Leggo con commozione Tahar Ben Jelloun, la sua lettera ai fratelli musulmani.
“Nel nome “Islam“” dice lo scrittore marocchino, “è contenuta la radice della parola “pace”. Ma ecco che da qualche tempo la nozione di pace è tradita, lacerata e calpestata da individui che pretendono di appartenere a questa nostra casa”. Si tratta di “una dichiarazione di guerra di nuovo genere, una guerra di religione” e “siamo tutti chiamati a reagire: la comunità musulmana dei praticanti e di chi non lo è, voi ed io, i nostri figli, i nostri vicini. Non basta insorgere verbalmente, indignarsi ancora una volta e ripetere che “questo non è l’Islam”. Non è più sufficiente, e sempre più spesso non siamo creduti quando diciamo che l’Islam è una religione di pace e di tolleranza. …dobbiamo scendere in massa nelle piazze e unirci attorno a uno stesso messaggio: liberiamo l’Islam dalle grinfie di Daesh. Abbiamo paura perché proviamo rabbia. Ma la nostra rabbia è l’inizio di una resistenza, anzi di un cambiamento radicale di ciò che l’Islam è in Europa”.
Girano altre lettere di questo tenore, e posso solo immaginarne il prezzo. Per noi è facile parlare e scrivere, anche aspramente. Per un musulmano prendere una posizione come questa comporta una notevole fatica esistenziale e politica. Musulmane critiche come Irshad Manji o Ayaan Hirsi Ali vivono da anni sotto fatwa.
La verità, lo dicono da tempo studiosi dell’Islam del calibro di Gilles Kepel, è che solo l’Islam potrà sconfiggere il terrorismo islamista. E’ lì che devono attivarsi gli anticorpi che distruggeranno il male. E il primo passo è che venga inequivocabilmente riconosciuto come un male. Subito dopo l’orrore di Charlie Hebdo ho scritto che mi aspettavo una chiara e inequivoca reazione da parte dei musulmani. Non pensavo, come dice bene Ben Jelloun, a formali dichiarazioni di presa di distanza. Sarebbe ingiusto chiederle, e anche inutile: come vediamo, la condanna dopo ogni attentato da parte di Imam e capi delle comunità nazionali non impedisce l’attentato successivo. Intendevo che i musulmani mostrassero chiaramente di intendersi come la prima vittima di quell’orrendo terrorismo, e il suo primo nemico, la prima linea di quella che Ben Jelloun definisce senza giri di parole una “guerra”. Intendo che tocca ai musulmani allargare a dismisura e guidare la schiera del “noi”, confinando il terrorismo jihadista nel recinto angusto del “loro”.
Le reazioni alle mie aspettative per il dopo-Charlie non sono state buone. Mi sono beccata dell’islamofoba. Ho dovuto vedermela con chi indugia ad analizzare le ragioni storiche e le responsabilità –nostre- di questo immane disastro, il che equivale chiamare l’elettricista per capire i motivi del cortocircuito quando ormai l’incendio sta divampando. Ci sono i minimizzatori e le minimizzatrici, quelli che l’incendio proprio non lo vogliono vedere. Ci sono i romantici filopalestinesi ancora fermi alle Intifade. Ci sono i franchi antisemiti, per alcuni dei quali si tratta del solito complotto pluto-giudaico-massonico, dall’11 settembre in poi.
Le parole di Tahar Ben Jelloun il giorno dopo l’orrendo sgozzamento del vecchio parroco della Normandia mi confortano: finalmente qualcosa che va nel verso giusto. E suscitano in me non musulmana, in me cristiana, una domanda: come posso contribuire a fare andare le cose nel verso giusto? Che cosa posso fare, non rinunciando alla consapevolezza delle “nostre” responsabilità, per dare a queste parole la maggiore forza possibile?
E’ una domanda difficile, che forse potrebbe ancora servirci a sfuggire risposte pavlovianamente violente: se è una guerra, come dice Jelloun, se è una “guerra mondiale a pezzi”, come dice Papa Francesco, e allora che sia guerra. Siamo ancora in tempo per attivare tutte le risorse di cui disponiamo per minimizzare odio e distruzione? Con quali dispositivi, anche severi, possiamo accompagnare la presa d’atto da parte delle comunità musulmane d’Europa che questo terrorismo “non conviene” soprattutto a loro?
Quello che è certo: la denegazione della gravità dei fatti, le teste infilate nella sabbia (“ma va là”, “ma figuriamoci!”), i romanticismi filopalestinesi, le ipotesi complottarde sono un lusso tipicamente occidentale, una mollezza che di questi tempi non possiamo più permetterci, e costituiscono a pieno titolo l’anticamera del disastro.
Questi atteggiamenti non evitano la guerra, la avvicinano.