Io non giudico. So bene che liberarsi dalla violenza comporta un percorso doloroso, faticoso, accidentato, e che nessuna può farlo al posto tuo. So dei passi avanti e delle marce indietro, di quelle che vanno a cercare aiuto e poi tornano nelle loro galere, della complessità dei legami con il tuo aguzzino, della sindrome di Stoccolma, delle difficoltà economiche e logistiche, del problema dei figli, delle logiche autoconsolatorie -“in fondo le cose tra gli uomini e le donne sono sempre andate così, non sarò la prima né l’ultima”-.

Conosco le conseguenze della paura e dell’umiliazione che riducono poco a poco le tue pretese di libertà e la tua coscienza di te stessa, l’assuefazione anche alle situazioni più insopportabili, la progressiva riduzione delle pretese ai minimi, l’autocolpevolizzazione, le dosi quotidiane di soprusi che, come un veleno, ti uccidono un poco alla volta. Queste storie le ho sentite raccontare tante volte, dalle dirette interessate o da quelle che provavano ad accompagnarle verso la ri-percezione della propria libertà, che può essere dolorosissima, può farti un male lancinante, più delle botte.

Non riesco a dimenticare una donna che, finalmente ospite di una casa rifugio per sfuggire al suo persecutore, e quindi necessariamente limitata nei suoi movimenti, diceva di non sentirsi libera, di vivere quell’accoglienza come una detenzione, mentre quello era il primo passo verso la libertà. Ma era lì, nella convivenza con altre come lei, che per la prima volta prendeva coscienza di come si era ridotta, una che non poteva più nemmeno fare un passo, che non era più padrona nemmeno di una briciola della propria vita.

Capisco tutto, chi riflette da tempo sulla violenza ha ben presente la complessità di queste situazioni e anche l’unicità di ogni storia, anche se i meccanismi sono sempre gli stessi e li conosciamo come le rotelle di un perverso orologio. Ma non posso non domandarmi se sapere di questa complessità e della fatica di uscire dalla violenza non ci stia impedendo di pretendere che chi la subisce sia più reattiva e più rapida nella propria presa di coscienza.

La storia milanese di Rosanna Belvisi, ammazzata a coltellate dal marito -che aveva avuto perfino un figlio da una relazione parallela- dopo vent’anni di ripetute violenze e un primo accoltellamento non letale nel 1995, episodio che lei aveva deciso di “coprire”; o quella di Ylenia, la ragazza messinese che non smette di difendere il fidanzato accusato di averle dato fuoco, e non si arrende nemmeno di fronte alle immagini riprese da una telecamera di sorveglianza con lui che si fa riempire una bottiglia di benzina… Ecco: storie come queste mi inducono a domandarmi se non dobbiamo forse pretendere anche con una certa severità dalle nostre sorelle, figlie e madri brutalizzate da uomini che chiedano aiuto prima possibile, che si mettano in sicurezza senza attendere il climax del rischio.

Che lo facciano per loro stesse ma anche per noi, quotidianamente impegnate nella conta dolorosissima delle morte e ferite, e un po’ morte e ferite a nostra volta. In altre parole mi domando se l’eccesso di comprensione, se l’enfasi su quanto sia difficile sottrarsi alla violenza e sull’intreccio inestricabile fra violenza e amore non finisca per suonare come una giustificazione, e per “minorizzare” le donne maltrattate impedendoci di pretendere da loro, con autorità, una piena, adulta e sollecita reazione alla situazione di violenza che si trovano a vivere.

p.s. Aggiorno con una notizia fresca, sempre in tema: una donna di Pavia che dopo aver denunciato il marito violento ha deciso di ritirare la denuncia. 

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