Ormai sono grandicella, e di declini politici ne ho visti parecchi.

Ci vedo qualcosa di simile all’ultimo raggio del tramonto: un bagliore più intenso, come se il sole volesse resistere e non si rassegnasse a scomparire all’orizzonte, come se rifiutasse di assecondare l’immaginario tragitto quotidiano –dal punto di vista del nostro sguardo umano- che gli è stato assegnato, e con quell’eccesso di luce tentasse di guadagnare tempo.

Quando un uomo politico si avvicina alla caduta –tanto più se si è trattato di un vero e proprio tiranno-, la fine è spesso preceduta da una fase di eccessi: di splendore, di potere, di denaro, di sfarzo. La tipica hybris, la tracotanza del semidio che si sente superiore a ogni legge umana e morale, libero da ogni obbligo di compassione, che spreca cibo e risorse mentre i suoi simili patiscono la fame, che si concede ogni arbitrio calpestando i diritti di tutti.

Orge, elicotteri, rubinetterie d’oro massiccio, banchetti luculliani, vesti sontuose e sfrenatezze di tutti i tipi.

Noi “da fuori” li vediamo, è strano che loro non si vedano. Che non colgano, nell’allentamento definitivo di ogni vincolo, nella perdita finale di ogni senso del limite, i sintomi premonitori della malattia che li porterà a morte sicura. Forse questa auto-cecità fa parte della malattia, è uno dei segni. Quando, alla fine, si tornerà a vedere, sarà ormai troppo tardi, e tutto sarà compiuto.

Nelle facce dei tiranni caduti, penso per esempio al volto insanguinato di Gheddafi, nello sguardo del potente sul punto di perdere tutto, si coglie immancabilmente lo stesso doloroso stupore: come di chi improvvisamente stia vedendo quello che da lungo tempo aveva smesso di vedere. La rivelazione della propria insensatezza, il rebound dei propri limiti, che troppo a lungo negati ora si fanno strettissimi e stringono la gola come un cappio. Il down feroce di una droga, quella del potere, che resta la più pericolosa di tutte.

Non posso impedirmi di provare compassione, ogni volta che vedo cose come queste. Ogni volta la miseria e la fragilità umana si rivelano come il nucleo profondo della volontà di dominio.

Ma provo anche una grande rabbia: quanto dolore, quanta ingiustizia, quante sofferenze si sarebbero potute evitare, se il tiranno, se il “potente” avesse saputo fermarsi per tempo.

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