Domani 7 novembre a Bologna parteciperò al convegno “Le parole della violenza-Centri antiviolenza e media si confrontano su come raccontare la violenza contro le donne” (ore 10-16.30, Palazzo d’Accursio – Sala Farnese, Piazza Maggiore, 6: il programma qui).

Anticipo una parte del mio intervento:

“… Vediamo il caso recente di Sonia Trimboli, 42 anni, ammazzata dal compagno in pieno centro a Milano. Intanto i media sottolineano molto questo “pieno centro”, nonostante le statistiche abbiano pienamente dimostrato che non ci sono zone geografiche né classi sociali estranee al fenomeno della violenza sessista, e anzi abbiano evidenziato che l’autonomia della donna, l’alta scolarità, la realizzazione professionale costituiscano dei fattori di rischio. Abbiamo bisogno di continuare a raffigurare il violento come brutto, sporco, cattivo, ignorante, miserabile e preferibilmente straniero e di pelle scura, o almeno del Sud. Questo immaginario resiste.

Traggo da un quotidiano: “è voce diffusa, erano frequenti i litigi. E i litigi, che cominciavano con urla e con insulti, spesso terminavano nello scontro fisico, nel lancio di oggetti, come ad esempio — la scena è rimasta ben impressa nei ricordi di quel conoscente del palazzo di fronte — il lancio di bottiglie di vino. I due fidanzati cercavano di coprire le risse tenendo la musica dello stereo ad altissimo volume”.

Quindi lui la picchia e lei corre ad alzare lo stereo perché il problema è non farsi sentire dai vicini. Qui si vede il tentativo di distribuire la responsabilità della violenza tra i due partner. Non si può escludere a priori che le cose andassero effettivamente in questo modo, cioè che entrambi usassero violenza uno nei riguardi dell’altra, anche se è raro che le cose vadano così. In ogni caso, nel momento in cui scrive il giornalista -subito dopo il fatto-non ci sono ancora elementi per sapere se anche lei era violenta nei riguardi di lui, e tuttavia decide di dire che entrambi andavano ad alzare il volume dello stereo.

Più avanti nel testo si dice: “secondo i primi riscontri, il delitto sarebbe stato d’impeto”.

e questo dopo le testimonianze dei vicini e dei familiari che convergono nel dire che c’erano già stati molti problemi, che lui era violento, il 28 agosto aveva già tentato di ucciderla e lei l’aveva denunciato. Insomma il quadro era chiarissimo, si trattava di una situazione ad altissimo rischio, c’erano tutti gli elementi che normalmente anticipano un femminicidio, viene da dire che sarebbe stato un miracolo se la cosa prima o poi non fosse avvenuta.

Eppure il giornalista parla di delitto d’impeto, come se si fosse trattato di un uomo mite, amoroso e gentile che a freddo mette le mani al collo, anzi un elastico al collo della compagna. Mentre chi lavora sulla violenza sa benissimo che le cose non vanno mai così, c’è il test Sara per valutare il rischio, ci sono sempre segnali molto precisi da leggere e valutare.

Anche qui un immaginario che resiste: quello dell’assassino che improvvisamente si sconnette da se stesso, viene posseduto da un demone, non è più lui, e uccide.

La cosa interessante è che dopo tante lotte che abbiamo fatto perché i media rinunciassero al termine “raptus”, che dà appunto l’idea di questo impossessamento da parte di un demone, ora si parla di impeto, che sostanzialmente indica la stessa dinamica: uno calmo e tranquillo che a freddo, come un pitbull, parte all’assalto.

Sarebbe forse il caso di analizzare il perché di questa resistenza nel linguaggio giornalistico maschile a rinunciare all’idea della cosa improvvisa. Mi chiedo, cioè, se questo non sia un percepito maschile da indagare: ovvero se questo non indichi una difficoltà maschile generale ad accettare e a venire a patti con i propri vissuti violenti, rimuovendoli, mentre quelli sono lì e continuano a lavorare sottotraccia. Se non ci sia la paura permanente di perdere il controllo su questi vissuti negati.

Il raptus o impeto è allora il momento in cui questi vissuti violenti nei confronti della donna non riesci più a controllarli, il rimosso ritorna, crollano le barriere e gli argini e la violenza travolge tutto. E’ quando per esempio molti assassini e violenti dicono: mi aveva esasperato. Leggi: è colpa sua che non aveva affatto collaborato a tenere in piedi il muro che arginava la mia violenza. L’idea che ne consegue è che quanto più tu sei consapevole dei tuoi vissuti violenti nei confronti delle donne, quanto più adultamente te ne fai carico e accetti di averne, tanto meno ti farai sorprendere da questi vissuti, tanto più saprai gestirli, accompagnarli ed elaborarli.

Noi possiamo anche fare la lotta perché il linguaggio mediatico sulla violenza cambi, ed è una lotta giusta. Ma questo linguaggio va anzitutto guardato attentamente perché ci dà molti elementi sullo stato delle cose, sulla reale percezione maschile della questione, al di là di ogni presa di posizione politicamente corretta: io credo che anche molti violenti ci direbbero che la violenza sulle donne è una cosa sbagliata, esitando a riconoscere se stessi come violenti. Sapete che ci vuole un grande lavoro preliminare perché accettino di riconoscersi come violenti.

Non è glassando tutto di amicizia tra i sessi che faremo passi avanti, e quindi nemmeno depurando ed emendando il linguaggio giornalistico dei suoi lapsus rivelatori. Freud diceva che nell’inconscio passeggiano i dinosauri: intendeva dire che i tempi dell’inconscio sono lentissimi, e nell’inconscio maschile i modi e le leggi del patriarcato sono ancora vivissimi, anche se il patriarcato è morente.

Quello che sta accadendo in Siria, in Iraq, in Arabia Saudita, in Iran, dovremmo vederlo come l’atroce teatro in cui l’animale morente sta offrendo al meglio il suo ignobile spettacolo agli occhi del mondo“.

p.s: diversamente da quanto riportato in locandina, il mio intervento sarà in mattinata, poi parteciperò anche al dibattito del pomeriggio.