Ho un livre de chevet, finalmente, da leggere e meditare nelle sue fitte 800 pagine. La cronaca minuziosa di una vita interiore che diventa specchio del mondo e strumento di decifrazione di quell’assurdo a cui è stato dato il nome di Shoah. La Tragedia vista dal dentro di un’anima, come un incubo, un disturbo, il sintomo di un male tutto umano.
Parlo del “Diario 1941-1943” (edizione integrale, Adelphi) di Etty Hillesum, giovane ebrea olandese. Sensuale, inquieta, spregiudicata, ironica (“Risultati del quarto d’ora buddhistico: mi è venuto un gran freddo, sul pavimento”). Nevrotica, colta, lettrice di Jung e di Rilke. Etty nasce ad Amsterdam nel 1914 e muore nelle camere a gas di Auschwitz nel novembre 1943.
La ragazza, si potrebbe dire così, psicoanalizza tutto: se stessa, i suoi amici, i suoi amanti, ogni comportamento, ogni gesto.
Un ossessivo fare ordine. Un certosino, indefesso, ininterrotto lavorio per ricondurre ogni minima circostanza della vita al senso che deve certamente avere: le traduzioni dallo slavo, il volto dell’amico e mentore Julius Spier, le emicranie, i giacinti, i libri, la depressione (“il mio più nero medioevo”), gli slanci erotici, i cioccolatini, le passeggiate al sole della Stadionkade.
Ma anche, man mano che passano i mesi, i primi segni della persecuzione, quei cartelli, “vietato agli ebrei”, gli amici arrestati. Anche quel male lei vuole ricondurlo a un senso.
Quella mattina che nei locali della Gestapo Etty sperimenta per la prima volta la violenza di un giovane ufficiale, che per Etty “era da compiangere più di coloro a cui stava urlando… In fondo, io non ho paura, perché sono cosciente del fatto che ho sempre a che fare con degli esseri umani… avrei voluto chiedergli: hai avuto una giovinezza così triste, o sei stato tradito dalla tua ragazza? Avrei voluto cominciare subito a curarlo”.
Anche quell’inferno in cui troverà la morte passa al vaglio fitto del “cuore pensante” di Etty: “Continuo indisturbata a crescere, di giorno in giorno”. Sempre più vicina a ciò che cerca da sempre, al senso ultimo, fino a dargli il nome di Dio.
Quel Dio che, lei dice, “ha bisogno di noi”, e di cui intende “salvare un pezzetto” dentro di sé, come per proteggerlo da tutta quella disperazione. Perché “a ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi”.
Maestra e sorella Etty.