Leggo su La 27ora l’ottimo report su maternità e lavoro: in stretta sintesi, il vecchio congedo di maternità si va estinguendo. Sempre più neo-mamme rinunciano alla “pausa-bambino” e rientrano al lavoro prima possibile. Il web è pieno di testimonial offerte come modello da seguire –ad, politiche, business women- che staccano giusto il tempo del parto per tornare alla scrivania dopo pochi giorni.
Non riesco a leggerla come una buona notizia. Per tante si tratta di fare di necessità virtù: meno ti assenti, meno rischi il posto (o per le più fortunate, la carriera). Più interessanti invece le forme di flessibilità in sostituzione del congedo: riduzione d’orario, part time.
Resto convinta che un bambino appena nato ha bisogno di stare con la mamma, e la mamma con il bambino. Si tratta di un unico organismo vivente che gradualmente diventa un due. Il momento del parto non interrompe la simbiosi –natura non facit saltus-, ne cambia semplicemente la forma. Spiega la psicologia che il processo di individuazione del nuovo nato –cioè il tempo che serve alla creatura per percepirsi come uno/a distinto dalla madre- dura ben 3 anni: i cuccioli della nostra specie sono i più lenti nell’acquisizione di autonomia. Per una lunga fase il bambino/a sente di essere la madre, com’è stato per i 9 mesi di gestazione (e in parte anche la madre “si sente” il bambino/a).
I tempi della riproduzione non cambiano in base alle esigenze della produzione: se potessero ci imporrebbero gestazioni di due mesi, o meglio ancora gravidanze extracorporee -non manca tanto-, asettiche e inodori.
Come la gran parte delle mamme sono tornata al lavoro dopo 3 mesi. Mi è mancato molto, con il senno di poi, non poter assecondare la gradualità del processo che dicevo: l’allattamento, un unico ritmo di sonno-veglia e così via. Ho perso qualcosa di importante per la mia identità, e ho fatto perdere ben di più a mio figlio.
Permettetemi di essere brutale: quando comprate un cucciolo di cane potete portarlo a casa solo dopo due mesi, quando sarà pronto ad affrontare il distacco dalla madre. Gli allevamenti più seri allungano il periodo a tre mesi. Perché non dovrebbe valere per gli esseri umani quello che vale per i cuccioli di altre specie?
Non intendo colpevolizzare le neomamme –non più di quanto colpevolizzi me stessa-, ma penso che quel tempo speciale, diverso da tutti gli altri tempi della vita, non mi sarà più restituito, e percepisco la cosa come una perdita. Soprattutto sento di aver tolto qualcosa di importante al mio bambino. A maggior ragione non posso salutare con felicità il fatto che le giovani mamme rinuncino perfino a quelle poche settimane di tempo “differente” (nel senso di occasione irripetibile per sperimentare la propria differenza femminile).
Per andare meglio, il mondo avrebbe bisogno di somigliare di più al mondo delle donne e alla coppia madre-figlio, assumendo come fondamentale e non più aggirabile il valore della cura che nella maternità trova il suo imprinting. E invece ci vogliono sempre più uguali agli uomini. L’eccesso di maschile si perpetua.
La maternità è sempre più un fastidio, un ingombro da far fuori con una guerra simbolica e reale.
Si tratta di una sconfitta radicale.