al mare, come se galleggiasse senza natante. Devi scappare da una paura ben più grande per riuscire ad affrontare quella. Lo chiedo a Daniele: “Non hai avuto paura a salire sul barcone?”. “No” mi risponde. “Mi aiuta Dio, e Santa Maria”. Ce l’ha anche scritto sul corpo, “God”, un piccolo tatuaggio sul collo. La Madonna addolorata delle processioni che il Venerdì Santo in tutta la Sicilia piangono la morte di Gesù deve aver pregato anche per loro. Quando scendono dalla grande chiatta che li scarica in porto si inginocchiano e toccano la terra con la fronte, e poi la baciano tre volte. Il rituale rallenta le operazioni di sbarco -il passaggio ai metal detector, la foto per una prima identificazione- ma le forze dell’ordine, Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, medici e volontari della Protezione Civile, attendono rispettosamente che possa compiersi.

Il medico dà l’autorizzazione allo sbarco. C’è un uomo febbricitante che trema a terra, quasi tutti hanno una tosse straziante, viaggiano praticamente nudi, con una T-shirt o una camicina, nessun bagaglio, niente di niente, i più fortunati hanno un cappello e una felpa. Da Cassiopea è stato trasportato in elicottero un diabetico in coma iperglicemico, ma stavolta gravi problemi sanitari non ce ne sono stati. Il dottore si avvicina a una ragazza incinta al settimo mese, è talmente minuscola che la pancia quasi non si vede: le palpa l’addome, le donne lanciano un piccolo grido di allarme, questa intimità fisica sembra una violazione. Cerchiamo di tranquillizzarle: “He’s a doctor. He’s papa“, non le sta facendo del male. I bimbi, non più di due anni, corrono sul ponte con un pallone. Nebi non apprezza le nostre carezze di donne. E’ piuttosto macho, preferisce farsi delle passeggiatine per mano a un omone in tuta mimetica del battaglione San Marco.

Quando la grande chiatta carica di umanità si stacca dalla nave, i generosi marinai di Espero che si affacciano per assistere alle operazioni, i migranti esplodono in uno, due, tre applausi. Di ringraziamento, di sollievo, di speranza. Ci sarà ancora da tribolare ma forse il peggio è alle spalle. Lì proprio non riesco a trattenermi, le lacrime bagnano la mia mascherina sanitaria. Penso ai bastimenti dei miei trisavoli che approdarono a Ellis Island, New York. Il loro nome è ancora sui registri. Stessa carne, stessa umanità bisognosa.

Le operazioni di sbarco sono lunghe e complesse, il caldo africano arroventa la banchina. I migranti sono destinati al centro di prima accoglienza di Comiso, vari pullman sono in attesa. Le donne fanno resistenza. Si accucciano quiete e caparbie, non vogliono salire. Non intendono venire separate dai loro compagni di viaggio. Dico ai poliziotti che forse ci vorrebbero delle donne per accompagnarle, che vedere tanti uomini in divisa può spaventarle. Alla fine si convincono e salgono a bordo. I ragazzini sono i più eccitati: quei pullman con l’aria condizionata sembrano navicelle spaziali, si accomodano ai loro posti con gli occhi che brillano. Alcuni possibili scafisti vengono intercettati.

La carovana parte: pullman, camionette della polizia, la nostra auto al seguito. Un’oretta di viaggio nella campagna ragusana, tra i carrubi e i muri a secco, mentre i siciliani siedono a tavola per il pranzo pasquale. In prossimità del centro la carovana rallenta e poi sosta per qualche minuto. E’ un attimo: una dozzina di migranti balza fuori dal finestrino dell’autista, una corsa disperata tra i campi assolati per paura di chissà che cosa, per andare chissà dove. C’è anche una ragazza che corre come una giovane gazzella. I poliziotti non riescono a fermarli. Ne acchiappano uno che resta qualche minuto a terra, una smorfia di dolore, come Gesù caduto sotto la sua croce.

Il centro è accogliente, decoroso, ristrutturato da poco. Piccole casette, materassi di gommapiuma allineati ordinatamente nelle stanze, lenzuola ancora nei cellophane, coperte, bagni puliti. Nel cortile viene distribuito il pasto: conchiglie al pomodoro, carne, patate, acqua. Qualche cagnetto randagio circola sperando di intercettare un boccone. Ci sono già ospiti: giovani nigeriani e ghanesi lindi nelle loro tute nuove: i siciliani sono disperati per quello che sta capitando nella loro isola eppure sempre pronti a soccorrere, a condividere, a portare abiti e scarpe smesse. Fanno quello che possono. Un giovane nigeriano si avvicina. Mi dice in inglese che lui e i suoi compagni stanno lì da 17 giorni: solo mangiare e dormire, non è vita, così finiremo per ammalarci. Siamo venuti qui per lavorare. Scambio uno sguardo con un poliziotto: lavorare? Il poliziotto allarga le braccia: ormai anche per i lavori agricoli stagionali si fanno sotto i siciliani. Gli ospiti del centro chiedono tutto: sigarette, euro, poter telefonare in Nigeria o in Norvegia dove hanno qualche parente a cui riferirsi.

La Marina Militare con la missione Mare Nostrum fa splendidamente il suo lavoro: 28 mila persone tirate su dal mare in 6 mesi, tante donne e bambini, anche partoriti sul barcone. Un modello di accoglienza e di efficienza a cui il mondo dovrebbe guardare. I problemi cominciano a terra. Cosa fare di tutta questa gente, dove sistemarla, come aiutarla a campare. Il resto d’Europa se ne lava allegramente le mani. Ad Augusta, per esempio, c’è una scuola che ospita 80 minori non accompagnati. Stanno lì da mesi. Girano per la città come cuccioli randagi. Quello che è capitato a Lampedusa, che momentaneamente ha chiuso a nuovi arrivi, oggi sta capitando in tutta la Sicilia.

Chiudo con i numeri di ieri: più di 800 migranti recuperati da Espero e Cassiopea con l’aiuto del mercantile Red Sea. A cui è seguito nelle ultime ore il soccorso di altri 400 migranti presi a bordo da nave San Giorgio: dopo le prime cure da parte del personale sanitario, tra cui i volontari della Fondazione Francesca Rava (con il supporto di Wind), oggi saranno trasferiti su Espero che li sbarcherà da qualche parte. 1200 persone in poche ore. Appena le condizioni del mare lo consentiranno, con il buon tempo di maggio, giugno, luglio, gli sbarchi riprenderanno a ritmo esponenziale: non è detto che il canale umanitario di Mare Nostrum abbia risorse per continuare a lungo la missione, e questo potrebbe provocare un esodo biblico dalle coste sud del Mediterraneo. Secondo il ministro Alfano ci sarebbero 600 mila persone in attesa di imbarcarsi.

Le prossime settimane potrebbero essere drammatiche.

C’è bisogno di tutto. E di tutti. Nessuno escluso.

Pasqua con Mare Nostrum: tra i migranti, sulla chiatta che sta per sbarcarli a Pozzallo (Rg)

 

Integro il post con l’articolo che ho scritto per il Corriere di oggi

Ambeba e Yonas aspettano il loro primo figlio. Lei è al quinto mese e dice che vuole far nascere il bambino in Norvegia.

La meta di Saia, 17 anni, è la Germania, dove la sorella è bigliettaia sui bus. Saia è sola. In Libia la sua bellezza l’ha pagata cara: i criminali che gestiscono il traffico umano –un enorme business, capitolo della tratta degli schiavi- non si sono accontentati dei soldi.

Daniele mastica un po’ di italiano e traduce con pudore la testimonianza della “sorella”. In Libia “tutti ladri”, dice, vogliono soldi, picchiano, stuprano. Anche per lui un viaggio di 8 mesi e le terribili ultime settimane nei campi libici. Usano le scosse elettriche se esiti a salire sui barconi, nel mare nero e gonfio della notte. Ma la paura da cui stai fuggendo è ben più grande di quella di affrontare il mare aperto.

Se ce l’hanno fatta ad arrivare fino a qui dall’Eritrea, via Khartoum, la traversata biblica del deserto e poi gli schiavisti libici, se ora sono a Pozzallo (Rg) e baciano la terra uno a uno, rito che rallenta le operazioni di sbarco, l’ultima tratta del viaggio non sarà poi così dura. Troveranno sempre qualcuno che gli darà un paio di scarpe, una caciotta, un frutto.

Qui in Sicilia, che è ormai un’enorme Lampedusa, la gente è spaventata. Si mettono le mani nei capelli: “Come faremo?”. Ma poi quando c’è da fare fanno. Se c’è da andare in mare a tirare su la gente, vanno. Anche bambini morti, come è capitato su Espero, una delle navi della missione Mare Nostrum che in 6 mesi ha salvato 28 mila naufraghi: solo grazie a questo il Mediterraneo non è una fossa comune.

Il comandante di Espero dice che sono stati loro i primi a ripescare i morti dopo la tragedia di ottobre a Lampedusa. Anche piccoli di un anno. Non erano ancora attrezzati e neanche il loro cuore lo era. A bordo giusto qualche mascherina sanitaria. Le salme le hanno distese sul ponte della nave.

Su questo stesso ponte la mattina di Pasqua 433 migranti cantano le lodi del Signore. Quasi tutti eritrei e cristiani: 75  donne, quattro incinte, 3 bambini, decine di minori soli, ripescati nel corridoio umanitario garantito dalla missione Mare Nostrum in un’area di 71 mila km quadrati dove si muovono 5 navi con 779 militari, elicotteri, gommoni, 1 drone e altri mezzi, in collaborazione con forze dell’ordine e magistratura (78 scafisti arrestati). Unità mediche coadiuvate dal personale sanitario volontario della Fondazione Francesca Rava. Una straordinaria macchina di sorveglianza e di accoglienza che solo tra il 7 e il 9 aprile ha salvato 6769 migranti. E a Pasqua e Pasquetta -breve finestra di mare calmo- altre 1200 persone accolte da Espero, Cassiopea, San Giorgio e dal mercantile Red Sea.

Un prodotto d.o.p. tutto italiano, questa missione, che dovrebbe costituire un modello da esportare e che invece non gode di attenzione né di sostegno da parte del resto d’Europa: 9 milioni al mese, fondi stornati dalle ordinarie attività della Marina Militare e che ormai non bastano più.

Appena il mare si calmerà i barconi arriveranno a centinaia: 600 mila persone attendono di salpare, secondo il ministro dell’Interno Alfano. “Noi siamo solo l’aspirina” dice l’ammiraglio Filippo Maria Foffi, Comandante in capo della Squadra Navale “e non la cura della malattia. Il problema dei flussi va affrontato dalle Nazioni Unite con Ue e Unione Africana, con programmi di sviluppo e repressione di chi lucra sulle vite umane”.

Quando la chiatta affollata di migranti si stacca da Espero per raggiungere Pozzallo, il popolo dei salvati fa esplodere un applauso di ringraziamento, a Dio e agli uomini, al tè caldo e ai 60 chili di pasta all’olio.

Il problema sarà il pane di domani.