“La pena di morte non servirà a fermare la violenza. Anzi, potrebbe aumentare il rischio per le donne”: lo dice la scrittrice ed editora indiana Urvashi Butalia intervenendo nell’ampio dibattito che si è aperto dopo la condanna alla pena capitale per gli stupratori e assassini di Jyoti Singh Pandey, la studentessa di 23 anni morta dopo 13 giorni di agonia in seguito alle violenze di branco subite su un bus di New Delhi, il 16 dicembre 2012.
Butalia è una scrittrice, storica ed editora indiana. Ha fondato la prima casa editrice femminista in India, “Kali for women”, e attualmente dirige Zubaan, che si occupa prevalentemente di temi di genere. E’ in prima linea nel movimento delle donne indiano. Ha lavorato molto sull’emancipazione delle donne dei villaggi, indagando sui crimini commessi contro di loro durante le guerre di separazione.Ha scritto tra l’altro Speaking Peace: Women’s Voices from Kashmir (Zed Books 2002) e The Other Side of Silence: Voices from the Partition of India (Penguin 2000), ottenendo numerosi premi e riconoscimenti.
Il prossimo 4 ottobre, ore 16, Urvashi Butalia parteciperà al Festival di Internazionale a Ferrara, giunto alla sua settima edizione, discutendo con le giornaliste Mona Eltahawy (Egitto), Chouchou Namegabe (Congo) e con la saggista femminista americana Rebecca Solnit sul tema “La guerra contro le donne. La violenza di genere, un’emergenza globale” (moderatore Riccardo Iacona).
In seguito allo stupro e alla morte di Jyoti Singh Pandey il tema della violenza sessista è posto al centro del dibattito politico e sociale in India. Secondo Eve Ensler, autrice dei “Vagina Monologues” e frequentatrice abituale del Paese, addirittura il tema politico centrale per la società indiana. Chiedo a Butalia se è così:
“Non mi pare” dice. “Il problema ha certamente assunto grande rilevanza per via della pressione dell’opinione pubblica e dei gruppi di donne. Ma in India ci sono questioni politiche non meno importanti: la povertà, la democrazia. C’è anche la questione di genere: non solo la violenza, ma la diseguaglianza tra i sessi”.
Violenza che è effettivamente in aumento? O a crescere è la sensibilità alla questione?
“Difficile dirlo. A Delhi dall’inizio di quest’anno il numero dei casi di violenza e di stupro è molto cresciuto. Ma è anche vero che è cresciuto il numero di donne che ha la forza di denunciare. La sensibilità al problema si è certamente acuita in tutto il Paese. La gente oggi ha ormai ben chiaro che gli stupri non hanno niente a che vedere con il modo in cui ti vesti o con il fatto che rientri tardi la sera. E che chiunque può esserne vittima, perfino avere un uomo accanto non è una protezione sufficiente. Nelle realtà urbane se ne parla anche a scuola: studenti, insegnanti e genitori che si confrontano sulla necessità di un’educazione sessuale. Ciononostante certi tipi di stupro, per esempio quelli a opera di militari nel Kashmir e nell’India di Nordest, regioni in cui l’esercito gode di un particolare status, non ricevono sufficiente attenzione. Su questi temi il movimento delle donne sta lavorando da tempo e continua a farlo”.
Abbiamo visto i festeggiamenti davanti al Saket Tribunal di Delhi dopo la sentenza di morte per gli stupratori di Jyoti Singh Pandey. Per molte femministe indiane, come la giornalista Shoma Chaudhury, la pena di morte non è tuttavia la soluzione. Che cosa ne pensa?
“Tutti hanno parlato di quei festeggiamenti. Ma quanta gente c’era a festeggiare? Un centinaio di persone? Duecento? Di sicuro non migliaia. Era un piccolo gruppo, fondamentalmente la famiglia della ragazza che, comprensibilmente, sperava in una sentenza severa. Nessuno però ha riferito delle molte manifestazioni contro la pena di morte, dei dibattiti, della campagna per abolirla. E’ su questo che si dovrebbe porre attenzione. Anch’io credo che la pena di morte non sia la soluzione, come praticamente tutte le femministe indiane. La vendetta o la cultura della punizione non possono essere la risposta, anche se è comprensibile che alle vittime e i loro cari appaiano come la sola forma di giustizia accettabile. Ma non c’è posto al mondo in cui la pena capitale abbia funzionato come deterrente. Non abbiamo alcuna garanzia del fatto che sia questa la strada per fermare la violenza. Anzi: se lo stupro fosse punito con la morte, aumenterebbero le probabilità che i violentatori uccidano la vittima per non essere identificati. Quindi, paradossalmente, la pena di morte farebbe crescere il rischio per le donne. Inoltre in tutto il mondo, non solo in India, la maggior parte degli stupri avviene tra le mura di casa o comunque a opera di persone conosciute. Se la violenza sessuale fosse punita con la morte, ben poche donne troverebbero il coraggio di denunciare qualcuno con cui hanno una relazione affettiva o convivono, e il silenzio sarebbe ancora più grande. Infine, se la pena fosse così severa, ci sarebbero ben poche condanne… quanti giudici si sentirebbero di mandare a morte un uomo? Capita già, e in tutto il mondo (insisto, non si tratta di un problema solo indiano), che i giudici consentano agli imputati per violenza di levarsi d’impiccio con ogni genere di giustificazioni, e comminino pene di lieve entità: se ci fosse la pena di morte questo capiterebbe molto più spesso. In India attualmente ci sono circa 300 condannati a morte, ma negli ultimi 10 anni solo in 3 o 4 casi la sentenza è stata eseguita, e tutti lo sanno: come può il governo ritenere che la pena di morte sia un deterrente?”.
I dati parlano di una situazione molto difficile per le Indiane: il Paese si colloca al quarto posto nella classifica dello “Stato peggiore dove nascere donna” dopo Afghanistan, Congo e Pakistan. E al primo posto per il numero di spose bambine. Quali sono gli obiettivi su cui sta lavorando il movimento femminista indiano?
“La situazione è dura, ma non in modo così uniforme. E perfino in mezzo a simili difficoltà molte donne indiane riescono a fare cose meravigliose. L’India è un grande Paese, ci sono situazioni di ogni tipo, è come se vivessimo in molti secoli allo stesso tempo. Grazie a una legge del 1992 nei villaggi e nelle città ci sono un milione e duecentomila donne elette in posizioni di potere politico che stanno facendo un magnifico lavoro per migliorare la condizione di vita dei poveri nei villaggi. In nessun altro luogo del mondo esiste una simile forza politica! Perché allora ci limitiamo a parlare dei problemi delle indiane? Abbiamo molte importanti aziende, specie nel settore informatico, in cui il 50 per cento del personale è costituito da donne. Ci sono donne alla guida di importanti industrie, di tre fra le maggiori banche farebbe pubbliche e private indiane, HDFC Bank, ICICI Bank, The New Bank of India. Ci sono indiane che pilotano aerei (in una linea privata il 50 per cento dei piloti è di sesso femminile), che guidano taxi e camion… potrei continuare all’infinito. Eppure nessuno ne parla, specialmente sui media internazionali. Si parla solo delle cose che non vanno, mai di quelle che vanno. E’ facile vedere l’India come un paese terribile per le donne. Più difficile guardarla come una nazione complessa, dove il bene e il male coesistono e dove molte voci si sono levate contro lo sfruttamento e la violenza”.
Quali sono le principali differenze tra il femminismo indiano e quello occidentale?
“Diversamente da molti altri paesi abbiamo un forte movimento che lotta per i diritti delle donne, e che ha saputo cambiare molte leggi. Quanto meno non nascondiamo le cose sotto il tappeto. Le statistiche sugli stupri sono molto peggiori in America che in India. Ebbene: quand’è stata l’ultima volta negli Stati Uniti si è manifestato contro la violenza? E chi ne sta parlando? Nemmeno in Italia i dati sulla violenza sono confortanti: quando c’è stata l’ultima manifestazione sulla violenza nel vostro Paese? E il vostro movimento delle donne ne parla a sufficienza? Se ci si chiede quando c’è stata l’ultima manifestazione in India, non si va molto indietro nel tempo. Noi parliamo dei nostri guai, non li nascondiamo. E non puntiamo l’indice contro altri Paesi dicendo che il problema sta lì e non qui. Non ho visto molti altri fare questo. Tornando alla domanda: sì, ci sono differenze tra il femminismo indiano e quello occidentale. Tutti i movimenti femministi si radicano nelle realtà politiche e storiche locali, e vale anche per l’India. La lotta del femminismo indiano non è separabile dalla lotta per i problemi più pressanti del paese. Non si possono ignorare la povertà, la globalizzazione nei suoi aspetti negativi (e positivi), la questione della salute delle donne, dell’educazione e dell’alfabetizzazione, della mancanza di cibo, e via dicendo. Forse la questione che non ha confini è proprio la violenza contro le donne, che nelle varie culture può assumere forme diverse. Ci sono differenze ma anche somiglianze che permettono di connettere le donne di tutto il mondo. A distanziarci semmai è il fatto che noi femministe indiane non presumiamo di poterci pronunciare sulle realtà degli altri, e non riteniamo di sapere che cosa sia giusto o sbagliato per gli altri. Non pensiamo al femminismo come a una gara in cui certi paesi sono in vantaggio rispetto ad altri, né che la strada per l’emancipazione debba essere la stessa per tutte. La cosa più importante da comprendere per una femminista è la differenza, contro ogni logica gerarchica. Per questo non sentirai mai una femminista indiana dire: “Le cose vanno storte in quel posto”, mentre sentirai spesso un’americana o un’europea dire “le cose vanno molto male in India”, come se i guai fossero solo qui e non nei loro Paesi. Mi spiace insistere su questo, ma è un problema che sento molto”.
Per molte indiane di successo il fattore decisivo è stato l’autorizzazione paterna a studiare e a emanciparsi. E’ andata così anche per lei?
“Direi che ciò che conta è l’autorizzazione di entrambi i genitori. Nella nostra cultura i vecchi sono molto ascoltati. I miei sono stati molto incoraggianti e aperti. Così come non mi hanno imposto di sposarmi, non hanno mai deciso quale mestiere dovessi fare. Quando ho cominciato a lavorare nell’editoria guadagnavo molto meno di quanto avrei potuto intraprendendo altre professioni. I miei genitori dissero semplicemente che se era questo che volevo fare, per loro andava bene. Penso di essere stata fortunata”.
L’India, come dicevamo, ha il primato delle spose-bambine, ma forse anche il primato negativo delle single e delle donne senza figli, che sono pochissime. Lei stessa ha scritto sulla sua condizione di childless…
“Il matrimonio è una tappa importantissima nella vita di un’indiana. Anche se le nozze delle bambine sono vietate dalla legge, proprio per questa centralità del matrimonio molte famiglie fanno comunque sposare le loro figlie in giovanissima età. Il governo e i gruppi femministi stanno facendo del loro meglio per affrontare il problema. La grande importanza del matrimonio spiega anche il bassissimo numero di single, anche se ci sono molte donne che vivono sole perché il marito è emigrato in città, o perché sono rimaste vedove o sono state abbandonate. A causa della povertà e dell’analfabetismo poche accedono al divorzio: spesso non sanno nemmeno che è possibile. Tuttavia oggi esiste una piccola percentuale di donne, scolarizzate e spesso privilegiate, che sceglie di non sposarsi. Il fenomeno non è esteso, ma è comunque significativo e ormai visibile nelle realtà urbane. Io per esempio sono sempre stata single. In India questo non mi ha mai creato problemi. L’unica volta che ho sentito la mia condizione come svantaggiosa è stata nei due anni che ho trascorso in Gran Bretagna, ormai quasi trent’anni fa. Ero giovane e tutti si aspettavano che fossi in coppia. C’era sempre un certo imbarazzo tra gli amici quando si trattava di invitarmi a cena, perché si doveva essere pari e non sapevano come regolarsi con una single. Per loro era più facile comprare 4 bistecche che 3, a quanto pare! Pensavano anche che in quanto single io fossi infelice. E’ l’esatto contrario. Invece in India, ribadisco, problemi non ne ho mai avuti”.
Su che cosa sta lavorando, ultimamente?
“Non ho tempo per scrivere, purtroppo. Sono troppo occupata come editore. Ma ho appena finito di curare “Reader on India”, antologia di scritti sulla storia, la cultura e le politiche in India dall’antichità a oggi. Sarà pubblicato anche negli Stati Uniti dalla Duke University Press. Il mio prossimo progetto, già quasi ultimato, è un libro sulla vita di un transgender, una hijra: i temi della sessualità, della cittadinanza e del genere visti attraverso la vita di questa persona. Spero poi di poter finalmente scrivere un libro sulla casa di mio nonno in Lahore, e su mia nonna che fu costretta in quella casa dopo la Partition, la guerra di separazione dl sub-continente indiano alla fine degli anni Quaranta, nonché costretta a convertirsi all’Islam. Mi piacerebbe trovare un modo per entrare nella sua testa e parlare dell’India e del Pakistan attraverso la sua storia e la storia della casa. La casa editrice ha in cantiere progetti molto eccitanti: un secondo libro di Baby Halder, lavoratrice domestica la cui autobiografia, pubblicata alcuni anni fa, è stata il nostro più grande successo editoriale; il libro su una donna di bassa casta di Gujarat; un meraviglioso racconto sui cinesi in India; un libro sul rapporto tra un gatto e la sua padrona, e molto altro”.