Giorgia Meloni a Verona ha detto alcune cose condivisibili (non tutte). Ma nelle sue analisi si ferma a metà del guado. E non arriva mai ad attaccare l’origine dei mali che denuncia: il patriarcato
Ecco come le donne farebbero più figli (se lo vogliono). Altro che Fertility Day
La campagna lanciata dalla ministra Lorenzin per un Fertility Day è sbagliata e offensiva. Come se le donne non facessero figli per egoismo. Contro la denatalità servono lavoro, meno precarietà, servizi. La cura va posta al centro delle politiche
Nessuna si arrabbi, per favore, per il titolo -la pazienza di leggere e spiego-. E nemmeno per l’orrore della Donna Carota, opera di Luigi Serafini esposta nel padiglione Eataly di Expo, e senza che nessuna faccia un plissé: salma carotizzata con allusive carote in mano. Ortopornonecrofilia.
In questo tempo del 50/50 (al governo, nei cda, dappertutto) per cui si è tanto combattuto, le donne di questo Paese NON stanno meglio. Un quid di femminismo è diventato quasi obbligatorio per ogni perfetta moglie borghese, come il filo di perle e la petite robe noir. Parità cosmetica che copre una situazione alquanto difficile.
Occupazione ai minimi, gap salariale in aumento, dimissioni in bianco ancora attive: problemi significati dalla natalità a picco, perché quando le donne non lavorano non nascono bambini. Welfare e servizi ancora al grado zero, la gigantesca fatica del quotidiano ancora tutta sulle spalle delle donne. Le legge 194 non funziona più causa colossale obiezione di coscienza e le donne sono costrette a migrare da una regione all’altra per un’interruzione di gravidanza o a comprarsi abortivi online rischiando la pelle. La legge 40 sulla fecondazione assistita -meglio, ciò che ne resta: ieri una sentenza ha dato l’ennesimo colpo, abolendo il divieto di accesso per le coppie fertili ma portatrici di malattie genetiche- attende invano l’ennesimo vaglio del Parlamento. Quanto ai cosiddetti diritti o temi eticamente sensibili (dalle coppie di fatto al fine vita), fermo assoluto. Il rischio che il Partito Democratico sostenesse una legge di regolarizzazione della prostituzione (con tanto di tesserino di idoneità: qui ne abbiamo parlato a lungo) sembra sventato: in sintonia con il resto d’Europa si vira in senso quasi-abolizionista, il cambio di rotta è solo di pochi giorni fa, e sono state necessarie molte lotte. Abbiamo avuto l’amarezza di una consigliera di Parità del Governo a favore delle zone a luci rosse, nonché firmataria di un piano antiviolenza molto carente che, contro la Convenzione di Istanbul, marginalizza le Case delle Donne in prima linea da trent’anni, e non sembra voler assumere le metodologie maturate in queste fondamentali esperienze, burocratizzando, sanitarizzando e securitarizzando l’aiuto alle vittime di violenza, approccio fallimentare. Sembra proprio che la parità faccia fuori la differenza femminile.
Si sta a difendere i minimi. E, detto per inciso: qui c’è un intero programma politico per chi volesse assumerlo.
La parola d’ordine ideologica dello pseudo-femminismo paritario, sentita più volte con le mie orecchie, è “far fuori il vecchio femminismo”: ma a quanto pare senza “il vecchio femminismo” 1. le giovani emancipate oggi non sarebbero lì a occupare quelle posizioni 2. pur con il “nuovo femminismo” le donne di questo Paese stanno peggio, è un fatto.
Vengo alla seconda parte del ragionamento: c’è una perniciosa tendenza femminile a permanere nel lamento e nell’elencazione dei problemi -quella di vittima resta un’identità, per quanto ambigua- con una specie di idiosincrasia per le soluzioni. Per esempio, qui abbiamo più volte raccontato come si potrebbe garantire sia il funzionamento della legge 194, sia il diritto all’obiezione di coscienza che, piaccia o non piaccia, non può essere negato: ecco la proposta. Ma nessuna associazione, nessun collettivo, nessuna del movimento ha inteso finora farsene carico.
C’è anche di peggio: un’analfabetizzazione preoccupante che chiede si corra ai ripari.
Ieri, sulla pagina Facebook di una sindacalista legata al femminismo è comparsa una fotografia di Valeria Fedeli, a sua volta ex-leader sindacale e attuale vicepresidente del Senato. La foto è impietosa: occhiaie, gonfiori, una normale over sixty affaticata dal superlavoro e male illuminata dal flash. La sindacalista ce l’ha politicamente con Fedeli: legittimissimo, anch’io sono arrabbiata con Valeria per alcune cose. Ma per colpirla non usa argomenti politici come dovrebbe, regredendo a una misoginia pre-politica invidiosa, e quindi umiliando anche se stessa: ti indebolisco parlando del tuo aspetto fisico e della tua non-desiderabilità (e non mi accorgo che nel contempo indebolisco anche me).
“Io sarò una cessa” scrive la tipa. “Ma poi mi guardo in giro e mi trovo persino bella!”. Segue una marea di commenti di donne, in uno stupefacente crescendo misogino. “Le hanno oscurato gli specchi”. “Se la mia nipotina fa i capricci le dico… guarda che chiamo la Fedeli!”. “Quella è un mocio vileda”. “E’ brutta quanto arrivista e presuntuosa”. “Ma chi è? Fa parte della famiglia Addams?”. “E’ un clown truccato male”.
Piano per la fertilità? No, serve un piano contro la cattiva politica
Spiacente, ma il nome non funziona. Perché non imposta correttamente il problema. C’è falsa coscienza.
“Piano nazionale per la fertilità”, come l’ha chiamato la ministra della Salute Beatrice Lorenzin, annunciando un tavolo che studierà la nostra denatalità (1.23 figli per donna) e le misure per incrementare le nascite, ricorda troppo i “figli alla patria”, non pone al centro la libertà femminile, che è il principale fattore in gioco, e la politica che la ostacola.
Vero: alle ragazze e ai ragazzi va ricordato che la funzione riproduttiva è un meccanismo delicato e a tempo -non c’è fecondazione assistita che tenga – e che le infezioni a trasmissione sessuale possono compromettere la fecondità. Che ci sono comportamenti -come l’abuso di sostanze, dal tabacco alla marijuana, i disturbi dell’alimentazione e l’eccessiva sedentarietà- che diminuiscono le probabilità di concepire. Ma se poi la politica non mette fuori legge gli ftalati, componenti di oggetti in plastica, creme solari, saponi e dentifrici (le ricerche hanno ampiamente dimostrato che sono un vero killer per la fertilità maschile) c’è poco da dirgli di non farsi le canne.
Il principale fattore di rischio resta senz’altro l’età, giusto avvisare.
Da noi l’età media in cui una donna partorisce il primo figlio è 31.4 anni, quando la possibilità di concepire è già ridotta del 60-70 per cento (nella gran parte dei paesi europei le primipare hanno 27-29 anni). Ma se la politica non interviene contro inoccupazione, instabilità del lavoro, scarsa o nulla tutela della maternità per non occupate, lavoratrici autonome e precarie, dimissioni in bianco, carenza di welfare e servizi di cura, caro affitti e zero mutui; se la politica non promuove un cambiamento culturale, assumendo con determinazione l’evidenza che le donne fanno più figli quando lavorano e non quando stanno a casa come piacerebbe ancora a molti uomini, politici compresi, c’è poco da incoraggiare a fare i figli prima.
L’intervento sociale, quindi, è prioritario per una prevenzione dell’infertilità e sterilità. Lavoro per le donne e welfare = aumento del Pil e delle nascite. Le politiche francesi hanno quasi raddoppiato la natalità. Non impedendo più alle donne che lo desiderano -se lo desiderano- di mettere al mondo bambini.
E’ il libero desiderio delle donne a essere decisivo, e a non dover essere ostacolato dalla cattiva politica.
AGGIORNAMENTO sabato 4 ottobre: mi spiegate a che cosa serve studiare l’infertilità italiana, se poi si aumentano le rette degli asili nido?
#Jobsact: c’è troppo poco sul lavoro femminile
Da anni ci viene raccontato -da Bankitalia, dall’Ocse, non da femministe “interessate”- che un aumento dell’occupazione femminile in Italia in direzione di quell’obiettivo di Lisbona indicato nel 60 per cento, avrebbe effetti virtuosi, anzi virtuosissimi, non solo sulla vita delle donne nel nostro Paese, ma anche sul Pil, sulla natalità (siamo la nazione meno prolifica nonché la più anziana d’Europa, e tanti di quei pochi che nascono a 18 anni ci salutano) e via dicendo.
Lo abbiamo letto in molti editoriali firmati prevalentemente da editorialisti uomini (gli editorialisti restano quasi esclusivamente uomini): più donne al lavoro farebbero + 7 punti di Pil secondo Bankitalia, una dozzina in più secondo l’Ocse. Generebbero un indotto occupazionale, “esternalizzando” servizi di cura oggi delegati quasi esclusivamente a loro, 3 miliardi di ore lavoro annue gratuite: secondo l’Ue la riorganizzazione e la valorizzazione del settore dei servizi alla persona potrebbero creare 7 milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro. Una ristrutturazione del welfare sul modello francese, che l’Europa indica come l’eccellenza assoluta, trasformerebbe il settore dei servizi da costo per lo Stato in Pil aggiuntivo. La natalità aumenterebbe: contrariamente a quanto ci si ostina a credere, più le donne lavorano fuori casa, più figli fanno. Inoltre una massiccia femminilizzazione potrebbe innovare profondamente l’organizzazione del lavoro: le donne sono le più interessate a una flessibilità worker-friendly: part time, telelavoro, tempi elastici, coworking e così via. Secondo la School of Management del Politecnico di Milano, la diffusione di modelli di lavoro agile o smart working può portare alle imprese un beneficio di ben 37 miliardi l’anno tra riduzione dei costi di gestione e aumento di produttività, oltre a 4 miliardi di riduzione per trasporti e pranzi fuori, e alla riduzione di 1.5 milioni di tonnellate di inquinanti come il CO2 ogni anno. Altro effetto virtuoso.
Tutte ottime ragioni per posizionare l’occupazione femminile al centro di una efficace riforma del lavoro nel nostro Paese. Vedremo i dettagli del jobsact, ma non mi pare che questo stia capitando -tolto il giustissimo intento di estendere l’indennità e le tutele alla maternità oltre il “recinto” delle garantite, e qualche forma di incentivazione per le imprese che assumono donne-.
I famosi Pigs, dove la crisi morde di più, sono proprio quelli in cui gli stati delegano moltissimo alle donne, intese come welfare vivente. In quei Paesi, Italia compresa, l’occupazione femminile non cresce e la natalità nemmeno, si crea cioè una paralisi di sistema. Si dovrebbe ragionare su quanto questi modelli di non-welfare e non-occupazione femminile contribuiscono al rischio default.
Resiste invece un’idea del lavoro femminile come un di più, un lusso a cui dover rinunciare nei momenti di vacche magre.
Ma pensare ai lavoratori come lavoratrici sarebbe il cambiamento più formidabile.
Se avessi il numero di Papa Francesco, al quale voglio bene, gli telefonerei per dirgli che la sua battuta sui cani e sui gatti non mi è piaciuta affatto.
Può anche essere che ci sia qualche coppia Dink (double income no kids) che a un bambino preferisce un soriano o un bulldog francese. Ma io conosco soprattutto un sacco ragazze che appuntano sulle loro bacheche di impiegate precarie foto di nipotini o di bimbi della pubblicità. Che osservano con angoscia il ticchettare del loro orologio biologico. E che alla fine prendono un cucciolo per riempire il vuoto, anche perché un cane o un gatto non fa scattare il licenziamento.
Da Papa Francesco, sempre così attento alle sofferenze umane, più che un’esortazione a fare bambini –suppongo che si sia spaventato di fronte ai numeri che illustrano la nostra natalità quasi-zero- mi sarei aspettata un severo monito a tutti coloro, a qualunque titolo, contribuiscono a dare vita a una società antimaterna. E il più delle volte per ragioni di profitto.
“Il demonio che attacca la famiglia”, come lui ha voluto dirlo, si chiama profitto.
Da Papa Francesco mi sarei aspettato una dura reprimenda contro i datori di lavoro che costringono le giovani donne alla sterilità, facendo loro firmare lettere di dimissioni in bianco, e contro quelli che le condannano, loro e i loro mariti o compagni, al precariato permanente, condizione che disincentiva ogni progetto genitoriale. Contro le banche che non concedono mutui. Contro uno Stato che, a differenza di quasi tutti gli altri Stati europei, non dà alcuna mano alle giovani madri e ai giovani padri, lasciandoli soli a godersi il “lusso” del figlio forzatamente unico.
Nessuna vera politica sulla famiglia, scarsissimo welfare, aiuti quasi-zero, sostegno economico idem.
La spesa media dei Paesi Ocse per la famiglia è del 2,2 per cento, con notevoli differenze. Francia, Gran Bretagna e Svezia sono i Paesi nei quali la spesa per le famiglie è più elevata (3,7 per cento in Francia, 3,5 in Gran Bretagna, oltre il 3 anche in Svezia). Tutti questi Paesi sono vicino ai 2 figli per donna. L’Italia spende per le sue famiglie l’1,4 per cento del Pil.
Leggo che il Sinodo del prossimo autunno sarà dedicato proprio al tema della famiglia. Mi auguro che Francesco colga l’occasione per aprire un vero e proprio conflitto con lo Stato Italiano e con la sua cultura anti-materna.
Cara Ministra Lorenzin, sono gli uomini a dover essere “educati alla maternità”
L’espressione, “grande piano nazionale di fertilità”, non è sicuramente delle più felici, e nemmeno l’idea di “educare alla maternità”. Specialmente in bocca a una donna, la ministra per la Salute Beatrice Lorenzin, che come capita spesso alle ministre e alle donne politiche sembra dimenticare di esserlo anche lei. Parole, le sue, che ricordano fatalmente i tempi bui dei figli alla patria e fanno pensare alle donne come mansuete fattrici.
In un’intervista ad “Avvenire” la ministra ha infatti affermato che
“i bambini devono tornare a nascere e serve educare alla maternità. Ho in testa una nuova sfida, un grande piano nazionale di fertilità. Il crollo demografico è un crollo non solo economico, ma anche sociale. È una decadenza che va frenata con politiche di comunicazione, di educazione e di scelte sanitarie. Bisogna dire con chiarezza che avere un figlio a trentacinque anni può essere un problema, bisogna prendere decisioni per aiutare la fertilità in questo Paese e io ci sto lavorando. Sia chiaro: nessun retropensiero e nessuno schema ideologico, ma dobbiamo affrontare il tema di un Paese dove non nascono i bambini“.
La denatalità è senz’altro un problema: siamo il Paese più vecchio d’Europa, e tanti di quei pochi giovani sono costretti ad andarsene per campare. Quindi anche i loro figli non saranno “nostri”, se è possibile dirla in questo modo. Nei panni della ministra, però, le cose le avrei messe così:
è necessaria, certo, un'”educazione alla maternità”, rivolta al mondo dell’impresa che -vedi dimissioni in bianco e tutto il resto- pensa la gravidanza come un lusso o una peste, e le giovani madri come una iattura. Ma anche alla politica, che perpetua l’idea dell’alternativa secca tra lavoratrici e madri (o sei una cosa, o sei l’altra: e se sei l’altra te ne stai tranquilla a casa) ignorando il dato statistico che dimostra la correlazione positiva tra tasso di occupazione femminile e natalità.
Per rieducare la politica è necessario rompere con questo pregiudizio, radicato nel desiderio maschile, che la donna resti a casa a fare la madre, a completa disposizione. Questo è uno degli aspetti della nostra tenace questione maschile. Sono gli uomini a dover essere educati alla maternità.
Educazione alla maternità significa mettere al centro delle politiche questa coppia madre-bambino, le cui raffigurazioni abbondano nelle chiese del nostro Paese, mariano e prima ancora di Grandi Madri, ma nemico delle piccole madri e antimaterno. Significa l’adozione di misure a favore dell’occupazione femminile, sostegno alle imprese di donne, accesso agevolato al credito: più le donne lavoreranno, più bambini nasceranno. Significa offrire un reddito di esistenza e garantire la maternità universale, anche in assenza di contratti a tempo indeterminato, sempre più assenti. Significa costruire una società mummy-and-baby friendly. Significa garantire i servizi indispensabili alle famiglie e ai caregiver, donne o uomini che siano. Significa offrire possibilità abitative e accesso ai mutui per le giovani coppie.
(il governo danese, molto creativo, spinge addirittura le coppie a viaggi romantici per concepire più bambini, offrendo bonus economici a chi dimostrerà un concepimento a Parigi o a Venezia: ma non si pretende tanto).
Questo sì, sarebbe un grandissimo piano di “educazione alla maternità”. Che consentirebbe alle donne nella loro piena autodeterminazione di decidere sulla propria maternità: libere di scegliere non soltanto di poter interrompere la gravidanza in sicurezza, con la piena applicazione della 194 azzerata dall’obiezione, ma anche e soprattutto di non dover congelare la loro fecondità fino al limite estremo dell’età fertile e di non dover ricorrere alla fecondazione assistita.
Se per piano nazionale di fertilità la ministra Lorenzin intende tutto questo, be’, si tratta di un’idea grandiosa. Siamo tutte qui per darle una mano.