6 anni di detenzione e poi eventualmente un anno di “coprifuoco” –obbligo di rientro a casa entro un’ora stabilita-, lavori socialmente utili, mega-risarcimenti, ritiro di passaporto, patente e documenti validi per l’espatrio, divieto per 3 anni anche di una semplice partecipazione a una campagna elettorale: queste le pene richieste per il reato di omotransfobia in uno dei testi di legge in discussione.

Presumibile che il testo definitivo, se e quando ci si arriverà –i tempi si stanno allungando- rinuncerà a questa impostazione assurdamente vendicativa per assestarsi su una richiesta di giustizia, che è già chiedere molto a una legge. Tant’è che noi donne, che pure di ingiustizie ce ne intendiamo più di tutti e da qualche millennio–inutile che io le elenchi qui: siamo da sempre i principali bersagli di odio- non abbiamo mai pensato che bastasse una legge contro la misoginia a cambiare le cose, visto che le cose si chiamano dominio di un sesso sull’altro. E non è con gli attrezzi del padrone –le leggi- che più di tanto si possa fermarne la prepotenza.

Se comunque ci venisse voglia di una legge del genere ce la faremmo da sole. E invece una “manina” (Boldrini?) ha ritenuto di aggiungere nel testo di legge ai soggetti tutelati (di orientamento omosessuale o per “identità di genere”) anche il “genere” (cioé noi donne).

L’intento era probabilmente buono, il risultato disastroso. La grande parte dell’umanità, la radice dell’umano che sono le donne finiscono per diventare un caso particolare dell’articolazione Lgbt, sussunte come una sfumatura di questa galassia.

L’operazione, concepita a tavolino per allontanare dalla legge il legittimo sospetto di misoginia,  costituisce una vera catastrofe simbolica.

I timori di misoginia sono più che fondati: una legge che introduce il rischio di essere perseguiti penalmente se dici, per esempio, che una donna è una donna e non un mestruatore o una persona dotata di “ buco davanti”; o che solo le donne partoriscono;  o che l’omofecondità è solo un delirio di onnipotenza;  o che l’utero in affitto è un abominio… una legge del genere sembra voler colpire più le donne che gli uomini. E infatti donne di tutto il mondo stanno opponendo resistenza alla neolingua patriarcale che intende cancellarle: il patriarcato è camaleontico, per sopravvivere cambia forma, ma non sostanza.

Ciò che oggi viene conteso è l’essere donna che si vuole a disposizione di tutti, e non più “privilegio” delle nate di sesso femminile. Questo movimento –l’invidia per l’essere donne- è la prima mossa del patriarcato, e a quanto pare anche l’ultima.

In ogni caso se nominando il “genere” si voleva rimediare a questo guaio, la toppa è senz’altro peggio del buco.

Può essere che una legge contro l’omotransfobia si effettivamente utile, io non lo so. A me pare che in particolare i maschi gay siano ormai ottimamente piazzati nei gangli della politica, del governo e degli organismi sovranazionali, dell’impresa, della cultura, dello showbitz, dei media e così via. Mi pare, cioè, che questa legge sia quanto meno in ritardo di una cinquantina d’anni, ma chi sono io per giudicare?

Ma se si intende guadagnare il sostegno alla legge – o quanto meno il non-conflitto- da parte delle donne del Paese, servono almeno due cambiamenti in quel testo: che si rinunci al concetto di “identità di genere” e lo si sostituisca con un più limpido “transessualità”; e che si faccia chiarezza sull’uso che si intende fare dei cospicui finanziamenti pubblici richiesti.
Sui finanziamenti pubblici, a quanto pare 4 milioni di euro: non sono forse così tanti, tutto è relativo. Certo è una somma che fa impressione in tempi come questi, con la gente che non sa come campare e le botteghe che chiudono e le casse integrazioni che non arrivano. Noi donne la nostra politica l’abbiamo sempre fatta a mani nude, senza sussidi, pagandola di tasca nostra a titolo di altissimo lavoro volontario per noi stesse e per tutti,  e producendo grandiosi risultati. Il femminismo ha anche accompagnato e offerto modelli di mobilitazione allo stesso movimento Lgbt.

Mettiamo che 4 milioni costituiscano una richiesta equa: che uso si intenderebbe farne? Proprio l’anno scorso in Emilia Romagna, dove è stata approvata una legge regionale contro l’omotransnegatività, in consiglio fu battaglia da parte di chi chiedeva che i fondi regionali concessi non potessero essere utilizzati per campagne di propaganda all’utero in affitto. Emendamento che alla fine la spuntò.

Questo stesso paletto e alcuni altri andrebbero posti a livello nazionale. I fondi non dovrebbero essere utilizzati per pubblicizzare l’utero in affitto; per rifornire le biblioteche scolastiche di librini sulle signore buone che regalano gli ovini e ospitano nei pancini; per finanziare spettacolini di favolose drag queen –genere da me adorato, ma non per le scuole materne, come usa recentemente. Un paio d’anni fa lo spettacolo teatrale più rappresentato in assoluto nelle scuole italiane non fu un testo di Goldoni, di Pirandello, Moliere o Samuel Beckett. Fu  Fa’afafine,  storia di un ragazzino genderfluid.

Quanto invece all’uso del concetto di identità di genere: la vicenda JK Rowling dovrebbe avere definitivamente chiarito di che cosa stiamo parlando. La maggioranza delle donne probabilmente non ha idea di quanto sta accadendo e ormai da anni: l’identità di genere è il luogo in cui la realtà dei corpi -in particolare quella dei corpi femminili- viene fatta sparire. E’ la premessa all’autodeterminazione senza vincoli nella scelta del genere a cui si intende appartenere. E’ il luogo in cui le donne nate donne devono chiamarsi, come dicevamo, “gente che mestrua” o “persone che allattano”, perché nominarsi come donne in base al proprio corpo di donna è transescludente. E’ il posto delle “lesbiche con il pene” che accusano le donne che le rifiutano sessualmente di essere Terf. Delle atlete nate uomini che si nominano come donne ma conservano il loro corpo di uomini e con quello vincono tutte le competizioni sportive femminili, come denunciato ripetutamente dalla tennista Martina Navratilova.

L’identità di genere è il luogo in cui le quote politiche destinate alle donne vengono occupate da uomini che si identificano come donne: vedi la già responsabile donne del Labour Party Lily Madigan, trans ventenne nemica acerrima ed epuratrice delle sue compagne nate donne, o ll’americana Emilia Decaudin che si è detto donna da un giorno all’altro per poter scalare il Partito Democratico). E’ il luogo dei fondi destinati alla tutela delle donne, delle azioni positive, delle leggi, dei posti di lavoro per le donne di cui usufruiscono uomini che si identificano come donne. E’ il luogo dei Women’s Study che devono cambiare la denominazione in Gender Study. L’identità di genere è la ragione per cui le donne che si vogliono liberamente incontrare tra loro non possono farlo, e subiscono aggressioni quando lo fanno. Gli spogliatoi femminili a cui devono poter accedere persone con apparati genitali maschili. Le case-rifugio per donne maltrattate che devono ospitare anche persone con pene e testicoli. L’identità di genere è il posto di Jessica Yaniv, trans canadese che ha costretto un buon numero di estetiste a chiudere bottega perché si rifiutavano di depilare il suo “scroto femminile” violando a suo dire i diritti umani.

E’ la ragione per la quale chi dice che una donna è un adulto umano di sesso femminile viene violentemente messa tacere, come è capitato a molte femministe: da Germaine Greer a Silvyane Agacinski, Julie Bindel, Chimamanda Ngozi Adichie e ora anche a J.K. Rowling, l’autrice di Harry Potter, sotto attacco come transfobica per essersi detta donna e aver rifiutato la definizione di “persona che mestrua”.

L’identità di genere è il motivo per il quale la ricercatrice Maya Forstater è stata licenziata dopo aver affermato che non è possibile cambiare il proprio sesso biologico, e altre donne in UK sono sotto processo. L’identità di genere ha a che vedere anche con altre questioni, come l’utero in affitto: le molte donne che lottano contro questa pratica vengono bullizzate come omotransfobiche che vogliono conservare il proprio “privilegio” e non accettano di cancellare la parola madre per essere definite “persona che partorisce”. L’identità di genere sono i circoli Arcigay che chiedono la cacciata da Arci di Arcilesbica accusata di transfobia per avere organizzato un incontro con la femminista inglese Sheila Jeffrey, coautrice della Declaration on Sex-Based Women’s Right, testo alla base di una rete femminista mondiale.

Se il movimento Lgbt sente la necessità di una legge contro l’omotransfobia rinunci al concetto misogino di “identità di genere”, da troppo tempo brandito come un’arma contro le donne, e lo sostituisca con “transessualità”. La parola giusta è quella.

In verità è molto difficlle che i firmatari della legge rinuncino a questo concetto che, dicevamo, è l’architrave dell’intero ddl. Lo è perché quel concetto, introdotto in una legge italiana, funzionerebbe da cavallo di Troia per un’altra legge che attende di essere presa in considerazione su proposta del MIT, Movimento Identità Trans. La proposta intende “garantire la piena effettività del diritto all’identità di genere e all’espressione di genere” riformando la legge 164/82 che oggi regola la materia.

Mi intendo abbastanza di quella legge perché presi parte alle lotte per la sua approvazione. La 164 consente alle persone che abbiano effettuato un intervento chirurgico per il cambiamento di sesso di adeguare le proprie generalità alla nuova condizione anatomica: in poche parole, di cambiare genere sui documenti (rettificazione anagrafica). La nuova proposta chiede invece che chiunque possa liberamente richiedere la rettificazione anagrafica (essere registrati come donne o uomini indipendentemente dal proprio sesso di nascita) con una semplice autodichiarazione (eventualmente reversibile?) e senza necessità di alcun intervento chirurgico e/o farmacologico né alcuna perizia.

Appare come una contraddizione in termini: si richiede il riconoscimento pubblico di una libera scelta, ma quel pubblico a cui chiedi il riconoscimento deve comportarsi da interlocutore muto, limitandosi a prendere atto della tua decisione di essere una donna o un uomo a prescindere dal sesso di nascita.

Non chiederei mai a nessuno di mutilarsi e/o di imbottirsi di ormoni: ho troppo rispetto per quel sacro tempio che è il nostro corpo inviolabile. Conosco tutta la pena, la fatica, il dolore e le patologie iatrogene che derivano da quel tipo di manipolazioni. Né d’altro canto mi sognerei di obiettare alcunché a un uomo o a una donna che intendano adottare modi di vivere o di abbigliarsi non conformi agli stereotipi imposti al proprio sesso di nascita. Ma se quell’uomo o quella donna chiedono che la comunità li riconosca formalmente come appartenenti a un genere diverso dal proprio sesso biologico, non può mancare un passaggio pubblico –un atto, una perizia, una sentenza- che sancisca la rilevanza pubblica di quella decisione.

La proposta del MIT ricalca una proposta inglese, la riforma del Gender Recognition Act, che chiede esattamente le stesse cose. L’UK è stato la prima linea della battaglia, lì più che altrove si sono registrati gli episodi violenti e misogini di cui dicevamo sopra. Ma la battaglia ora si è chiusa con la sconfitta dei transattivisti: proprio pochi giorni fa il governo Johnson ha dichiarato di avere abbandonato il progetto di riforma e che le donne hanno diritto ai loro spazi riservati. Forse non si tratta della fine della guerra, ma è certamente uno stop molto significativo.

Se in UK le cose sono finite in questo modo, difficilmente potrà andare diversamente nel nostro Paese. Ma ci sono volute molte lotte, molti sacrifici e molto impegno da parte del movimento delle donne britannico.

Comprendere in quale scenario ci troviamo può far capire a tutte, davvero tutte  le donne che cosa sta capitando e per quale ragione è necessario prestare la massima attenzione alle novità introdotte dal ddl contro l’omotransfobia, e il rischio che corriamo se si insisterà a parlare di “identità di genere”.

Quel ddl ci riguarda, è necessario vigilare e resistere insieme.

p.s.: ci sarebbe anche da dire di come il concetto di “genere”, inizialmente utilizzato dal movimento delle donne come sinonimo di sesso, sia stato totalmente “staccato” dal sesso biologico e integralmente risignificato -e per questo sia diventato inutilizzabile-. Ma l’articolo è già sufficientemente lungo.

 

 

 

 

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