E chi se lo dimentica? Avevo una ventina d’anni, erano i primi anni Ottanta, quando mi sono imbattuta nelle lotte delle-i transessuali –in prevalenza male to female, da maschio a femmina- per il riconoscimento anagrafico del cambiamento di sesso.

Tante erano già operate, a Casablanca, a Londra. L’intervento in Italia ancora non si faceva. Se il ricordo non mi inganna il primo ospedale a praticare la chirurgia per il cambiamento di sesso fu quello di San Donato.

Rimasi molto impressionata. Si chiacchierava di Coccinelle, di Maurizia Paradiso, di Eva Robin’s, molto dopo arrivò Luxuria. Star operate o no, o semplicemente en travesti, un’immagine patinata e paillettata del transessualismo. Ma pochi ne sapevano qualcosa, fuori dallo star system. Poi a Napoli c’erano i femminielli cantati da Annibale Ruccello perfettamente inseriti nel tessuto sociale e nella tradizione culturale: non serve andare nella Samoa dei Fa’afafine, persone fluide tra un genere e l’altro, oggi tutti si riempiono la bocca con la grande scoperta antropologica, e capirai…

I media mainstream non se ne occupavano affatto, la questione era tabuizzata. I più esperti erano i numerosissimi clienti, visto che per le trans non c’erano alternative alla prostituzione. L’impatto con la realtà per me fu molto duro. Venivano in gran parte dal Sud, i viados non erano ancora arrivati. Spesso erano sfigurate da manipolazioni chirurgiche un tanto al chilo, la chirurgia estetica era agli albori: micronasi tutti uguali, mucosa delle labbra rovesciata, seni abnormi, silicone libero nei glutei che andava a formare granulomi dolorosissimi e altre lesioni, bombe di ormoni che uccidevano.

Creature della notte, infelici e reiette, prive di qualunque diritto.

La presidente del Mit –Movimento Italiano Transessuali- era Pina Bonanno, catanese monumentale, vero animale politico. Condusse la sua battaglia con fierezza e pugno di ferro, tenendo in riga le indisciplinate ragazze, supportata solo dal Partito Radicale. Anche i giornalisti non se ne occupavano: con loro, ai loro congressi, ai loro clamorosi flash mob –ricordo, per esempio, un finto matrimonio dimostrativo inscenato in piazza della Scala- per un bel po’ ci fui praticamente solo io. Venni anche interrogata da un magistrato come testimone di una gigantesca rissa in zona Isola. Sono stata a lungo al loro fianco, insieme all’amico radicale Franco Corleone e pochi altri.

La lotta fu vittoriosa, e quella vittoria è anche un po’ mia: il Mit ottenne il riconoscimento anagrafico del cambiamento di sesso, l’intervento chirurgico entrò a far parte delle prestazioni del Ssn. Strinsi amicizia con parecchie: alcune non ci sono più, con altre il legame non si è mai reciso. Soffrivo per le loro storie, le inenarrabili sofferenze fisiche e psicologiche. Mi trattavano come un giocattolino, una mascotte, ero solo una ragazzina. Ma mi erano grate per il lavoro giornalistico di supporto e anche per l’affetto sincero.

Dovrebbe bastare perché si capisca come mi sento quando mi accusano di omo e transfobia. Imbraccerei il kalash, il bazooka: ho detto tutto. Negano la mia vita, la cancellano, parvenue modaioli da tastiera che pretendono di insegnarmi la sexual correctness. Il bazooka forse non basta. Così come ho lottato e lotterò per sempre per i più elementari diritti di queste persone in transizione, nello stesso spirito lotto e lotterò sempre contro la Gpa, in difesa delle donne sfruttate, delle creature messe in commercio e della relazione tra madre e bambina/o, fondatrice di civiltà e di umanità.

E’ solo per questa lotta che vengo costantemente diffamata. Noi che lottiamo contro l’utero in affitto siamo regolarmente messe all’angolo come omo-transfobiche. Ma la pazienza è davvero finita. Al prossimo o alla prossima che ci proverà risponderò con queste righe, cui seguirà querela.

Il cardinale Carlo Maria Martini diceva che compito dei cristiani era “essere sale del mondo, non trasformare il mondo in una grande saliera”. Mi sia consentita l’apparente blasfemia per affermare che analogamente il “compito”, se così si può dire, delle creature gender fluid è quello di essere dimostrazione vivente delle differenze –e della necessità che ogni differenza venga rispettata e accolta e amata-, e non quello di trasformare il mondo in uno shaker di identità liquide o addirittura di stigmatizzare e aggredire le cosiddette ciswomen –ovvero le donne il cui genere è conforme al sesso di nascita: praticamente tutte- brandendo la correctness linguistica come una clava.

Recentemente la British Medical Association –non un comitatino dello Yorkshire- ha diffuso una nota ai suoi iscritti raccomandando loro di sostituire l’espressione “madre incinta”, “offensiva” nei confronti dei Lgbtqi, con “persona incinta”. Come se vi fosse anche la minima possibilità di un essere umano incinta che non sia una donna e che non sia la madre. Nella nota si precisa che “la grande maggioranza delle persone incinta o che hanno partorito si identificano come donne. Ma ci sono anche uomini intersessuali o transessuali che possono restare incinta”.

In America si raccomanda di sostituire “breastfeeding” (allattamento al seno) con “chestfeeding” (allattamento al petto): la logica è la stessa, il seno che produce latte ce l’hanno solo le donne e chi non ce l’ha si offende, e magari una fa un bambino e poi diventa uomo, si sottopone a mastectomia e la parola seno non sta bene.

Analogamente, alle ostetriche si suggerisce di non parlare più di vagina ma di “front-hole”, buco davanti, perché la vagina è una dotazione anatomica solo femminile e nominarla discrimina chi non ce l’ha.

Quindi lo 0,1 per cento della popolazione umana (è questa la percentuale di soggetti con disforia di genere) richiede al restante 99,9 per cento non disforico, definito cis-, di adottare un linguaggio in transizione e gender fluid. E poiché l’ambiente umano è il simbolico, l’operazione è ambiziosissima e ha un enorme rilievo politico. Il cis- (ovvero, ripeto, la stragrandissima maggioranza delle/gli umane/i, la cui identità di genere è conforme al sesso biologico, cosa che peraltro non ha niente a che fare con l’orientamento sessuale) viene in qualche modo ridotto a una quasi-minoranza nel linguaggio e nel simbolico da un neo-pensiero unico mainstream.
La cosa sorprendente, tuttavia, è che la maggior parte di queste operazioni di transizione linguistica avviene ai danni delle donne di nascita e di genere –o ciswomen- e delle loro dotazioni organiche, il seno, la vagina e via dicendo, mentre il pene e i testicoli non sembrano offensivi per nessuno. Il neutro in direzione del quale ci si dirige –operazione che parte dalle differenze per approdare in una sorta di neo-omologazione- risulta essere più maschio che femmina. Tanto per cambiare: si è sempre chiamato patriarcato, e il suo nome resta quello. Quanto all’utero, in attesa di tecnologie sostitutive, si può sempre affittare.

Ora: io sono una donna, ho il seno, la vagina e l’utero, e li amo, e voglio dare loro il nome che hanno o quello che mi parrà di dargli. E nessuna delle amiche e sorelle trans di cui dicevo sopra si sarebbe mai sognata di impedirmi di farlo. Imponetemi “il buco davanti” e, come detto, imbraccerò il bazooka. Questo non significa affatto essere omo-transfobica. Questo significa essere una donna, e una femminista, e very proud.

Il bello è questo: che a parte una esigua minoranza di chiassosi ovvero una parte infinitesima di quello 0,1 per cento, le persone transessuali MtoF o FtoM non chiedono e non hanno mai chiesto alle donne queste mutilazioni simboliche. Non sono loro personalmente a farlo, è una pseudoqueer politics, e sottolineo dieci volte pseudo, che chiede loro di farlo e di adottare il nuovo paradigma. Nuovo, poi, solo per dire: perché questa pseudoqueer politics è dominata da una logica maschile, invidiosa e misogina, anche se ci sono parecchie donne embedded, pronte a bacchettarti se usi termini orribili come “madre” o “vagina” o se fai cose tremende e violente tipo allattare in pubblico. E la logica maschile, invidiosa e misogina ha un solo nome: patriarcato. E non c’è niente di meno nuovo del patriarcato, astuto e trasformista.

E’ sempre quello l’oppressore da cui dobbiamo difenderci, e da cui dovrebbero difendersi anche i Lgbtqi. E invece, guarda un po’, è proprio in quelle schiere maschili che si sono intruppate/i. Perché sta capitando tutto questo? e a chi fa comodo? Mi verrebbe da dire: follow the money. Il business oggi spiega quasi tutto, e leverei il quasi. Ma per ora mi fermo qui.

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