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Donne e Uomini, economics, italia, lavoro Febbraio 28, 2014

8 marzo: l’8 x 1000 x creare LAVORO!

 

Ottima idea di alcune amiche (Annamaria Salinari, Caterina Della Torre e altre): l’8 x 1000 per creare lavoro.

Un’idea subito praticabile, femminilmente concreta e a cui moltissimi contribuenti aderirebbero con convinzione.

Qui ve la racconto. E aderisco all’iniziativa, che sarà ufficialmente lanciata il prossimo 8 marzo con una manifestazione davanti a Montecitorio.

 

CHE COS’E’ L’8 X 1000?

E’ una quota d’imposta, ricavata dall’IRPEF, che la Repubblica Italiana ripartisce secondo le scelte dei contribuenti, fra lo Stato e varie confessioni religiose, tra cui la Chiesa Cattolica. E’ stata introdotta dall’art. 47 della legge 20 maggio 1985 n.222 in attuazione del concordato tra Repubblica Italiana e Santa Sede, e stabilisce gli ambiti nei quali i soggetti beneficiari possono impiegare i fondi ricevuti e il meccanismo di calcolo di tale quota. I contribuenti non hanno obbligo di destinare il loro 8 x 1000, ma se non effettuano una scelta viene ripartito tra i soggetti beneficiari in proporzione alle scelte espresse dagli altri.

 

8 x 1000 ALLO STATO

Viene utilizzato per interventi straordinari, come: fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione beni culturali. Con la Legge di Stabilità 2014 è stata introdotta una quota in favore dell’Edilizia Scolastica. Talvolta, per mancanza di disponibilità finanziaria, una parte dell’8 per mille viene destinato dal Governo a bilancio generale, per scopi estranei da quelli previsti.
Una sezione del sito internet del Governo è comunque dedicato alla gestione dei fondi di pertinenza statale. Lì è possibile sia consultare l’elenco delle attività finanziate, sia candidarsi per ricevere finanziamenti ad attività che rientrino nelle categorie d’intervento previste.

 

8 x 1000 ALLA CHIESA CATTOLICA

Poche quote vanno allo Stato: nel 2013 la Chiesa Cattolica ha totalizzato l’82 per cento delle preferenze, per un importo pari ad un miliardo e 32 milioni. Perchè? Per svariate ragioni: perchè i contribuenti non sanno che pur non facendo la scelta la loro quota sarà comunque considerata in base alle percentuali di coloro che invece hanno scelto. Perchè molti contribuenti sono cattolici e hanno fiducia nell’uso che la Chiesa Cattolica farà della loro quota. Perchè, se pur laici, hanno ormai poca fiducia nello Stato. Perchè lo Stato pubblica sul suo sito (non tutti hanno internet) l’utilizzo che fa dell’8x mille ma non LO pubblicizza così come fa   la Chiesa Cattolica.

 

CRISI DEL LAVORO COME CALAMITA’

Anche la mancanza di lavoro -oggi gli ultimissimi e drammaticissimi dati– e di risorse economiche da destinare a misure per l’occupazione a agli ammortizzatori sociali può essere considerata come una calamità, individuale e sociale.
L’idea è quella di un 8 x mille da destinare a un Fondo per l’Occupazione che avvii progetti che creino lavoro e supportino l’economia. Con un’attenzione particolare alla migliore risorsa di cui il nostro Paese dispone: la cultura.

 

FONDO PER L’OCCUPAZIONE: CHE COS’E’?

Una quota dell’8 per mille devoluto allo Stato -da definire con apposito decreto- dovrebbe andare a costituire il patrimonio di una Fondazione per l’Occupazione che si occupi di progetti, crei cooperative e posti di lavoro.
Il patrimonio si rigenererebbe grazie ad una parte degli utili delle cooperative e all’8 x 1000 della dichiarazione dei redditi annuale. Il Fondo sarebbe gestito da una Fondazione per l’Occupazione costituita da professionisti allo scopo di creare e selezionare, realizzare ed avviare progetti che originino cooperative e posti di lavoro. Un Giurì per l’Occupazione garantirebbe il rispetto dello scopo della Fondazione, l’applicazione del processo e delle regole definite per la scelta dei progetti da finanziare, la trasparenza dei dati, l’analisi dei risultati per tarare e migliorare il processo. Il Giurì sarebbe inizialmente costituito in uguale misura da rappresentanti dello Stato (Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero del Lavoro) e rappresentanti della realtà proponente; in seguito costituito da rappresentanti dello Stato e da rappresentanti eletti dalla Fondazione, con vincolo di un solo mandato.

Quali progetti per l’occupazione: innovatori, internazionali, sostenibili, sociali, in franchising.

Ambiti: artigianato e piccola industria, arte e design, beni culturali, turismo ed enogastronomia, servizi.

Qui si può aderire alla petizione 8 x 1000 per il lavoro. La pagina Facebook la trovate invece qui.

AMARE GLI ALTRI, Donne e Uomini, economics, lavoro Febbraio 24, 2014

Femminicidio Economico

Sconcertante e violenta la fotografia Istat sul nostro “capitale umano” (espressione orripilante e disumana) secondo la quale una donna italiana, dal punto di vista della sua capacità di fare reddito, vale esattamente la metà di un uomo.

La disinvoltura con cui si maneggiano certi criteri di valutazione -maschili- può avere conseguenze catastrofiche sul simbolico, che per l’umano è tutto, e sull’immaginario, in particolare quello dei giovani in formazione, scoraggiando le ragazze e offrendo nuovi spunti alla prevaricazione sessista: perché tanto “tu vali meno di me, precisamente la metà”. O disincentivando le famiglie a investire sulla formazione di una figlia, investimento che renderebbe la metà rispetto quello su un figlio. Ora ci sono anche dei “dati” a dimostrarlo. “Guarda, c’è scritto anche sul giornale”: oggi i titoli sono impressionanti. Uno a caso, Repubblica, pag. 21: “Ricerca-shock sul capitale umano in Italia. Una donna vale la metà di un uomo”

I numeri dicono che nell’arco della sua esistenza un maschio ha una potenzialità media di reddito di 453 mila euro, mentre quella di una donna è di 231 mila euro. Ma -e in questo ma c’è quasi tutto- se si sommasse anche il lavoro domestico e di cura, al capitale umano femminile andrebbero aggiunti altri 431 mila euro, e se la matematica non è un’opinione -secondo me in parte lo è-  231 mila euro + 431 mila euro = 662 mila euro. Ergo: una donna vale 1/3 in più di un uomo. Oppure, a scelta, si può detrarre almeno la metà del reddito prodotto da un uomo, che lo produce in forza del fatto che c’è qualcuna che pensa a tutto “il resto”: cioè alla vita.

Alla vigilia di importanti riforme economiche e del jobsact, è assolutamente necessario rimettere al centro la preziosità del lavoro di cura, quel welfare vivente che continua a essere valutato come marginale e residuale, e senza il quale invece non vi sarebbe alcuna economia, né esistenza tout court.

In alternativa, smettere all’unisono di erogarlo. Così la capiscono.

economics, lavoro, Politica Febbraio 7, 2014

Matteo Renzi non sembra neanche più Matteo Renzi

Ieri Matteo Renzi in direzione Pd ha presentato il suo piano di riforme istituzionali: fine del bicameralismo perfetto, riforma del titolo V, oltre ovviamente alla legge elettorale (qui l’intervento).

Un anno fa, forse anche solo 6 mesi fa, una cosa come l’abolizione del Senato sarebbe stata una mossa ad effetto, in grado di ristabilire la minima per una ripresa di fiducia e di dialogo tra politica e cittadini. Ma oggi non basta più. Se alle riforme istituzionali non si accompagneranno immediate iniziative sul fronte economia e lavoro, la degenerazione civile accoppiata all’emergenza sociale, di cui stiamo vedendo solo i prodromi, produrrà tutti i suoi effetti distruttivi (non mi sentirei di dare torto a Goffredo Bettini).

Ieri in direzione clima rarefatto e surreale: il Nazareno, con la sua bellissima terrazza a elle, sempre più lontano dall’inferno che c’è fuori. La discussione sul #jobsact, il famoso piano sul lavoro, continua a essere rinviata. Calendarizzata per il 20 febbraio, è stata ulteriormente rimandata: il 20 si parlerà di che fare con il governo. Al segretario Renzi conviene portare il Paese al voto (mia opinione: conviene a tutti, per provare a ricominciare con un altro passo), ma si continua a fare melina.

A me conviene votare, ma all’Italia no“, ha twittato il segretario. Io penso che convenga anche all’Italia.

Matteo Renzi ieri non sembrava più nemmeno Matteo Renzi. Come se l’effetto Renzi non facesse più effetto neanche a lui.

I sondaggi di stamattina parlano chiaro: 45 per cento di astensione, M5S in recupero. Evidentemente turpiloqui e sessismi alla gente fanno solo il solletico. Il 2014 -altro che ripresine e ripresette- sarà l’anno più duro, e ce ne stamo già accorgendo tutti.

Sarà il Vaffa Year.

Per favore, donne e uomini della politica: parliamo di lavoro, lavoro, lavoro, lavoro, LAVORO!

Tutto il resto, la riforma del titolo V e così via: ottimo, facciamolo. Ma con la mano sinistra.

 

bambini, Donne e Uomini, economics, lavoro, pubblicità Gennaio 19, 2014

Prima madri e padri. Poi lavoratrici e lavoratori

Nell’attesa che si sciolga il nodo della legge elettorale, speriamo di liberarci dall’impiccio al più presto, vediamo quello che c’è subito dietro l’angolo. E scalpita, perché nessuno di noi può più permettersi di aspettare: la questione lavoro-welfare.

Qui c’è da fare e da dire moltissimo, e ognuno approccerà la cosa dal proprio punto di vista. Io non riesco che a partire dalla vita: dalle esistenze reali, dal cambiamento dell’idea del lavoro e del rapporto lavoro-vita, dalle soluzioni, dagli aggiustamenti e dalle invenzioni prodotte dalle persone reali, intuizioni che dovrebbero essere la materia prima politica con cui quell’altra politica può lavorare (quell’altra politica non inventa mai davvero nulla: quando è buona è perché sa cogliere ciò che sta capitando, rappresentarlo e facilitarlo).

Mi sembra interessante quello che è stato pensato da un gruppo di madri e padri che a Milano si sono incontrati per ragionare insieme e mettere in comune le proprie esperienze. E che tanto per cominciare si qualificano come “madri e padri” e non come lavoratrici-ori anche quando parlano di lavoro e welfare, privilegiando sempre (primum vivere) questo aspetto della loro identità, ciò che dà davvero un senso alla propria esistenza (vale anche per un numero sempre maggiore di uomini). Questa è la prima intuizione: rimettere le cose nel loro giusto ordine.

La seconda è l’assunzione che non solo il lavoro ma anche la percezione del lavoro sono profondamente cambiati: e infatti parlano di “nuovo lavoro“, tenendo in mente le/i venti-trentenni (le madri e i padri) che oggi hanno bisogno di un welfare che tenga presente, oltre alla minoranza dei dipendenti, la grande maggioranza di “autonomi, collaboratori, professionisti e partite Iva, madri a part time, padri con lavori intermittenti etc. etc.. Smantellando cioè un immaginario sul lavoratore che non ha più riscontri nella realtà e cambiando prima di tutto l’immaginario del cambiamento.

La proposta dell‘indennità di maternità universale prende le mosse di qui, da questi cambiamenti nel lavoro e dalla percezione del lavoro, e dall’idea che i figli e la cura non siano più una faccenda esclusiva delle donne: si parla infatti di un welfare per l'”universal caregiver, per chi presta lavoro di cura, preziosissimo e insostituibile, donna o uomo che sia.

Una terza intuizione (la proposta la trovate integralmente qui) è che il welfare non può essere inteso come un modello uguale per tutti, ma deve offrire “libertà di scelta in modo che ciascuna/o possa praticare le proprie “preferenze e strategie personali e familiari”, che cambiano da individua-o a individua-o e nelle varie fasi della vita.

Cerchiamo di non dimenticare mai la vita reale, anche quando parliamo di contratti e di servizi.

Donne e Uomini, economics, italia, lavoro, Politica Gennaio 10, 2014

#JobsAct: i lavoratori sono lavoratrici

Sorprendente che l’Europa, nella persona del commissario al lavoro Ue Laszlo Andor, promuova a tambur battente una bozza di riforma del lavoro – allo stato “un elenco di titoli”, come scrive Tito Boeri- formulata non dal governo di un Paese membro, ma dalla segreteria di un partito di quel Paese. Forse non è mai successo prima. Come se l’Europa preferisse dialogare direttamente con il prossimo titolare -non a quello del 2015, ma verosimilmente già del 2014- che entra in campo a gamba tesa, senza perdere tempo a cincischiare con un governo che, da Cancellieri a Saccomanni a Di Girolamo, fa acqua da tutte le parti.

Insomma, tra la calendarizzazione del dibattito sulla legge elettorale -il 27 gennaio- e l’approvazione Ue, quella di ieri per Matteo Renzi è stata una gran giornata. Sul Jobs Act per ora il dibattito è cauto. La segreteria Pd (in particolare Marianna Madia e Filippo Taddei) è al lavoro sui dettagli, che non sono roba da poco: tipo da dove trarre le risorse per il sussidio universale, che costerebbe dai 20 ai 30 miliardi, nonché per la diminuzione dell’Irap, o come diventare appealing per gli investitori stranieri, che girano al largo per gli alti costi dell’energia, l’eccesso di burocrazia e la giustizia che non funziona.

Ma qualcosa, da non-economista, mi sentirei di dirla, se può servire: sarebbe un’ottima cosa se al centro dell’attenzione riformatrice, anzichè un lavoratore maschio pensato come universale neutro, ci mettessimo una donna, vera grande novità del mondo del lavoro nell’ultimo mezzo secolo. Se poi ci mettessimo come soggetto la coppia madre-bambino/a -la maternità oggi è il primo tra i “diritti negati”- faremmo bingo, e a vantaggio anche delle non-madri e dei maschi.

Sarebbe un criterio metodologico ottimo per tutti. Non che il binomio donne-lavoro sia nuovo: a essere precisi, fino dalla notte dei tempi il lavoro è femminile tout court. La maggior parte di ore-lavoro nel mondo sono sempre state erogate da donne. Insomma, di lavoro le donne se ne intendono più di tutti, ne hanno grande competenza, e oggi questa competenza è molto utile. La novità dell’ultimo mezzo secolo semmai è l’accesso massiccio delle donne al lavoro retribuito: una presenza che ha cambiato e sta cambiando il senso e l’organizzazione del lavoro. Provare a pensare i lavoratori come lavoratrici quindi può dare buone indicazioni per tutti.

Se Matteo Renzi tenesse in mente “Francesca”, a cui si era rivolto durante il dibattito-primarie su Sky per promettergli più asili nido, non sarebbe una cattiva cosa. E Francesca avrebbe da dirgli essenzialmente questo:

Primum Vivere. Partire dalle vite reali per parlare di lavoro. La vita non può più essere intesa come quel poco tempo che resta una volta che sei uscita/o dall’ultima riunione indetta dal capufficio alle 19, che sei corsa/o al super per prendere 6 uova, dalla nonna a raccattare i bambini e via dicendo. Qualità e condizioni di lavoro incidono quanto le garanzie. C’è una flessibilità “buona” a cui non si vuole rinunciare. La riduzione della separazione tra lavoro e vita è la principale domanda che le donne stanno ponendo al mondo del lavoro, per sé e anche per gli uomini. Ben prima del posto fisso, in cima alle aspirazioni c’è una vita degna e non alienata, che comporta la possibilità e probabilmente anche il desiderio di muoversi tra un lavoro e l’altro, tra un posto e l’altro, godendo di adeguata protezione sociale.

Da questa idea femminilizzata del lavoro -e anche dal desiderio di prossimità dei nuovi padri– discende una diversa concezione del welfare e dei servizi, che non possono più essere intesi in modo rigido e fordista -otto ore di nido o nulla- ma chiedono il massimo di flessibilità e di modularità, fino alla personalizzazione. La riduzione del numero dei contratti, insomma, non può coincidere con la riduzione della vita a un modello unico. Flessibilità, smartwork, postazioni in remoto, contributi per uffici condivisi e coworking: tutto questo diminuirebbe anche la quota di servizi necessari, oltre a produrre altri effetti virtuosi, e contribuirebbe alla salute pubblica e alla natalità.

Contribuisco in questo modo alla discussione in corso, anch’io limitandomi per ora a enumerare qualche titolo.

Prevengo l’obiezione scontata-conosco i miei polli-: ma come? tutti questi capricci e queste sofisticherie proprio adesso che c’è la crisi? non ci si dovrebbe accontentare di poter lavorare e sbarcare il lunario, altro che smartwork? Io dico che non c’è mai stato momento migliore per discutere a fondo di lavoro, e non solo di contratti. Prima il pane e poi le rose, prima il quantum e poi il qualis: questi sono solo trompe l’oeil.

Si tratta, come dice l’americana Rebecca Solnit, di cambiare anche l’immaginario del cambiamento.

ambiente, bellezza, economics, lavoro, Politica Gennaio 1, 2014

#2014: aggrappiamoci alla bellezza

Pizzo Calabro, Chiesa rupestre di Piedigrotta

Questa di cui vedete uno scorcio è la Chiesa Rupestre di Pizzo Calabro, scavata nel tufo, affacciata su una piccola baia turchese. Pochissimi la conoscono: varrebbe un viaggio da Oltreoceano. Ci penso continuamente da quando mi ci hanno portata. Pensiero che è fonte di energia e di gioia.

Dappertutto nel nostro Paese, a pochi passi dalle nostre case, abbiamo bellezza e bontà. Mi sono chiesta com’è che è capitato proprio da noi. Com’è avvenuto che un terzo di tutte le bellezze artistiche del pianeta siano state edificate sulla nostra penisola.

Credo che sia andata così: che le bellezze naturali erano tali e tante, così varie e sovrabbondanti, che chiunque sia nato in mezzo a tanto splendore o si sia trovato a passare di qui ha provato a emularle e a gareggiare invidiosamente, arrivando spesso a sfiorare il sublime.

Se noi perdiamo il senso della bellezza, se, per esempio, e come in gran parte è accaduto, ci affidiamo alla misura unica del denaro, perdiamo tutto. Ma se lo riguadagnamo, e siamo in tempo per farlo, ricominceremo a primeggiare.

Qualunque cosa facciamo, di qualunque cosa ci occupiamo, e lo dico in particolare alle amiche e agli amici del Sud, con tutta la sua magia, aggrappiamoci alla bellezza, contempliamola, fidiamoci dell’istinto che ne abbiamo, produciamola, offriamone al mondo.

Nutriamo il pianeta!

Questo è il mio augurio -e il mio manifesto politico- per il 2014.

p.s. Si chiama proprio “La Grande Bellezza” il film di Paolo Sorrentino che sta conquistando le platee di tutto il mondo. E’ un segno, ed è un auspicio. Jep Gambardella torna alle sue radici e si aggrappa alla bellezza per rinascere. E’ quello che dobbiamo fare tutti.

AMARE GLI ALTRI, giovani, italia, lavoro Dicembre 16, 2013

Tante “botteghe” per i nostri giovani. Pensando a Joele

 

 

Joele Leotta, ucciso in Gran Bretagna, dove era emigrato in cerca di lavoro.

Se li chiami Neet (not in education, employment or training) la cosa sembra meno grave di quella che è. 3 milioni e 750mila i 15-34enni che non lavorano, non studiano, non seguono un percorso formativo: il 27 per cento dei nostri under 35 (39,6 per cento al Sud). Più donne che uomini: 2,112 milioni contro1,643 milioni. I numeri si impennano se si considera la fascia sotto i 29 anni: 36.2 per cento, e al Sud quasi la metà. Di questi 3 milioni e 750 mila, 1 milione e mezzo ha solo la licenza media inferiore, 1,8 milioni la media superiore, 437mila una laurea o un titolo post laurea.

Enrico Letta ha annunciato per l’inizio 2014 un vertice Ue contro la disoccupazione giovanile che, ha detto, rappresenterà ”uno dei pilastri del nostro lavoro” nel semestre di presidenza italiana.

Con angoscia e apprensione provo ad immaginare le giornate di quest* giovan*: tolta una quota di lavoro nero, probabilmente molto bighellonare, anche online, e per le ragazze lavoro domestico e di cura. C’è altro che si può fare, oltre alle necessarissime misure economiche: tenere vivo il desiderio, accendere passione, coltivare la fiducia per rendere dignitose queste giovani vite, per non sprecarne le energie. Non c’è niente che sia più formativo di questo. Tutt* sappiamo quanto hanno contato gli incontri nella nostra vita: in particolare quelli con alcuni adulti che ci hanno illuminato la strada: una maestra, un mister, o anche un prete (per chiacchierar).

Mi piacerebbe moltissimo che in una logica di restituzione dell’enorme debito contratto con i più giovani, gli adulti offrissero se stessi come pane e come modello. Che incontrassero i ragazzi, che mettessero a loro disposizione parte del loro tempo, che rispondessero alle loro domande, che mostrassero come si fa, che raccontassero la loro storia, che si lasciassero “mangiare” da loro, com’è giusto. Incontri veri, non frontali, non meramente tecnici, a tutto tondo. Tante “botteghe” in giro per il Paese. Mastri e apprendisti, come nello splendore della nostra tradizione Rinascimentale, per tutte le arti e i mestieri, ma anche le professioni, un formicolio vitale per farci ripartire. Non si tratta solo di dare da mangiare ai ragazzi, ma anche di darsi da mangiare, che è molto di più è molto altro. Cominciando anche dal piccolo, dal prendere “in carico” personalmente le ragazze e i ragazzi che abbiamo vicino e che ci guardano.

Magari intitolando il progetto a Joele Leotta, il ventenne di Tabiago ucciso nel Kent, dov’era andato a cercare il pane: ieri i funerali. A sua volta figlio, a giudicare dal cognome, e come tantissimi di noi, di gente che dal Sud è salita a cercare pane al Nord.

Il mio sogno è questo. Aiutiamoci a realizzarlo.

Donne e Uomini, economics, italia, lavoro, personaggi Novembre 1, 2013

Chi sono i veri “abortisti”

Il dibattito seguito al mio ultimo post -post che si limitava a dare una notizia sulla giunta di Firenze, verificata e verificabile, e di riportare il  commento di uno dei candidati alla segreteria del Pd, Giuseppe Civati: ho interpellato personalmente anche Gianni Cuperlo, che però evidentemente non ha nulla da dire- è diventato uno scontro feroce  tra “pro-life” e pro-choice, con punte truculente, alla Santorum.

Tra le molte contumelie, mi sono beccata anche della “abortista”. E allora consentitemi di dire quello che penso sulla questione.

Penso che:

1. quando un uomo parla di aborto, di feti e così via c’è sempre da stare all’erta. Addetti ai lavori a parte, gli uomini capiscono poco di aborto, tendono a disinteressarsene, e spesso lo ritengono, “da utilizzatori finali”, una comoda soluzione. Quando l’interesse di un uomo si accende, specie se si tratta di un politico, quasi certamente ci sono voti da raccattare.

2. “Donna abortista” è un ossimoro, perché nessuna donna vorrebbe mai abortire. A molte è capitato, e quando è capitato è sempre stata un’esperienza vissuta con sentimenti che vanno dalla tristezza, al dolore, al trauma e al dramma, secondo la sensibilità e secondo le circostanze. Non ci sono donne abortiste: ci sono donne che hanno abortito, e altre che hanno dato loro una mano perché ciò avvenisse in condizioni di sicurezza. La grande maggioranza delle donne di questo Paese, militanti pro-life comprese, condivide l’auspicio che nessuna debba mai più morire d’aborto. Sperare che le donne muoiano d’aborto -per esempio auspicando l’abrogazione della 194- non è una buona strategia pro-life.

3. La legge 194 ha ottenuto il risultato di ridurre a quasi-zero la mortalità per aborto. E’ una buona legge, apprezzata dalla maggioranza dei cittadini e delle cittadine. Anche in forza di questa legge, il numero degli aborti è diminuito. Purtroppo oggi la 194 è una legge di carta: non essendo riusciti ad abrogarla, la stanno svuotando dall’interno. La legge è sostanzialmente inapplicata* in buona parte del territorio nazionale a causa di un’adesione massiccia all‘obiezione di coscienza da parte di ginecologi e anestesisti. Fare aborti non piace e non conviene a nessuno in termini di carriera, e molte direzioni sanitarie apprezzano e premiano chi obietta. Il diritto all’obiezione non può non essere riconosciuto, ma la legge 194 va applicata come qualunque altra legge dello stato: ormai stiamo tornando al “turismo abortivo” e alla clandestinità. Se ne esce soltanto con l’obbligo da parte delle direzioni sanitarie ospedaliere di assumere una quota garantita di non obiettori che consenta di espletare il servizio imposto dalla legge. Un’altra strada, più complessa, sarebbe la depenalizzazione dell’aborto -è la strada che io  preferirei- ma non ci sono oggi le condizioni politiche per riaprire il dibattito. Non basta, perciò, che un politico dica retoricamente e a costo zero: io sono a favore della 194: questo impegno non significa nulla. Bisogna che dica: farò tutto ciò che serve perché la legge venga applicata.

4. I veri abortisti sono tutti coloro contribuiscano a qualunque titolo alla creazione di condizioni sfavorevoli alla maternità. A cominciare da quei datori di lavoro che costringono le giovani donne a firmare all’atto dell’assunzione dimissioni in bianco, da utilizzarsi in caso di gravidanza, o che le condannano al precariato permanente. Per arrivare alle banche che non concedono mutui per l’acquisto della prima casa, impedendo a molte giovani coppie di costruire un proprio nido. E alla politica che non investe nel welfare e nei servizi, abbandonando le giovani madri al loro destino, che non mette in atto vere politiche per il sostegno familiare -altro che Paese della famiglia: siamo il fanalino di coda in Europa-.  Che non ragiona su una dis-organizzazione del lavoro che consenta di avvicinare tempi di lavoro e tempi di vita. Nella gran parte dei casi, le donne abortiscono perché costrette da condizioni materiali inaggirabili. I veri abortisti sono anche quegli uomini che non condividono i pesi della vita familiare o, peggio, che non si assumono la loro responsabilità contraccettiva e lasciano la donna sola con la sua gravidanza, “tanto c’è l’aborto”. E’ su questi temi, e non manifestando davanti alle cliniche ostetriche o inneggiando ai cimiteri degli aborti, che i “pro-life” devono esercitare la loro volontà politica. Il programma è questo, condivisibile anche dai pro choice.

5. L’aborto non è un tema politicamente marginale. Non lo è mai stato. E non può essere terreno di esercizio del “ma anche”. Non puoi accarezzare il pelo dell’oltranzismo cattolico,”ma anche” sperare nel consenso dell’elettorato femminile. Questo consenso forse l’avrai se le elettrici non saranno state debitamente informate. Ma su un tema così sensibile le posizioni -tutte legittime, s’intende- devono essere chiare e nette. Il presidente Barack Obama sta affrontando il suo secondo mandato anche grazie al sostegno dell’elettorato femminile. E se le donne hanno deciso in maggioranza per Obama, è stato anche per la sua posizione sul tema del’aborto: tema dirimente, come hanno dimostrato le analisi del voto Usa. La questione numero 1 per il 39 per cento delle americane, anche per il suo forte portato simbolico.Perfino più importante del lavoro.

* In Lombardia sceglie l’obiezione di coscienza il 67,8 per cento dei ginecologi. Un dato poco al di sotto della media nazionale, pari al 69,3 per cento di obiezione nel 2010, secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero della Salute. La Lombardia, insomma, non è la regione messa peggio, considerando le punte toccate da Basilicata (85,2 per cento), Campania (83,9), Molise (85,7) e Sicilia (80,6).

 

 

 

 

 

Corpo-anima, Donne e Uomini, Femminismo, giovani, lavoro, Politica Ottobre 7, 2013

Femministe “Nove” a Paestum: il corpo torna al centro

Si è concluso ieri il secondo incontro del femminismo italiano a Paestum. Qui un primo resoconto di Giovanna Pezzuoli.

Tra gli interventi più applauditi -e anche discussi- quello collettivo delle giovani romane Femministe Nove (qui il filmato), grande striscione sul palco: “Stato di Eccitazione Permanente”.

Ecco una sintesi del loro manifesto:

“Scriviamo per responsabilità verso le nostre vite e desiderio di cambiarle.
Scriviamo per ritrovare il senso e il tempo di una autodeterminazione individuale e collettiva.

Siamo donne sull’orlo di una crisi di nervi e la crisi è la narrazione dominante del tempo che viviamo: un nesso ci sarà pure. Vogliamo nominarlo.
Viviamo il tempo della crisi e della sconfitta. Un tempo di crisi economica e politica. Vogliamo immaginare e costruire un altro tempo.

Siamo femministe nove. Non siamo ereditiere, siamo precarie.

Pensiamo il femminismo come la nostra rivoluzione possibile, e non possiamo consegnarlo al già detto e al già narrato. Il femminismo è un divenire, non un dover essere. L’autodeterminazione è una continua lotta.

Rifiutiamo un femminismo senza corpo. La nostra autodeterminazione non ha un contenuto.

Riconosciamo per noi il valore fondativo delle nostre genealogie nel pensiero e nelle pratiche femministe. E non vogliamo vivere il confronto fra generazioni femministe né nell’asimmetria di potere e di autorità né nell’invidia dell’epica di una stagione aurorale. Vogliamo partire dalle nostre vite, dal presente che ci accomuna, per costruire pratiche di potenziamento reciproco nel desiderio condiviso di cambiamento, di liberazione dall’oppressione materiale e simbolica. Autodeterminazione e libertà non coincidono ancora.

Siamo femministe storiche: il tempo presente ci fa orrore. Vogliamo agire per cambiarlo.
Ognuna è responsabile della sua indifferenza.

Siamo partite da noi. Siamo nate dopo: dopo la nominazione di sé come soggetti, dopo la decostruzione dell’universale donna. Dopo l’emancipazione, l’autocoscienza, la liberazione, la differenza. Siamo già state donne e lesbiche, nelle frontiere e ai margini, cyborg e queer, irrappresentabili e rappresentate. Ma non ci sentiamo affatto post. Sentiamo il femminismo come una metamorfosi che ci attraversa, un cambiamento che pensiamo e agiamo attraverso il corpo.
Pensiamo l’autodeterminazione come parola satura da svuotare e come parola vuota da riempire.

Abbiamo resistito affinché le nostre vite e i nostri corpi non fossero portate al mercato di un lavoro femminilizzato, che ancora una volta ci “assegna un posto” anche quando un posto non ce lo dà, che spesso ci sussume senza assumerci.

Abbiamo riconosciuto e nominato questa trappola. Ma non basta. Non basta se inseguiamo la promessa del lavoro, quando identità e senso possiamo trovarli solo al prezzo di competizione e (auto)sfruttamento; non basta se il lavoro lo togliamo dal centro, perché anche il tentativo di investire su tutto il resto è condizionato dalla precarietà. E anche mentre ci diciamo che il nesso lavoro/identità è sciolto, un pezzo del nostro senso e del nostro tempo è sempre impigliato lì.

In tutti questi casi, tra lavoro a tempo determinato e a tempo indeterminato, è scomparso il lavoro come tempo autodeterminato.

Pensiamo a un reddito di autodeterminazione che renda materialmente e liberamente attuabile questo diritto e questa facoltà per donne e uomini, fuori dalla logica dello sfruttamento e del profitto.
Non facciamo del reddito una rivendicazione neutra per un cittadino neutro. Non pensiamo al reddito come a un diritto individuale scisso, ma connesso a una diversa idea di lavoro, di produzione e di società.
Tra il rifiuto del lavoro (così com’è) e la volontà di trasformarlo c’è un legame profondo.

La precarietà è una condizione diffusa, non è una coscienza collettiva di una condizione. Non è un’identità: è la situazione in cui possiamo costruire conflitti e pratiche di libertà.
Stentiamo a rendere collettiva la consapevolezza della possibilità di una trasformazione per tutte e tutti.
È difficile divenire collettivamente soggetti di conflitto quando il corpo politico è consunto.
Non siamo staffette, siamo partigiane.
Ci sentiamo parte di quella generazione politica che non vuole pagare il prezzo della crisi, ma non ha potere per evitarlo.
Partiamo dalle pratiche allora: dalla necessità di costruire luoghi di autogoverno e spazi liberati che vivano nella porosità col mondo circostante, nella tensione a una liberazione collettiva, individuale e sociale.
La sessualità non è mai un terreno pacificato.
I nostri corpi parlano sempre. Pensiamo attraverso il corpo. Ma il nostro è un corpo fatto a pezzi, ingabbiato nella veste di madre, figlia, militante, lato A, lato B, taglia 42; che è giudicato da qualcuno facile, dignitoso, bello, brutto, maschile, femminile, perbene, permale. Persa ogni interezza, siamo pezzi di donne e donne in pezzi che devono confrontarsi con un mondo che ci fa sentire sempre inadeguate e fuori posto.
È da questo fuori posto che ci muoviamo, è il riconoscimento del nostro desiderio la nostra forza. Passiamo troppo tempo a decostruire modelli e pratiche per tentare di restare in ascolto dei nostri desideri autentici. Decostruzione e ascolto sono passaggi necessari. Ma è quando li portiamo nelle relazioni e nella pratica che ci sentiamo più libere. Ancora più difficile è seguire il corpo e solo successivamente andargli incontro con il pensiero e la parola. C’è un prezzo da pagare per questo. Ma è questo, e non altri, il prezzo che siamo disposte a pagare e per cui siamo disposte a lottare.
I tempi di una performatività indotta che oggi agiscono in maniera più acuta sul corpo delle donne, ci portano troppo spesso a rimuovere il nostro corpo, a viverlo appunto come sintomo da tacitare o come oggetto da modellare. Il corpo rimosso sembra essere il filo conduttore delle nostre vite: rimosso nel lavoro come ansia da prestazione quanto nella politica come ansia di trasformazione. Rimosso anche da noi. Il nostro corpo è muto, ridotto a mero sintomo. Nevrosi, disturbi alimentari, perfezionismo fobico, psicofarmaci: è questo il prezzo che paghiamo a tutti i super-ego che abbiamo introiettato nella società della prestazione.
Il femminismo stesso, se non viene attraversato da una veglia costante e lucida, rischia di sopravvivere grazie a una rimozione del corpo; rischia cioè di parlare del corpo delle altre, rendendolo non più soggetto politico, ma oggetto di un discorso politico: il corpo delle migranti, il corpo delle vittime di femminicidio, il corpo delle prostitute.
Non vogliamo più essere complici di questa rimozione.
I nostri desideri sono impacchettati in identità fisse, che costringono o condizionano i desideri e i corpi in forme di vita precostituite e codificate da un’etica patriarcale e dalla sua estetica sclerotizzata.
Consideriamo l’erotismo qualcosa di molto più ampio rispetto all’atto sessuale. L’erotismo dei nostri corpi vuole scorrere in libertà. Riapriamo lo spazio e l’immaginazione a un erotismo espanso che tocca tutti i luoghi che il nostro corpo tocca.
Erotismo come sessualità espansa, invece che costretto nelle logiche impoverenti di tutte le binarietà possibili (uomo/donna, etero/omo) dalla cappa attiva e soffocante dell’etero-normatività.
Non vogliamo scoprire la nostra sessualità per negazione rispetto a quella data, costruita su un impianto maschile ed etero-normativo, che fissa i ruoli di attivo e passivo, il limite tra dare e provare piacere. E non vogliamo pensare la nostra sessualità per differenza rispetto a ciò che scartiamo, per sottrazione rispetto a ciò che non ci piace, ma per potenziamento del nostro corpo e del nostro desiderio.
Sentiamo la necessità di rimettere a tema il nodo del conflitto politico.
Facciamo che nessuna parla a nome delle altre, del sesso e del potere che agisce sulle altre, senza avere prima parlato di sé. Facciamo che nessuna parla di relazione se non è davvero disposta a mettersi in gioco.

Rimettiamo il desiderio al centro della politica. Il desiderio di cambiamento e insieme il desiderio di ritrovarci tutte intere nei luoghi del nostro agire politico. Un desiderio che incontra nella relazione con l’altra insieme un limite e un potenziamento.

Facciamo un passo avanti, per potenziarci reciprocamente.

Il nostro femminismo vuole essere un movimento reale. È incompatibile con lo stato di cose presente.

La rivolta è quello che il femminismo, in questo secolo, ha da ripensare.

Vogliamo essere partecipi di una rivolta che metta al centro e non rimuova i nostri corpi sessuati. Indignarsi, lo sappiamo, non basta. Non vogliamo essere una avanguardia, ma ci sentiamo anteprima di un mondo in cui la precarietà diventa il non-orizzonte che accomuna le vite. Così muore la politica come dimensione collettiva.

Vogliamo essere anteprima di una politica diversa, di una rivolta femminista.

Siamo femministe nove:
angela ammirati, giorgia bordoni, federica castelli, alessandra chiricosta, ingrid colanicchia, sabrina di lella, teresa di martino, alessia dro, serena fiorletta, eleonora forenza, angela lamboglia, gaia leiss, viola lo moro, valeria mercandino, roberta paoletti, simona pianizzola”.

qui il blog di Femministe Nove

La versione integrale del manifesto sarà pubblicata sul prossimo numero di DWF.

bambini, Donne e Uomini, economics, giovani, lavoro Agosto 28, 2013

Il successo non è obbligatorio: primum vivere

Una delle convinzioni da eradicare, a questo giro di boa, insieme a quella che ci sia una “generazione perduta” (vedi qui), è quella che tutte e tutti debbano perseguire il successo, e ovviamente esibirlo.

Ieri leggo un titolo malcelatamente trionfale su Repubblica: “Contrordine ragazze. E’ meglio la famiglia”. Dove si racconta che le giovani millennials britanniche, ovvero le ragazze nate tra l’85 e il 94, lavorano meno delle loro sorelle maggiori dieci anni fa, e se possono fanno i figli presto e se li curano personalmente. Non solo crisi, ma anche il crescente convincimento, rilevato dai sondaggi, che è meglio che un figlio te lo tiri su, anziché mollarlo al nido o a una sequela di baby sitter.

Il fatto è 1. che queste ragazze sono state bambine cresciute nei nidi e con le nanny, e nessuno ha maggiore competenza in materia: vogliono dare ai figli quello che loro non hanno avuto. 2. la pena e la fatica delle loro madri, sbattute tra sogni di carriera e sensi di colpa nei riguardi della famiglia l’hanno vista da vicino, e non hanno alcuna intenzione di ridursi pure loro come stracci. 3. la loro identità, come del resto quella dei loro coetanei maschi, non è più affidata in via esclusiva al lavoro, che viene fortemente smitizzato -e del resto non è facile mitizzare un lavoro precario e volatile- torna a essere, molto semplicemente, un modo per campare, possibilmente con qualche significato. La vita è altrove e il successo -più su, sempre più su- non è un obbligo. E per fare i figli è meglio non aspettare i 45 anni.

Queste piccole e dispettose post-emancipate non stanno dicendo affatto che “è meglio la famiglia” (e il maritino da baciare sulla porta alle 8 del mattino, e il twin-set con le perle, e tutti felici per il ritorno ai bei vecchi tempi). Stanno dicendo: primum vivere (deinde laborare). Stanno cioè indicando non un rassicurante coming back home, ma il pericoloso desiderio di un lavoro più prossimo e più simile alla vita: quindi la necessità di disorganizzarlo e riorganizzarlo secondo tempi e modi più femminili.

Il movimento storico è stato questo: accesso delle donne al lavoro retribuito (di quello non retribuito siamo campionesse da sempre); sogni di gloria, di carriera e di successo secondo i modi degli uomini (e teste sfondate sui glass ceiling, e vite sfracellate); desiderio di un lavoro finalmente bio-compatibile, che comprenda anche il fatto di non dover sbattere fordisticamente il tuo mocciosetto urlante di pochi mesi in mezzo ad altre decine di mocciosetti urlanti di pochi mesi in un’aula con i pupazzoni disegnati sui muri dalle sette del mattino alle sei del pomeriggio.

Tenerne conto quando -e se mai- si ripenseranno i servizi per le giovani madri: la vecchia e usurata idea di conciliazione è da buttare alle ortiche. Va messo in piedi qualcosa di meglio.