La campagna lanciata dalla ministra Lorenzin per un Fertility Day è sbagliata e offensiva. Come se le donne non facessero figli per egoismo. Contro la denatalità servono lavoro, meno precarietà, servizi. La cura va posta al centro delle politiche
Ho partecipato alla manifestazione per il riconoscimento delle unioni civili. Piazza della Scala era strapiena e, per quanto conosco la mia città, quella di sabato era una piazza “vera”. Ma mentre stavo lì pigiata, al freddo e al gelo, non potevo non domandarmi che fine aveva fatto la feroce critica alla famiglia, definita addirittura “schizofrenogena”, ovvero generatrice di disagio mentale, da profeti dell’antipsichiatria come Ronald D. Laing e David Cooper, che ha a lungo informato i comportamenti dalla generazione post baby-boomer, ovvero la mia.
La famiglia era considerata un destino da sfuggire a ogni costo, una trappola borghese, tempio di ogni ipocrisia, un sepolcro imbiancato, un inferno a cui sottrarsi sperimentando forme diverse di aggregazione umana. Per Michel Foucault, tra i massimi ispiratori delle queer theory e lui stesso omosessuale, la famiglia è uno dei dispositivi dell’”internamento”. E questo è André Gide: “Famiglie, io vi odio! focolari chiusi; porte sprangate; possessi gelosi della felicità”. La critica dei focolari e dei ruoli familiari è stato uno dei fuochi del femminismo. Eccetera.
Non è detto che si fosse nel giusto, ma tutto questo è evaporato come neve al sole. La famiglia è diventata il nuovo Graal. Non che sia più solida di un tempo, anzi: una famiglia su due è destinata a sfasciarsi. Ma tutti vogliono una famiglia, e in un certo senso le piazze Lgbt + supporter di sabato erano piuttosto stranianti: tocca proprio alla cultura Lgbt rilanciare l’antica istituzione?
Abbiamo rinunciato a ogni riserva critica sulla famiglia? e perché? Si tratta di una resa (forse l’unica vera alternativa che siamo riusciti a configurare, la solitudine, è un inferno ben peggiore)? Di un desiderio un po’ esteriore di normalità? E’ neoconformismo o c’è dell’altro? Forse vediamo la famiglia come l’ultima zattera di salvataggio tra i marosi della società liquida? Ed è giusto smobilitare senza riserve?
Non so: pensiamoci.
Si è aperta questa settimana a Milano, Palazzo Reale, la mostra “Famiglia all’italiana”: la sua evoluzione raccontata dalla immagini del nostro cinema, da “I bambini ci guardano” di Vittorio De Sica, al neorealismo, fino a”Quando la notte” di Cristina Comencini.
Insomma: che cos’è la famiglia, in questo Paese?
Quando era una ragazzina mi avevano assicurato che era “schizofrenogena” (Ronald D. Laing), e io ci avevo fermamente creduto, praticando la mia fede. L’avevo anche studiato all’università, se non sbaglio. Chi ha la mia età sa di che cosa sto parlando.
Poi ho visto tanti amici, gente come me, che quatti-quatti una famiglia se la sono fatta. Disertori. Traditori. Codardi.
Si sono messi insieme, hanno fatto dei figli, si sono sposati –e per una buona metà hanno divorziato-.
Alla fine ho ceduto anch’io. Ho la mia famiglia. Tanta fatica, quella sì, ma schizofrenia al momento non mi pare.
Oggi le cose sono diverse. Ma resta in sottofondo l’idea che la famiglia, se non schizofrenogena, sia un residuo del passato, un istituto arcaico a cui ci si rassegna giusto per evitare di restare soli.
Che sia qualcosa di antimoderno, un freno al progresso e alla maturità civile.
E’ un senso che ho sentito vagamente risuonare anche nelle parole della ministra Anna Maria Cancellieri, quando ha invitato i giovani a staccarsi “da mamma e papà” e a fare i bagagli.
Come se quell’attaccamento fosse una remora, un impedimento alla crescita, il nucleo di un’italianità d’antan che non vuole cedere al luminoso West dell’Individuo.
Il mio unico figlio non lo vorrei a Shanghai o in India o chissà dove, e mi sento quasi una disfattista.
Bisogna che sulla famiglia ci mettiamo d’accordo, perché semmai oggi sono le politiche – o meglio, le non politiche- sulla famiglia a essere schizofrenogene.
Si piange, ad esempio, sulla denatalità. Ma se ti azzardi a fare un bambino sei quasi una luddista, una vera incosciente,
e se possono –e possono sempre di più- ti cacciano dal posto di lavoro.
Quanto a sostegni, aiuti, servizi: zero. Ma se il welfare non esiste, ci dovrà pure essere qualcosa che fa da rete di protezione: una famiglia? che cosa dite? Il cane si morde la coda.
Nel frattempo il 65.4 per cento degli italiani pensa che la famiglia sia la nostra struttura fondamentale (rapporto Censis 2011). Si può dargli torto? In mancanza d’altro almeno quel punto fermo, alla portata di tutti.
Puoi anche metterci su in caso di necessità, una di quelle piccole o medie imprese così importanti per la nostra economia,
A giugno il Papa sarà a Milano per il Forum mondiale delle famiglie.
Anche per i non-cattolici potrebbe essere l’occasione per una riflessione sul tema.
”Gli italiani sono fermi, come struttura mentale, al posto fisso, nella stessa città e magari accanto a mamma e papà, ma occorre fare un salto culturale”.
Lo ha detto il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri.
Insomma, detto in altre parole, ma la solfa è la stessa: siamo monotoni.
Ma questa fissità, questo legame, questi forti legami familiari -che sostituiscono, cara Ministra, il welfare-, sono necessariamente solo un male?
La nostra celebrata piccola e media e impresa non si radica proprio in questa fissità e in questa tenuta della famiglia?
La famiglia è davvero una cosa arcaica che frena lo sviluppo?
Aggiungo stamattina a quello che ho scritto ieri sera:
a parte che -scopro anch’io- a quanto pare il nostro, dopo la Romania, è il Paese europeo che esporta più giovani,
vorrei che la Ministra ci dicesse, per esempio, un ragazzo o una ragazza con un lavoro precario, e magari un bambino o anche due, dove può andare se non ha entrate certe, e non ha nemmeno servizi a cui appoggiarsi (nidi)?
E in un’altra stagione della vita, come può allontanarsi dai vecchi genitori, sapendo che toccherà a lei (lui) occuparsene, quando ne avranno bisogno?
In tempi di crisi, gli italiani riscoprono il valore della responsabilità collettiva: il 57,3% è disponibile a fare sacrifici per l’interesse generale del Paese. Anche se il 46% di questi lo farebbe solo in casi eccezionali.
Risulta da un’indagine del Censis contenuta nel Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2011. Secondo il rapporto, il 65,4% indica la famiglia come elemento che accomuna gli italiani, mentre l’81% condanna duramente l’evasione fiscale. A fronte poi di un 46% di cittadini che si dichiara «italiano», c’è un 31,3% di «localisti» che si riconoscono nei Comuni, nelle regioni o nelle aree territoriali di appartenenza, un 15,4% di «cittadini del mondo» che si identificano nell’Europa o nel globale e un 7,3% di «solipsisti» che si riconoscono solo in se stessi.
Ancora oggi i pilastri del nostro stare insieme fanno perno sul senso della famiglia, indicata dal 65,4% come elemento che accomuna gli italiani. Seguono il gusto per la qualità della vita (25%), la tradizione religiosa (21,5%), l’amore per il bello (20%).
Cosa dovrebbe essere messo subito al centro dell’attenzione collettiva per costruire un’Italia più forte? Per più del 50% la riduzione delle diseguaglianze economiche. Moralità e onestà (55,5%) e rispetto per gli altri (53,5%) sono i valori guida indicati dalla maggioranza degli italiani.
Emerge poi la stanchezza per le tante furbizie e violazioni delle regole. L’81% condanna duramente l’evasione fiscale: il 43% la reputa moralmente inaccettabile perchè le tasse vanno pagate tutte e per intero, per il 38% chi non le paga arreca un danno ai cittadini onesti.
Infine, il Censis sottolinea come il modello di sviluppo italiano abbia sempre trovato nella famiglia un punto di grande forza e la famiglia si sia sempre fatta carico dei bisogni sociali, andando a integrare se non a sostituire le prestazioni di welfare. Ma questo modello, avverte, comincia a mostrare segni di debolezza: se è vero che in proporzione al Pil la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane rimane una delle più rilevanti in Europa, in valore assoluto si è assistito a una erosione significativa di questo patrimonio tra il 2006 e il 2009, il cui ammontare è passato da 3.042 miliardi di euro a 2.722 miliardi. Inoltre, dal punto di vista della capacità di assistenza informale delle famiglie, il numero dei potenziali caregiver (persone che si prendono cura dei familiari) andrà riducendosi in modo netto: se nel 2010 c’erano 18,5 persone autosufficienti in età compresa tra 50 e 79 anni (fascia d’età nella quale rientra la gran parte dei caregiver) per ogni ultraottantenne non autosufficiente, entro il 2040 questa proporzione è destinata a dimezzarsi, scendendo a 9,2 caregiver per ogni anziano potenzialmente bisognoso di assistenza.
La crisi economica in Italia ha colpito in particolar modo i giovani. Lo sottolinea il Censis riferendo: «La crisi si è abbattuta come una scure su questo universo: tra il 2007 e il 2010 il numero degli occupati è diminuito di 980.000 unità e tra i soli italiani le perdite sono state pari a oltre 1.160.000 occupati». «Investita in pieno dalla crisi, ma non esente da responsabilità proprie, la generazione degli under 30 – si legge nel Rapporto Censis – sembra incapace di trovare dentro di sè la forza di reagire. La percentuale di giovani che decidono di restare al di fuori sia del mondo del lavoro che di quello della formazione è in Italia notevolmente più alta rispetto alla media europea: se da noi l’11,2% dei giovani di età compresa tra 15 e 24 anni, e addirittura il 16,7% di quelli tra 25 e 29 anni, non è interessato a lavorare o studiare, la media dei 27 Paesi dell’Ue è pari rispettivamente al 3,4% e all’8,5%. Di contro, risulta da noi decisamente più bassa la percentuale di quanti lavorano, pari al 20,5% tra i 15-24enni (la media Ue è del 34,1%) e al 58,8% tra i 25-29enni (la media Ue è del 72,2%)». Nonostante l’occupazione resti al palo, «non si registra l’emergere di atteggiamenti più intraprendenti». Per esempio gli italiani sono in assoluto i meno propensi, tra i giovani europei, a lavorare in un altro Paese europeo: si dichiara desideroso o disposto a farlo solo il 40,9% degli intervistati. Inoltre i giovani, che dovrebbero rappresentare il segmento più avvantaggiato da una maggiore liberalizzazione dei licenziamenti, «già oggi – rileva ancora il Censis – sono quelli su cui più grava il costo della mobilità in uscita». Nel 2010, su 100 licenziamenti che hanno determinato una condizione di inoccupazione, 38 hanno riguardato giovani con meno di 35 anni e 30 persone con età compresa tra 35 e 44 anni. Solo in 32 casi si è trattato di persone con 45 anni di età o più.
Una società «fragile, isolata ed eterodiretta», con una dialettica politica «prigioniera del primato dei poteri finanziari»: così ci vede il Censis, nel suo 45/mo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. I nostri antichi punti di forza non riescono più a funzionare, dice l’istituto, che avverte: è «illusorio» pensare che i poteri finanziari disegnino sviluppo, perchè lo sviluppo «si fa con energie, mobilitazioni, convergenze collettive». È quella dunque, secondo il Censis, la direzione da seguire.
«Mentre l’occupazione ufficiale stenta a dare segnali di ripresa, quella sommersa sembra al contrario dare prova di tenuta e trarre semmai un nuovo stimolo di crescita dal difficile momento». Lo evidenzia il Censis. A partire dal 2008, a fronte di un calo generalizzato dell’occupazione regolare (-4,1%), quella informale aumenta dello 0,6%, portando il livello di irregolarità del lavoro nel 2010 alla soglia del 12,3% e lasciandosi alle spalle i positivi risultati di un decennio.
«I cittadini e le imprese si trovano a fare i conti con un sistema dei servizi che mostra evidenti segnali di criticità»: lo sottolinea il Censis nel 45/o Rapporto sulla situazione del Paese spiegando che «la politica di riduzione della spesa pubblica che ha contrassegnato gli ultimi 3 anni, e che segnerà anche il biennio 2012-13, realizzata in molti casi attraverso tagli lineari, sta lasciando il segno». In particolare il trasporto pubblico locale, già «inadeguato» è stato «drasticamente ridimensionato».
La crisi economica degli ultimi anni ha ridotto il reddito disponibile delle famiglie e ha provocato conseguentemente una «caduta della propensione al risparmio» anche «a causa dell’irrigidimento» di alcuni consumi. In questo contesto la riduzione della quota di risparmi sembra però non avere colpito gli investimenti fissi, come le abitazioni. È quanto emerge dal 45/o Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese del Censis. In 10 anni risulta inoltre raddoppiato il valore delle abitazioni.
«In un quadro economico stagnante, le esportazioni sono una delle poche variabili in crescita: +15% nel 2010 e +16% nel primo semestre del 2011»: lo riferisce il Censis nel Rapporto annuale sulla situazione del Paese sottolineando che «molti comparti del made in Italy possono fungere da puntello attraverso cui evitare un ulteriore scivolamento dell’economia nazionale». Per il Censis il commercio estero «può e deve rappresentare il volano della ripresa».
La tv resta il mezzo più diffuso del panorama mediatico italiano (lo usa il 97,4% della popolazione), ma al suo interno è avvenuto un «ampio rimescolamento» dovuto all’arrivo del segnale digitale terrestre. Lo evidenzia il 45/o Rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del paese. E se l’ascolto della radio resta stabile, a confermarsi è il «periodo di grave crisi» della carta stampata. I quotidiani a pagamento perdono il 7% dei lettori nel periodo 2009/2011, cresce poco la free press, resistono i settimanali, tengono i libri, mentre non decollano gli ebook. Ed è l‘utenza del web ad aumentare: nel 2011 ha superato la fatidica soglia del 50% della popolazione arrivando al 53,1%: l’87,4% tra i giovani, il 15,1% tra gli anziani. Con una particolarità: l’affermazione progressiva di percorsi «individuali dei contenuti e l’acquisizione delle informazioni da parte dei singoli».
Mi domando se Roberta Tatafiore non abbia deciso di andarsene “semplicemente” perché stava diventando vecchia, come lo diventiamo tutti, e non sopportava l’idea di se stessa bisognosa e dipendente, senza nemmeno una figlia -o almeno un figlio- a cui appoggiarsi. Mia madre e io abbiamo sempre molto litigato, ma credo che oggi, pur dichiarando a ogni pie’ sospinto la sua orgogliosa autosufficienza, lei si senta molto rassicurata dalla mia presenza e dalla mia costante attenzione. Una figlia femmina, capace di cure, è una grande risorsa. Con i maschi in genere è tutto più complicato.
Risparmiamo e investiamo molte risorse in pensioni integrative e altri congegni di sicurezza, ma la gran parte di noi, se tutto andrà bene, potrà contare solo sulla pazienza di una ragazza ucraina o sudamericana che magari avrà dovuto lasciare i suoi figli per venire a occuparsi di noi. Figuriamoci che felicità.
Questo modo di condurci è scellerato, e alle generazioni che seguiranno andrà probabilmente peggio. Abbiano disfatto la famiglia, e non siamo riusciti a inventarci nient’altro che solitudine, noi, animali naturalmente sociali. Ma a tutto questo non poniamo mai attenzione.
Pensavo in questi giorni alla famiglia. Alla sua crisi oggettiva e irreversibile, e non c’è nostalgia che tenga. Alla sofferenza del “provare e riprovare“, come dice il sociologo Marzio Barbagli. Al fatto che, tolta la coppia madre-bambino (padre-bambino molto più raramente), non vi è più nulla di certo, se non la possibilità della solitudine. E anche al fatto che la solitudine è una condizione non meno oggettivamente inumana, perché un individuo umano solo fa perfino fatica a essere individuo.
La famiglia ha funzionato per alcuni millenni, ora non tiene più, e si deve prenderne atto. Mi piacerebbe che si inventasse qualcosa, un modo di vivere per gli esseri umani, che non fosse la resa dello starsene soli. Ma che cosa?
Forza. La sera di Natale è il momento più duro, lo so. Il corpo avvelenato dagli eccessi, lo spirito intossicato dai veleni del corpo e da quelli di famiglia, la vita reale che si impone su quella virtuale, nemmeno un blog per chiacchierar. I bambini sono nervosi, i ragazzi rispondono male, la casa è piena di cartoni da buttare, il frigo intasato di avanzi, il panettone scavato dalle mani, un gran mal di testa. Per noi Gemelli la prova è molto dura. Io mangio cioccolato fondente ai piedi della Sila, mi elevo in un Sarvangasana ristoratore. Piove. Forse andrò al cinema a vedere La duchessa, anche se mio marito preferirebbe The Spirit. Ma al momento si è addormentato in poltrona. Si sveglierà per tempo? Natale a Rio, però, quello no.
Sono con tutti voi.
Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia “aperta”. In casa si stava poco, i confini con l’esterno erano molto labili, e andava bene così. Forse per questo sono sensibile a un tema poco discusso, che chiamerei “estinzione della comunità naturale”: non sono una sociologa, e le cose le dirò come posso.
Si parla molto di individuo, con tutto il suo corredo di diritti e solitudini; e di famiglia “in crisi” –famiglia e crisi sono termini che viaggiano in coppia-, bisognosa di sostegno. Quasi mai si parla della comunità del posto in cui si vive, che sta alla famiglia come il nucleo familiare sta al singolo, e dunque per le famiglie costituisce il primo e più arioso sostegno.
Una cosa che l’ha fatta indebolire probabilmente è il fatto che i luoghi di lavoro sono quasi sempre lontani da casa. La gente se ne va la mattina e torna la sera per vedere un po’ di tv e per dormire, attività spesso coincidenti. Il sabato la spesa, il week end fuori per chi può permetterselo. I posti dove si vive sono gusci vuoti, brutti come sono esemplarmente brutte le nostre periferie, proprio perché vuote di relazioni e quindi di amore e di bellezza. Il fatto che anche le donne si siano messe a lavorare abbandonando i posti di vita ha dato il colpo definitivo. Deboli surrogati, le comunità che si creano sul lavoro, o legate alla scuola dei figli, o alla palestra, o a non so cosa.
Mi stupisce molto che non se ne parli, perché un sostegno alle comunità –non saprei bene come- risolverebbe in un colpo vari problemi: si ricreerebbe un welfare spontaneo, darsi una mano tra famiglie per tante cose, dalla spesa all’assistenza di chi ne ha bisogno; questo “terzo polo” garantirebbe l’individuo contro la perversione delle relazioni nel suo nucleo stretto, e di rapporti familiari perversi e ammalanti ne vedo sempre di più; ci sarebbe meno andirivieni avanti e indietro dai propri quartieri, e quindi meno macchine, meno traffico, meno inquinamento; i quartieri anche periferici sarebbero più belli e vivibili. Forse l’aumento del lavoro autonomo, del telelavoro e delle cosiddette microimprese individuali, gente che lavora in solitudine tra le sue quattro mura, casa e bottega, riporterà il tema della comunità al centro dell’attenzione.
(pubblicato su “Io donna”-“Corriere della Sera”)
Oggi è l’8 marzo. E tanto per essere chiara non ho nessuna voglia di parlare di aborto, cosa di cui peraltro fatico a parlare in qualunque altro momento dell’anno. Non ho voglia nemmeno di parlare di single, di emancipate, di quote, di glass ceiling, della forza delle donne, di pari opportunità, di conciliazione dei tempi, di allegre pizze tra colleghe d’ufficio con i mazzetti di mimosa nel portatovagliolo. Né tanto meno voglio parlare di strip maschili e di sguaiate signore che infilano banconote nei perizoma.
Oggi mi è venuta voglia di parlare di famiglia, e della grande nostalgia che ne ho. Guardo la mia famigliola striminzita, 4 cane compreso, sparpagliata nella grande casa, e mi faccio una certa pena. Penso a chi non ha nemmeno questo, e il cuore mi si stringe anche di più. Penso alla mia famiglia d’origine, allegrissima e allargatissima ad amici, vicini, cristi di passaggio. Un carrozzone festoso e incasinato, avete in mente certi flash back di Woody Allen? chiassose tavolate kosher nella vecchia Brooklyn, la zia zitella, il nonno, il cugino intellettuale, non uno uguale all’altro, il trionfo della singolarità.
Che strano, mi viene da dire: oggi che siamo finalmente individui, che la dimensione comunitaria è stata fatta fuori, ci somigliamo tutti, avete fatto caso? perfettamente interscambiabili, uno che vale l’altro, vestiti allo stesso modo, la stessa amara piega nasogeniena, segno inconfondibile della solitudine umana.
Mi fa schifo come viviamo, non siamo nati per questo, vorrei potermi chiudere in una stanzetta con i miei libri, tappandomi le orecchie come facevo da bambina, vorrei il caos della vita intorno a me, vorrei i miei genitori che stavano al bar fino all’una di notte perché era tutto troppo divertente per andare a dormire, e io che gli crollavo in braccio. Vorrei una grande famiglia, una famiglia però senza padroni, piena di fiducia, di allegria e di libertà, piena di vecchi e di bambini, e le chiacchiere delle donne in cucina. Abbiamo cercato altro, e non ci è venuto benissimo. E’ il momento di dirselo. E’ quello che penso, e ve lo offro con tutto il cuore.
(pubblicato su “Io donna”- “Corriere della Sera”)