Ayaan Hirsi Ali, musulmana dissidente e sotto fatwa da molti anni, dice una cosa interessante: che la politica woke -della quale, per esempio, fanno parte cancel culture e queer theory– è come l’islamismo radicale, una vera e propria religione. Un culto. Con la cultura woke dunque non puoi argomentare, puoi solo sottometterti.
Con la queer theory e il transattivismo -che, ricordiamolo, ha poco o niente a che vedere con l’esistenza delle singole persone transessuali- il femminismo radicale e ogni persona gender critical ha più volte fatto l’esperienza: puoi solo fideisticamente e acriticamente sostenere i comandamenti di quella religione. Per esempio accettare che il sesso biologico non esiste e ti viene arbitrariamente “attribuito” alla nascita; che l’identità di genere è qualcosa di liberamente percepito e il corpo è irrilevante; che essere donna è a disposizione di tutt*; che una nata donna non può usurpare il nome di donna, ma deve accontentarsi di definirsi “persona con il buco davanti” o “mestruatore” per non offendere le donne trans; che anche gli uomini possono partorire o abortire, e via dicendo.
Tutto il business (dall’informazione mainstream a numerosi grandi multinazionali, ma anche il più della politica di sinistra) aderisce, sostiene e finanzia questo neo-culto con cui a quanto pare ritiene di poter fare ottimi affari, e a mio parere sta facendo male i suoi conti.
Se osi una critica, se cerchi un confronto argomentato, se tenti una confutazione razionale, nessun esponente del transattivismo accetterà di misurarsi con te sul piano delle idee. Ogni tentativo di confronto (in presenza, online, in tv) finora è sempre andato a vuoto, qui e e nel resto dell’Occidente. Viene pertanto il sospetto che al transattivismo manchino argomenti solidi e sostenibili. In cambio, un ricchissimo repertorio di insulti, minacce, bullismo e intimidazioni, e black list fascistoidi che indicano persone e associazioni gender critical: la fatwa si esprime nell’accusa di omotransfobia e nell’epiteto Terf, qualcosa tipo “maiale infedele”.
Voglio fare un esempio preciso di quello che sostengo, ovvero che il transattivismo scarseggia di argomenti. Nell’epoca dei big data, qui -come in ogni culto- i dati di realtà non contano nulla. Vediamo.
In occasione del TDoR (il Transgender Day of Remembrance) Non Una di Meno rende noto che secondo il Trans Murder Monitoring Update 2020 tra gennaio 2008 e settembre 2020 in tutto il mondo sono state uccise 3664 persone trans (nel 97 per cento dei casi MtF, da uomo a donna, e nel 60 per cento dei casi persone in prostituzione). In effetti il numero assoluto è impressionante, e ognuna di quelle vite stroncate merita di essere ricordata e celebrata. Questi numeri dovrebbero comprovare che c’è un’emergenza-violenza transfobica.
Bene, proviamo a ragionare. Qual è il numero del totale degli omicidi nel mondo? Gli ultimi dati diffusi dall’Onu parlano, per il 2017, di 464 mila omicidi, comparandoli con i 395 mila del 1992. Facciamo una media annuale, tenendola più bassa possibile: 400 mila omicidi nel mondo ogni anno. Se quindi moltiplichiamo questi 400 mila omicidi per il periodo considerato dal Trans Murder Monitoring Update 2020, ovvero 13 anni, possiamo valutare in 5 milioni 200 mila il totale degli omicidi commessi nel mondo tra il 2008 e il 2020. Da cui si deduce facilmente che quelle 3664 persone trans uccise nel periodo considerato corrispondono allo 0,070 del totale degli omicidi, più o meno presumibilmente la stessa percentuale della popolazione trans sulla popolazione totale. E’ il numero complessivo degli omicidi che -purtroppo- sta aumentando, e in modo analogo probabilmente può essere in crescita anche il numero di omicidi delle persone trans. Non sembrerebbe quindi esserci alcun reale indizio di aumento della violenza transfobica.
Questo semplice ragionamento sui numeri comporterà ovviamente la solita fatwa -a ogni tentativo di ragionare si risponde con la fatwa-: transfobica, omofobica, Terf, e così via.
Ma se c’è una possibilità di porre fine a questa assurda guerra transchilista e queer alle donne, se esiste una prospettiva di pacificazione per il bene delle donne e anche delle persone transessuali in carne e ossa, è nel confronto ragionevole, e non nella richiesta di sottomissione al culto. Confronto non solo sui numeri, che sono il meno -nessuna qui ha il culto della numerologia- ma a partire dalle esperienze reali, dai bisogni, dalle sofferenze e dal desiderio di giustizia. Desiderio di giustizia che per lungo tempo ha tenuto insieme in un’alleanza il movimento delle donne e quello che oggi viene denominato fronte Lgbqa+.
Le amiche transfemministe dovrebbero pensarci un po’ su.