“Il discorso del re”, 4 Oscar, è un grande film. Più che la biografia di un re l’ho visto come la storia di una grande amicizia tra uomini: Bertie, destinato al trono d’Inghilterra, e Lionel, praticone australiano “zero tituli”, però capace di una grande empatia. E soprattutto la rara e sensibile rappresentazione della fragilità maschile, un’autorizzazione simbolica a fare i conti con le proprie paure e a vincerle senza ricorrere (come il coevo Hitler, il più pauroso di tutti) alla soluzione della violenza.

Bertie e Lionel stanno nudi l’uno di fronte all’altro: il futuro sovrano, uomo e padre molto dolce, bello, balbuziente, insicuro e irascibile, costretto dal terapeuta a spogliarsi della propria regalità e a regredire alla propria infanzia infelice, alla durezza del padre, alla carenza di cure materne, al mancinismo brutalmente represso; e Lionel costretto a rivelare di non essere un medico ma solo un vecchio attore fallito, niente grammatica ma molta pratica, unita alla capacità di sentire l’altro e di guarirlo con l’intensa verità della relazione che cura.

Niente gradi sulla manica, né l’uno né l’altro. Nessun facile espediente da parata virile. “Non voglio essere re” riesce a singhiozzare Bertie, costretto al trono dall’abdicazione del fratello David (Edoardo VIII), totalmente dipendente dall’androgina Wallis Simpson. E ancora (vado a memoria): “Io sono il re, io ho tutto, ma non la parola”.

La balbuzie e l’afasia come condizione di ogni uomo che non voglia cedere alla costrizione del potere e del dominio (nel caso di Bertie anche il dominio coloniale), e che intenda significare liberamente la propria esistenza fuori dai codici dell’ordine simbolico maschile. Una rappresentazione buona per tutti quegli uomini, oggi sempre di più, intenzionati a fare “un passo indietro”. E non tanto e non solo per lasciare spazio alle donne, quanto per fare spazio al proprio sé autentico, libero da costruzioni e  costrizioni patriarcali.

Se poi alla fine Bertie fu un buon re, se divenne quel Giorgio VI capace di parlare “fluently” e di guidare il suo popolo attraverso le temperie del Secondo conflitto mondiale contro il nazifascismo -e se Lionel si decise a chiamarlo Vostra Maestà- forse fu anche perché seppe integrare fragilità e responsabilità, paura e fiducia, senza che la sua umanità scomparisse sotto la divisa rilucente di medaglie e mostrine.