Un segno della sconnessione tra la classe dirigente e il Paese reale è l’uso azzardato dei termini “populismo” e “populista”, a cui politici e opinionisti continuano a ricorrere per significare il loro sprezzo nei confronti dell’avversario. Per sminuirlo. Per dequalificare la sua azione come demagogica, semplificatoria e inefficace.

Non soltanto il cosiddetto fronte populista è sempre più ampio e sempre più competitivo (Brexit e Farage a parte, vedi il netto sorpasso dei 5 Stelle e di Di Maio sul Pd e su Renzi, registrato oggi da un sondaggio di La Repubblica ). C’è anche e soprattutto che oggi “populista” è inteso dai più come “amico del popolo”. Come qualcuno che ha finalmente a cuore i problemi della gente, che sono davvero tanti e variegati, e non solo gli interessi delle banche, gli “appetiti delle oligarchie”, come li chiamava Niccolò Machiavelli. Poi magari non è vero niente, e i demagoghi populisti si riveleranno non meno affamati, ma tant’è.

Dare a qualcuno del populista perciò oggi significa fargli un complimento e contribuire alla sua affermazione politica. In sostanza, un autogoal. Lo slittamento semantico non è stato registrato dai protagonisti dei talk show, lontani anni luce dalla vita vera e dagli stipendi reali (quando ci sono).

Ma ormai è tardi.

 

 

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