Browsing Tag

articolo 18

giovani, italia, lavoro, TEMPI MODERNI Ottobre 21, 2015

La triste vita nelle aziende

Giovani e precari, fortunatissimi giovanotti/e che in un modo o nell’altro lavorano, e non è roba per tutti, in-attesa-di-rinnovo-di-contratto  ammazzandosi di fatica, mandare comunque in giro curriculum perché non si sa come va a finire, mai alzare la cresta, mai rivendicare un diritto anche se ce l’hai in contratto, manca un mese alla scadenza, mancano 15 giorni, a te ti hanno detto qualcosa? (tra me e te spero che salvino te, scusa, sono costretto a pensare questo, amico), sempre sissignore, pedalare anche con la febbre, odio soprattutto per quei maledetti vecchi, 40 o 50 anni ormai fuori dal mondo, con capiscono un ca…o, non imparano più un c…o, e perché non se ne vanno? supergarantiti e non rendono niente e possono permettersi tutto, finché non vanno a casa loro per noi non c’è speranza, ma adesso si sente dire di una legge –l’ho sentito alla tv- una legge che possono licenziare anche i vecchi, possono lasciarli a casa come noi, cioè anche a loro gli tolgono l’articolo 18, è questione di mesi, l’ha detto il governo, gli daranno un po’ di pensione, non so, basta che si levino dalle palle, non ce la faccio più a farmi un mazzo così e loro sempre in malattia, sempre una scusa, e la maternità e una palla e l’altra, e noi qua ogni 6 mesi-un anno a tremare perché non sai mai come va a finire, e una volta mi sono girate e ho risposto male al capo e lui non mi ha parlato per una settimana e io non ci dormivo la notte, sono fregato, pensavo, e invece ‘sti vecchi di m…a che hanno tutti i diritti, ma che muoiano, ma che vadano ai giardinetti col cagnolino, che se ero io a poter andare a casa sparavo i mortaretti, perché questa è vita? ditemi se è vita, ogni mattina venire qua e la sera uscire con le ossa rotte, che se vai in bagno una volta di più ti guardano male, tu messo così, quei due amici e quelle due amiche che lavorano come te, stanchi morti che ce la fai a malapena a farti una birra, e gli altri e le altre messi e messe invece molto peggio, perché la birra gliela devi pagare tu (la disoccupazione giovanile in Italia è al 40,7 per cento, con tendenza a crescere, ndr).

La triste vita nelle aziende.

Donne e Uomini, economics, lavoro, Politica Aprile 11, 2012

Riforma del lavoro: ci basta?

E al capo V del disegno di legge di riforma del mercato del lavoro, sotto la voce “ulteriori disposizioni”, arrivano le voci rubricate come “donne”: dimissioni in bianco, figli, baby sitter. Troppo poco? Un primo segno? Ne l’uno né l’altro. Perché per capire quello che la riforma significa per le donne, conviene guardare al tutto (http://governo.it/Notizie/Palazzo%20Chigi/dettaglio.asp?d=67489), non solo al ripristino del contrasto alle dimissioni in bianco, al mini-mini congedo di tre giorni continuativi di paternità obbligatoria, e ai buoni per pagare le baby sitter invece di prendersi le aspettative facoltative per maternità.

Togliamo subito di mezzo il Moloch: l’articolo 18 e l’accordo finale che lo ha avuto ad oggetto. Non perché non conti: sotto la voce “economici” potevano passare anche i licenziamenti discriminatori. Adesso i pesi sono stati un po’ riequilibrati, si sono rafforzate le tutele in uscita, buttando la palla nel campo dei giudici. Ma tutto questo dibattito ha continuato a oscurare l’altra faccia della riforma, la questione dell’entrata al lavoro. Su questo ci vogliamo concentrare. Perché a noi interessano quelle che l’art. 18 non ce l’hanno e non lo avranno mai, le non-posto-fisso, senza tutele. Era per loro la riforma, no? Allora qualche numero, e i nostri 4 punti.

Uno. Non tutti i disoccupati sono uguali. Ci sono quelli che hanno appena perso un lavoro e quelli che invece cercano il primo lavoro, o escono da un periodo in cui (vuoi per scoraggiamento, vuoi per altri accidenti della vita, tra i quali – per dire – un figlio) non l’avevano e non l’hanno cercato. Tra i primi (disoccupati ex-lavoratori) i maschi sono la maggioranza: 56%. Nel secondo gruppo (nuovi entranti sul mercato del lavoro) primeggiano le donne: 63%. (dati Istat, riportati nell’articolo di redazione di inGenere.it “Lavoro, una riforma che guarda al passato”, http://www.ingenere.it/articoli/lavoro-una-riforma-che-guarda-al-passato). Tutti gli ammortizzatori sociali oggi esistenti sono per il primo gruppo, gli ex. Motivo forte per sperare nella riforma. Che però non prevede niente per i nuovi entranti: hai un’indennità, di qualche tipo, in caso di disoccupazione, solo se hai perso un lavoro.

Due. Anche quelli che hanno perso un lavoro non sono tutti uguali. Ci sono i tempi indeterminati, quelli del posto fisso, poi i tempi determinati, posto a termine ma comunque da dipendente, e tutti gli altri, i precari (co-co-pro, partite Iva, prestatori occasionali, ecc). La riforma allarga le tutele solo ai dipendenti, rispetto a prima quel che cambia è che ci sono gli apprendisti e gli artisti. Per loro sarà l’Aspi. Mentre la mini-Aspi rafforza un po’ la vecchia “disoccupazione a requisiti ridotti”, ma ancora una volta riguarda solo quelli che escono da un lavoro dipendente (e hanno almeno 2 anni di contributi versati). Rimangono invece esclusi da qualunque tutela “tutti gli altri” e le donne – manco a dirlo – sono qui le più numerose. Una ricerca Isfol (si veda http://www.isfol.it/Notizie/Dettaglio/index.scm?codi_noti=7176&cod_archivio=1) ha, infatti, calcolato che tra i lavoratori “non-standard” ci sono più donne che uomini. Se poi si va a guardare per fasce d’età troviamo che è sotto i 40 anni che c’è la maggiore disuguaglianza tra uomini e donne con un’alta concentrazione di precarie. Lo confermano anche i dati Inps sulla gestione separata. Discriminazione per fertilità? A questo proposito, nella riforma non c’è traccia dell’assegno di maternità universale, cavallo di tante battaglie (si veda la proposta elaborata dal gruppo Maternità e paternità: http://maternitapaternita.blogspot.it/p/avere-un-figlio-oggi-e-un-privilegio.html).

Tre. Quel che c’è sono alcuni paletti e vincoli all’uso dei contratti precari. Che daranno più rogne amministrative e costeranno di più. I contributi per gli atipici infatti salgono, e parecchio: per i co-co-pro arriveranno al 28% l’anno prossimo e al 33% nel 2018. Se le imprese saranno costrette a pagare i contributi ai co-co-pro quasi quanto quelli dei dipendenti, alla fine potrebbero trovare conveniente assumerli, dice il governo. Ma il ragionamento cade se questi contributi, formalmente a carico dei datori di lavoro, alla fine saranno scaricati sui precari stessi, abbassando il loro compenso netto. Lo dicono i precari dell’associazione Tutelare i lavori (Un bidone per i precari, http://www.tutelareilavori.it/), e lo ha scritto Tito Boeri: “in assenza di un salario minimo, nel caso di lavoratori a progetto e altri lavoratori parasubordinati, il maggiore carico contributivo potrà facilmente essere fatto pagare al dipendente sotto forma di salari più bassi. I lavoratori parasubordinati stanno già ricevendo lettere dai datori di lavoro in cui si annunciano riduzioni del loro compenso nel caso di riforme che aggravino i costi delle imprese”). (http://www.lavoce.info/articoli/-lavoro/pagina1002956.html). Morale: i precari avranno contributi più cari senza nessuna tutela in più.

Quattro. Eccoci alla voce “ulteriori”, zona donne. La legge contro le dimissioni in bianco, abolita dal governo Berlusconi nel 2008, prevedeva che le dimissioni volontarie potessero essere firmate solo su particolari moduli degli uffici del lavoro, numerati e datati: in questo modo si poteva evitare la pratica, appunto, della firma preventiva su fogli bianchi senza data. Procedura troppo complicata, secondo il governo, che ne ha predisposto un’altra (v. art. 55 del ddl): salutiamo la buona notizia, sperando di essere finalmente passate dal simbolo alla realtà. (Anche se qualcuno teme che alla fine i datori di lavoro colpevoli di aver fatto firmare le dimissioni in bianco possano cavarsela solo con una multa: ma su questo, sarà opportuno aspettare i dettagli tecnici del testo e analisi più approfondite). Mentre è di certo solo un simbolo l’art. 56, quello sui congedi obbligatori di paternità: 3 giorni in tutto, “anche continuativi”, di cui due “in sostituzione della madre”. Alcuni contratti di lavoro già prevedono congedi di paternità, ma sarebbe la prima volta che ne viene introdotto, per legge e in Italia, l’obbligo. E questo è un passo avanti. Ma così piccolo e così puramente simbolico da poter sembrare quasi un inciampo. Ovunque si discuta seriamente di congedi di paternità, si va ben oltre la soglia – abbastanza risibile – dei tre giorni (si veda il dossier http://www.ingenere.it/dossier/i-congedi-di-paternit). Forse consapevole del fatto che le misure proposte sono poca roba, il ministro Riccardi si appresta a rafforzare il pacchetto “congedi” nell’iter parlamentare, mettendoci dentro anche quelli per i nonni: perché allora non preparare in parlamento un assalto trasversale al congedo di paternità, portandolo da 3 a 15 giorni?

Insomma, il primo atto del governo Monti-Fornero ha aumentato l’età della pensione, nuove regole per tutti ma con effetti prevalenti sulle donne. Dal secondo atto – la grande riforma del mercato del lavoro – era lecito aspettarsi una fase due un po’ women friendly, dato che la titolare del lavoro ha anche le pari opportunità, dato che le analisi sull’aumento del Pil che può portare il lavoro femminile si sprecano, dato che il vecchio sistema degli ammortizzatori sociali era studiato sul maschio-adulto-e-garantito. E invece, di gender mainstreaming nella riforma non c’è traccia (si veda anche l’analisi di Snoq: http://www.senonoraquando.eu/?p=9234). Finisce che portiamo a casa solo un articoletto che, ben che vada, impedisce di buttarci fuori quando abbiamo la pancia. Ci basta?

 

contemporaneamente postato da

Roberta Carlini

Giovanna Cosenza

InGenere-Webmagazine

Loredana Lipperini

Manuela Mimosa Ravasio

Lorella Zanardo

e da

Italia 2013

Supercalifragili

Giorgia Vezzoli

economics, lavoro, Politica Marzo 23, 2012

Lacrime-Napolitano

Due scene che mi hanno colpito, in questo rush finale sulla riforma del lavoro:

la piccola esitazione di Elsa Fornero in conferenza stampa, quando rispondendo a un giornalista le è toccato chiarire che le nuove norme sull’articolo 18 riguardavano tutti i lavoratori, e non soltanto i nuovi assunti come qualcuno poteva avere creduto; come se temesse una reazione, che invece non è arrivata.

Soprattutto, il singhiozzo trattenuto del Presidente Napolitano nel suo discorso alla gente di Vernazza, quando ha accennato alla sua propria “responsabilità”. La responsabilità è immane, non c’è dubbio. Ma quel cedimento mi ha fatto paura. Mi ha fatto pensare che nemmeno lui fosse del tutto certo che la strada intrapresa era quella giusta. Anche se poi oggi tutti i giornali riferiscono della sua instancabile attività di “moral suasion”.

Ieri sera la ministra Fornero ha assicurato che non saranno consentiti abusi. Che il nuovo art. 18 non significa dare alle aziende licenza di uccidere con licenziamenti in massa. Che saranno adottati strumenti in questo senso.

Quali? Qualcuno di voi riesce a immaginarli?  Quanto facilmente saranno aggirabili? Avete presente l’efficacia del lavoro di lobbying?

L’altra cosa è questa faccenda dei lavoratori statali. Fornero se ne lava le mani, con un certo sollievo. Ci penserà il ministro della funzione pubblica, dice. Ma che ai lavoratori del privato e quelli del pubblico tocchi un diverso destino è francamente inaccettabile, e forse facilmente aggirabile in quanto incostituzionale. Tanto più che, a proposito di investitori esteri, il nostro gigantismo burocratico, insieme alla pervasività della grande criminalità organizzata, altro che art. 18, scoraggerebbe un elefante. I conti non tornano. E però sì, tenere fuori gli statali ha i suoi vantaggi, significa fare fuori un grosso ostacolo sulla strada della riforma e spaccare il fronte del lavoro.

Intendo dire che, alla prova dei fatti, le performance del nostro magnificato governo tecnico sono molto meno infallibili di quanto ci fosse venuto comodo credere. Sono persone, possono sbagliare. Anche noi che non siamo professori e che non ce ne intendiamo, qualcosa che non torna lo intravediamo. Perfino la Chiesa è intervenuta in modo molto più duro di quanto ci sarebbe potuti aspettare.

Ogni tanto ho la sensazione che anche i professori dicano e facciano qualche cavolata. Mi capitava anche a scuola, ricordo. Non è una sensazione piacevole.

 

Aggiungo ultim’ora, dichiarazione di stamattina: «Non credo che stiamo per aprire le porte a una valanga di licenziamenti facili” ha detto il Presidente “sulla base della modifica dell’articolo 18, anche perché bisogna sapere a cosa si riferisce l’articolo 18»

Ecco, “non credo” -se ha detto proprio così- mi pare diverso da “vi assicuro”, vi garantisco”, “mi impegno”, “vi do la mia parola”.

Donne e Uomini, economics, lavoro, Politica Marzo 21, 2012

La solitudine di Susanna

Non vorrei essere Susanna Camusso. Sento il peso enorme della responsabilità che ha sulle spalle, dopo la giornata di ieri, che a quanto pare ha sancito la fine della concertazione, insieme a quella dell’articolo 18, e sta mettendo a dura prova l’unità sindacale,

L’altro giorno Emma Marcegaglia diceva agli industriali che le era stato affidato quel ruolo proprio nel momento più difficile. Credo che Susanna Camusso possa dire la stessa cosa. Almeno in questo saranno d’accordo.

Intervendo ieri sera a Linea notte su RaiTre, dicevo che alle imprese è stato dato molto, con questa riforma; ora tocca loro restituire in investimenti e occupazione. Vedremo. Quel che è certo, la questione dell’articolo 18 è stata il focus. Quello era il muro che si doveva abbattere. Il resto ha il sapore di un contorno.

Ho detto ieri sera che si è parlato di entrata nel lavoro (un po’) e di uscita (moltissimo). Di decollo e di atterraggio. Ma del volo, di quello che c’è in mezzo, che poi è la nostra vita non separabile dal lavoro, si è parlato pochissimo. Intendendo con questo l’organizzazione del lavoro, inchiodata a tempi, modi e orari vecchi un secolo, una struttura militare fatta di gerarchie e di detenzione dei corpi, evidentemente costosissima -per tutti, aziende comprese- e improduttiva.

Mettere le donne al centro di questa riforma del lavoro significava soprattutto questo: parlare di organizzazione del lavoro, e cambiarla. Molto più che insistere sull’abbinata lavoro-welfare e sulla solita  improbabile conciliazione, strumento ormai inservibile. E del resto non si è fatto nemmeno questo minimo. Le misure di defiscalizzazione conteranno molto poco per l’occupazione femminile, e di servizi ce n’è sempre meno.

Quando si parla di lavoro si continua a pensare ai lavoratori maschi, e la “questione” del lavoro femminile è sempre assunta dopo, e a latere, come osservava giustamente Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera, quando tutte le analisi, compresa quella della Banca d’Italia, concordano sul fatto che metterla al centro apporterebbe benefici (+8-10 per cento di Pil) a tutto il Paese.

L’occasione è stata mancata. Paradossalmente, proprio quando erano tre donne in prima linea a discutere e decidere. Ma la lingua delle donne non è entrata in questa trattativa. Continueremo a lavorare come prima, peggio di prima, sentendo la lama sul collo, regressivamente in difensiva. Siamo finalmente europei: meno tutele per tutti. Non lo siamo quanto a qualità e quantità dei servizi, e quanto a livello degli stipendi non parliamone. Problemi che noi donne -nessun aiuto, stipendi e pensioni più bassi, una società ferocemente maschilista che ci scarica tutto addosso- sentiremo in modo molto più acuto.

Del resto favorire l’occupazione femminile significa lasciare sguarnito quel welfare vivente quotidianamente e silenziosamente erogato, una risorsa che non conosce crisi, e dover investire soldi pubblici in servizi… No, meglio che stiamo a casa, come si faceva una volta. Molto più comodo per tutti.

Dipendesse da me, per come sono fatta io, scenderei in piazza ora, subito, così come mi trovo, mollando ogni altra occupazione.

Sento la solitudine di Susanna, che non può nemmeno contare sulla sponda parlamentare di un Pd  incerto, lacerato, in irreversibile crisi identitaria.

Non so come andrà a finire. So che abbiamo cominciato molto male.

 

economics, Politica Ottobre 27, 2011

Buon appetito!

La letterina all’Europa è piaciuta. Bene! Tra i provvedimenti che dovrebbero rilanciare la crescita c’è anche la sostanziale libertà di licenziamento “per ragioni economiche”. Non è molto chiaro perché Umberto Bossi faccia il ganassa ergendosi a paladino delle pensioni, e poi nemmeno un plissé sul tema licenziamenti (però ribadisce che sul voto decide lui: meno male): ascoltare Radio Padania. I sindacati sono sul piede di guerra in difesa dell’articolo 18: ma che cosa si può fare, ormai? L’Europa ha detto ok, l’accendiamo.

Il presidente Napolitano parla del coraggio di misure impopolari: beh, sarà contento, più impopolare di questa non ce n’è. Altro che regolarizzazione dei precari: qui siamo alla precarizzazione dei regolari. Di motivi economici per licenziare un’azienda ne ha sempre, a iosa, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Intanto a Palazzo Chigi si assume una trentina di persone e più, in deroga al blocco delle assunzioni e nonostante si parli di tagli agli statali. Detto tra parentesi: che cosa ne dite del lauto pasto al Senato, 19 ottobre, a 7 euro e 50? ma  che c’entra con le misure economiche? ci mancherebbe altro!

L’Europa ovviamente raccomanda misure di sostegno -un’indennità di disoccupazione?- per chi resta senza lavoro. Non sa che dalle nostre parti cose del genere non usano. Come per la manovra, che parifica l’età pensionabile delle donne: non è che in cambio siano aumentati sostegni e servizi. Il welfare siamo noi!

Buona giornata, e buon appetito!