La cultura si mangia. E certe volte le rose sono più saporite e più necessarie del pane.

Leggo una dichiarazione del poeta coreano Lee Chang-dong, che è anche regista (“Poetry”) ed è stato ministro della Cultura del suo paese: “Mi sono battuto per cambiare la percezione che la cultura dovesse dipendere dall’economia. Penso che il governo di un paese non dovrebbe mai operare tagli drastici, ma finanziare la cultura senza lederne l’autonomia. Il pericolo da evitare è che la politica pretenda di intervenire troppo in cambio dei finanziamenti”.

C’è cultura ogni volta che si intuisce che il senso delle cose non è quello che appare. Che c’è dell’altro. E che nello spazio tra ciò che appare e quello che invece potrebbe essere corre la possibilità di un tratto di vita meno infelice, e di molte belle cose da fare.

In questo senso il luogo della cultura è dappertutto. In centro, in periferia, nelle biblioteche, nelle strade. Fare cultura significa attivare le polarità del dubbio –la radice della parola è proprio “due”-, magia che fa irrompere la possibilità e interrompe il corso già dato della vita e delle cose. Questo può capitare in molti modi -con una parola, un filo d’erba, un suono- e in tutti i luoghi in cui ci sono relazioni.

Ha ragione Chang-dong: ciò che impedisce la cultura non è semplicemente la mancanza di investimenti. Ed è vero che la politica –o meglio, quello che si fa chiamare politica ma è semplicemente esercizio del potere- in grande parte investe là dove gli conviene investire, ovvero in ciò che gli garantisce un ritorno: in ultima analisi in ciò che gli permette di riprodursi e di accumulare.

Ciò che impedisce davvero la cultura, più che la povertà di mezzi, è la povertà delle relazioni. Tutto ciò che rende difficile incontrarsi. Oggi c’è più cultura nella chiusura di una piazza o di una strada al traffico delle auto, nella possibilità di risentire il rumore dei propri passi mentre si cammina e di scambiare due parole con l’altro, che nell’apertura di un nuovo museo. Non che il museo non serva. Ma se prima non avrà prima preso forma la domanda, non sapremo riconoscere alcuna offerta. Senza la scintilla che spinge ad andarci per cercare quello di cui è nato il desiderio, non c’è museo che tenga: vedremo solo forme vuote, linee senza significato.

Fare cultura oggi è soprattutto provocare il desiderio di qualcosa che non può essere consumato.