Le femministe “radicali” –o pensatrici della differenza sessuale- vengono contestate nei convegni e nelle università, censurate dai social, bullizzate dal mainstream queer. Ma questo mainstream è maschile e patriarcale
La queer-politics, nuova faccia del patriarcato
Università: meno chiacchiere deleterie, ministro Poletti. E più investimenti
Quella del ministro del Lavoro Giuliano Poletti è un’assoluta banalità: meglio laurearsi in fretta e misurarsi da ventenni con il mondo del lavoro – è a quell’età che si impara un mestiere- che tirare in lungo per uscire splendidamente alle soglie dei 30, trovandosi “a competere con ragazzi di altre nazioni che hanno sei anni meno di loro“.
Ma se il corso di studi si conclude troppo in là non è affatto per l’ossessione, stigmatizzata dal ministro, di “prendere mezzo voto in più“.
La questione è ben più seria, e ha soprattutto a che vedere con l’organizzazione della nostra università, che sembra congegnata per fabbricare fuoricorso. Per non parlare del business milionario dei troppi master e contromaster post-laurea che dissanguano le famiglie, trattenendo ulteriormente i giovani in parcheggio fuori dal mondo del lavoro.
In questo blog ne abbiamo parlato più di due anni fa riprendendo Ivan Lo Bello (oggi presidente di Unioncamere oltre che del Comitato consultivo dell’ Agenzia Nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca), il quale chiedeva “di introdurre tirocinii e praticantati durante i corsi universitari, visto che oggi i nostri ragazzi incontrano il lavoro mediamente tre anni più tardi rispetto ai loro colleghi europei”.
Anche per consentire eventuali correzioni di rotta nel corso di studi, orientando con maggiore consapevolezza la propria formazione: un gran numero di ragazzi oggi sceglie la facoltà in modo casuale, con l’unico criterio di dribblare i test d’accesso, e infilandosi in strade senza uscita.
Da un ministro, quindi, è lecito attendersi interventi più articolati e meno bar-biliardistici: che entrino nel merito dell’organizzazione delle università, che indichino proposte, che delineino soluzioni contro la dispersione. Anche perché è sempre stato molto comodo per i governi trattenere i ragazzi in percorsi scolastici sine die: finché saranno in formazione non saranno censiti come inoccupati o come neet.
Ma quella di Poletti è anche una banalità pericolosa, data la leggerezza con cui viene affrontato il tema dello studio. Al grande pubblico le cose che dice arrivano così: vedete di portare a casa in fretta quel benedetto pezzo di carta straccia, e non perdete troppo tempo a studiare. Discorso doppiamente rovinoso: perché studiare non è mai una perdita di tempo, anche quando allo studio non conseguono pezzi di carta, anche quando si sta già lavorando e perfino quando si è ministri. E perché si sarebbe dovuto tenere conto del contesto: un Paese, il nostro, che nella classifica dei 34 più industrializzati si piazza ultimo per numero di laureati (è questo che dovrebbe preoccupare il nostro ministro) e quartultimo per soldi investiti nell’università in rapporto al Pil (recentissimo rapporto Ocse). Viceversa, come dicevamo, siamo ricchi di 25-34enni con un titolo equivalente al master che non riescono a trovare uno straccio di lavoro.
Anzichè far chiacchiere un ministro del Lavoro, in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dovrebbe prospettare soluzioni e dare battaglia per aumentare gli investimenti. Che, certo, si vedrebbero meno dei 300 milioni per il bonus di 500 euro a pioggia per tutti i diciottenni da spendere in attività culturali.
Ma si avvicinano le elezioni, e i pacchi di pasta à la Lauro rendono molto di più.
Giovani e precari, fortunatissimi giovanotti/e che in un modo o nell’altro lavorano, e non è roba per tutti, in-attesa-di-rinnovo-di-contratto ammazzandosi di fatica, mandare comunque in giro curriculum perché non si sa come va a finire, mai alzare la cresta, mai rivendicare un diritto anche se ce l’hai in contratto, manca un mese alla scadenza, mancano 15 giorni, a te ti hanno detto qualcosa? (tra me e te spero che salvino te, scusa, sono costretto a pensare questo, amico), sempre sissignore, pedalare anche con la febbre, odio soprattutto per quei maledetti vecchi, 40 o 50 anni ormai fuori dal mondo, con capiscono un ca…o, non imparano più un c…o, e perché non se ne vanno? supergarantiti e non rendono niente e possono permettersi tutto, finché non vanno a casa loro per noi non c’è speranza, ma adesso si sente dire di una legge –l’ho sentito alla tv- una legge che possono licenziare anche i vecchi, possono lasciarli a casa come noi, cioè anche a loro gli tolgono l’articolo 18, è questione di mesi, l’ha detto il governo, gli daranno un po’ di pensione, non so, basta che si levino dalle palle, non ce la faccio più a farmi un mazzo così e loro sempre in malattia, sempre una scusa, e la maternità e una palla e l’altra, e noi qua ogni 6 mesi-un anno a tremare perché non sai mai come va a finire, e una volta mi sono girate e ho risposto male al capo e lui non mi ha parlato per una settimana e io non ci dormivo la notte, sono fregato, pensavo, e invece ‘sti vecchi di m…a che hanno tutti i diritti, ma che muoiano, ma che vadano ai giardinetti col cagnolino, che se ero io a poter andare a casa sparavo i mortaretti, perché questa è vita? ditemi se è vita, ogni mattina venire qua e la sera uscire con le ossa rotte, che se vai in bagno una volta di più ti guardano male, tu messo così, quei due amici e quelle due amiche che lavorano come te, stanchi morti che ce la fai a malapena a farti una birra, e gli altri e le altre messi e messe invece molto peggio, perché la birra gliela devi pagare tu (la disoccupazione giovanile in Italia è al 40,7 per cento, con tendenza a crescere, ndr).
La triste vita nelle aziende.
Se non avete maschi ventenni, razza barbudos y cocineros, che grufolano per casa, forse non saprete che la cucina è ormai loro territorio quasi esclusivo. Né conoscerete il disprezzo con cui, sciacquettando tra guancia e guancia il vostro dessert domenicale –ovviamente “impiattato da cani”- vi diranno che ne avete distrutto l’armonia con quello stramaledetto ribes.
Le amiche sono tenute per sguattere: “Forza con quella mirepoix… ma no! Meno grossolana!”. Il rito del fuoco è solo maschile.
Una volta si limitavano al selvaggio barbecue. Ora si prendono tutto, pure la zuppa.
Buona cosa, che invadano in massa il campo femminile: vuole dire che il femminile sta invadendo loro. Che l’invidia per le donne e il loro modo di stare al mondo si sta manifestando in tutta la sua originaria potenza.
Sono un po’ gradassi, questo sì: è il loro modo di stare al mondo, del resto. Non cuochi, e nemmeno chef, ma direttamente masterchef: il prometeismo applicato alle materie prime.
Così, mentre mi compiaccio per l’indubbia perizia nella mantecatura e nella scelta di prodotti d.o.p., a nome di tutte mi permetterei di far osservare che il lavoro preziosissimo e insostituibile della cura si compone anche di mansioni probabilmente meno artistiche: lavaggio vetri, tanto per dire; spolvero mobili; stiro camicie (cominciare da colletto e polsini); accompagno bambini a ginnastica; coda alle poste; ritiro ricette per nonna; cambio armadi (il terrore assoluto).
E poi sì: c’è anche il water. Non avrà lo charme di un Master Chef, ma anche Mastro Lindo ha un suo perché.
Se li chiami Neet (not in education, employment or training) la cosa sembra meno grave di quella che è. 3 milioni e 750mila i 15-34enni che non lavorano, non studiano, non seguono un percorso formativo: il 27 per cento dei nostri under 35 (39,6 per cento al Sud). Più donne che uomini: 2,112 milioni contro1,643 milioni. I numeri si impennano se si considera la fascia sotto i 29 anni: 36.2 per cento, e al Sud quasi la metà. Di questi 3 milioni e 750 mila, 1 milione e mezzo ha solo la licenza media inferiore, 1,8 milioni la media superiore, 437mila una laurea o un titolo post laurea.
Enrico Letta ha annunciato per l’inizio 2014 un vertice Ue contro la disoccupazione giovanile che, ha detto, rappresenterà ”uno dei pilastri del nostro lavoro” nel semestre di presidenza italiana.
Con angoscia e apprensione provo ad immaginare le giornate di quest* giovan*: tolta una quota di lavoro nero, probabilmente molto bighellonare, anche online, e per le ragazze lavoro domestico e di cura. C’è altro che si può fare, oltre alle necessarissime misure economiche: tenere vivo il desiderio, accendere passione, coltivare la fiducia per rendere dignitose queste giovani vite, per non sprecarne le energie. Non c’è niente che sia più formativo di questo. Tutt* sappiamo quanto hanno contato gli incontri nella nostra vita: in particolare quelli con alcuni adulti che ci hanno illuminato la strada: una maestra, un mister, o anche un prete (per chiacchierar).
Mi piacerebbe moltissimo che in una logica di restituzione dell’enorme debito contratto con i più giovani, gli adulti offrissero se stessi come pane e come modello. Che incontrassero i ragazzi, che mettessero a loro disposizione parte del loro tempo, che rispondessero alle loro domande, che mostrassero come si fa, che raccontassero la loro storia, che si lasciassero “mangiare” da loro, com’è giusto. Incontri veri, non frontali, non meramente tecnici, a tutto tondo. Tante “botteghe” in giro per il Paese. Mastri e apprendisti, come nello splendore della nostra tradizione Rinascimentale, per tutte le arti e i mestieri, ma anche le professioni, un formicolio vitale per farci ripartire. Non si tratta solo di dare da mangiare ai ragazzi, ma anche di darsi da mangiare, che è molto di più è molto altro. Cominciando anche dal piccolo, dal prendere “in carico” personalmente le ragazze e i ragazzi che abbiamo vicino e che ci guardano.
Magari intitolando il progetto a Joele Leotta, il ventenne di Tabiago ucciso nel Kent, dov’era andato a cercare il pane: ieri i funerali. A sua volta figlio, a giudicare dal cognome, e come tantissimi di noi, di gente che dal Sud è salita a cercare pane al Nord.
Il mio sogno è questo. Aiutiamoci a realizzarlo.
Femministe “Nove” a Paestum: il corpo torna al centro
Si è concluso ieri il secondo incontro del femminismo italiano a Paestum. Qui un primo resoconto di Giovanna Pezzuoli.
Tra gli interventi più applauditi -e anche discussi- quello collettivo delle giovani romane Femministe Nove (qui il filmato), grande striscione sul palco: “Stato di Eccitazione Permanente”.
Ecco una sintesi del loro manifesto:
“Scriviamo per responsabilità verso le nostre vite e desiderio di cambiarle.
Scriviamo per ritrovare il senso e il tempo di una autodeterminazione individuale e collettiva.
Siamo donne sull’orlo di una crisi di nervi e la crisi è la narrazione dominante del tempo che viviamo: un nesso ci sarà pure. Vogliamo nominarlo.
Viviamo il tempo della crisi e della sconfitta. Un tempo di crisi economica e politica. Vogliamo immaginare e costruire un altro tempo.
Siamo femministe nove. Non siamo ereditiere, siamo precarie.
Pensiamo il femminismo come la nostra rivoluzione possibile, e non possiamo consegnarlo al già detto e al già narrato. Il femminismo è un divenire, non un dover essere. L’autodeterminazione è una continua lotta.
Rifiutiamo un femminismo senza corpo. La nostra autodeterminazione non ha un contenuto.
Riconosciamo per noi il valore fondativo delle nostre genealogie nel pensiero e nelle pratiche femministe. E non vogliamo vivere il confronto fra generazioni femministe né nell’asimmetria di potere e di autorità né nell’invidia dell’epica di una stagione aurorale. Vogliamo partire dalle nostre vite, dal presente che ci accomuna, per costruire pratiche di potenziamento reciproco nel desiderio condiviso di cambiamento, di liberazione dall’oppressione materiale e simbolica. Autodeterminazione e libertà non coincidono ancora.
Siamo femministe storiche: il tempo presente ci fa orrore. Vogliamo agire per cambiarlo.
Ognuna è responsabile della sua indifferenza.
Siamo partite da noi. Siamo nate dopo: dopo la nominazione di sé come soggetti, dopo la decostruzione dell’universale donna. Dopo l’emancipazione, l’autocoscienza, la liberazione, la differenza. Siamo già state donne e lesbiche, nelle frontiere e ai margini, cyborg e queer, irrappresentabili e rappresentate. Ma non ci sentiamo affatto post. Sentiamo il femminismo come una metamorfosi che ci attraversa, un cambiamento che pensiamo e agiamo attraverso il corpo.
Pensiamo l’autodeterminazione come parola satura da svuotare e come parola vuota da riempire.
Abbiamo resistito affinché le nostre vite e i nostri corpi non fossero portate al mercato di un lavoro femminilizzato, che ancora una volta ci “assegna un posto” anche quando un posto non ce lo dà, che spesso ci sussume senza assumerci.
Abbiamo riconosciuto e nominato questa trappola. Ma non basta. Non basta se inseguiamo la promessa del lavoro, quando identità e senso possiamo trovarli solo al prezzo di competizione e (auto)sfruttamento; non basta se il lavoro lo togliamo dal centro, perché anche il tentativo di investire su tutto il resto è condizionato dalla precarietà. E anche mentre ci diciamo che il nesso lavoro/identità è sciolto, un pezzo del nostro senso e del nostro tempo è sempre impigliato lì.
In tutti questi casi, tra lavoro a tempo determinato e a tempo indeterminato, è scomparso il lavoro come tempo autodeterminato.
Pensiamo a un reddito di autodeterminazione che renda materialmente e liberamente attuabile questo diritto e questa facoltà per donne e uomini, fuori dalla logica dello sfruttamento e del profitto.
Non facciamo del reddito una rivendicazione neutra per un cittadino neutro. Non pensiamo al reddito come a un diritto individuale scisso, ma connesso a una diversa idea di lavoro, di produzione e di società.
Tra il rifiuto del lavoro (così com’è) e la volontà di trasformarlo c’è un legame profondo.
La precarietà è una condizione diffusa, non è una coscienza collettiva di una condizione. Non è un’identità: è la situazione in cui possiamo costruire conflitti e pratiche di libertà.
Stentiamo a rendere collettiva la consapevolezza della possibilità di una trasformazione per tutte e tutti.
È difficile divenire collettivamente soggetti di conflitto quando il corpo politico è consunto.
Non siamo staffette, siamo partigiane.
Ci sentiamo parte di quella generazione politica che non vuole pagare il prezzo della crisi, ma non ha potere per evitarlo.
Partiamo dalle pratiche allora: dalla necessità di costruire luoghi di autogoverno e spazi liberati che vivano nella porosità col mondo circostante, nella tensione a una liberazione collettiva, individuale e sociale.
La sessualità non è mai un terreno pacificato.
I nostri corpi parlano sempre. Pensiamo attraverso il corpo. Ma il nostro è un corpo fatto a pezzi, ingabbiato nella veste di madre, figlia, militante, lato A, lato B, taglia 42; che è giudicato da qualcuno facile, dignitoso, bello, brutto, maschile, femminile, perbene, permale. Persa ogni interezza, siamo pezzi di donne e donne in pezzi che devono confrontarsi con un mondo che ci fa sentire sempre inadeguate e fuori posto.
È da questo fuori posto che ci muoviamo, è il riconoscimento del nostro desiderio la nostra forza. Passiamo troppo tempo a decostruire modelli e pratiche per tentare di restare in ascolto dei nostri desideri autentici. Decostruzione e ascolto sono passaggi necessari. Ma è quando li portiamo nelle relazioni e nella pratica che ci sentiamo più libere. Ancora più difficile è seguire il corpo e solo successivamente andargli incontro con il pensiero e la parola. C’è un prezzo da pagare per questo. Ma è questo, e non altri, il prezzo che siamo disposte a pagare e per cui siamo disposte a lottare.
I tempi di una performatività indotta che oggi agiscono in maniera più acuta sul corpo delle donne, ci portano troppo spesso a rimuovere il nostro corpo, a viverlo appunto come sintomo da tacitare o come oggetto da modellare. Il corpo rimosso sembra essere il filo conduttore delle nostre vite: rimosso nel lavoro come ansia da prestazione quanto nella politica come ansia di trasformazione. Rimosso anche da noi. Il nostro corpo è muto, ridotto a mero sintomo. Nevrosi, disturbi alimentari, perfezionismo fobico, psicofarmaci: è questo il prezzo che paghiamo a tutti i super-ego che abbiamo introiettato nella società della prestazione.
Il femminismo stesso, se non viene attraversato da una veglia costante e lucida, rischia di sopravvivere grazie a una rimozione del corpo; rischia cioè di parlare del corpo delle altre, rendendolo non più soggetto politico, ma oggetto di un discorso politico: il corpo delle migranti, il corpo delle vittime di femminicidio, il corpo delle prostitute.
Non vogliamo più essere complici di questa rimozione.
I nostri desideri sono impacchettati in identità fisse, che costringono o condizionano i desideri e i corpi in forme di vita precostituite e codificate da un’etica patriarcale e dalla sua estetica sclerotizzata.
Consideriamo l’erotismo qualcosa di molto più ampio rispetto all’atto sessuale. L’erotismo dei nostri corpi vuole scorrere in libertà. Riapriamo lo spazio e l’immaginazione a un erotismo espanso che tocca tutti i luoghi che il nostro corpo tocca.
Erotismo come sessualità espansa, invece che costretto nelle logiche impoverenti di tutte le binarietà possibili (uomo/donna, etero/omo) dalla cappa attiva e soffocante dell’etero-normatività.
Non vogliamo scoprire la nostra sessualità per negazione rispetto a quella data, costruita su un impianto maschile ed etero-normativo, che fissa i ruoli di attivo e passivo, il limite tra dare e provare piacere. E non vogliamo pensare la nostra sessualità per differenza rispetto a ciò che scartiamo, per sottrazione rispetto a ciò che non ci piace, ma per potenziamento del nostro corpo e del nostro desiderio.
Sentiamo la necessità di rimettere a tema il nodo del conflitto politico.
Facciamo che nessuna parla a nome delle altre, del sesso e del potere che agisce sulle altre, senza avere prima parlato di sé. Facciamo che nessuna parla di relazione se non è davvero disposta a mettersi in gioco.
Rimettiamo il desiderio al centro della politica. Il desiderio di cambiamento e insieme il desiderio di ritrovarci tutte intere nei luoghi del nostro agire politico. Un desiderio che incontra nella relazione con l’altra insieme un limite e un potenziamento.
Facciamo un passo avanti, per potenziarci reciprocamente.
Il nostro femminismo vuole essere un movimento reale. È incompatibile con lo stato di cose presente.
La rivolta è quello che il femminismo, in questo secolo, ha da ripensare.
Vogliamo essere partecipi di una rivolta che metta al centro e non rimuova i nostri corpi sessuati. Indignarsi, lo sappiamo, non basta. Non vogliamo essere una avanguardia, ma ci sentiamo anteprima di un mondo in cui la precarietà diventa il non-orizzonte che accomuna le vite. Così muore la politica come dimensione collettiva.
Vogliamo essere anteprima di una politica diversa, di una rivolta femminista.
Siamo femministe nove:
angela ammirati, giorgia bordoni, federica castelli, alessandra chiricosta, ingrid colanicchia, sabrina di lella, teresa di martino, alessia dro, serena fiorletta, eleonora forenza, angela lamboglia, gaia leiss, viola lo moro, valeria mercandino, roberta paoletti, simona pianizzola”.
qui il blog di Femministe Nove
La versione integrale del manifesto sarà pubblicata sul prossimo numero di DWF.
Una delle convinzioni da eradicare, a questo giro di boa, insieme a quella che ci sia una “generazione perduta” (vedi qui), è quella che tutte e tutti debbano perseguire il successo, e ovviamente esibirlo.
Ieri leggo un titolo malcelatamente trionfale su Repubblica: “Contrordine ragazze. E’ meglio la famiglia”. Dove si racconta che le giovani millennials britanniche, ovvero le ragazze nate tra l’85 e il 94, lavorano meno delle loro sorelle maggiori dieci anni fa, e se possono fanno i figli presto e se li curano personalmente. Non solo crisi, ma anche il crescente convincimento, rilevato dai sondaggi, che è meglio che un figlio te lo tiri su, anziché mollarlo al nido o a una sequela di baby sitter.
Il fatto è 1. che queste ragazze sono state bambine cresciute nei nidi e con le nanny, e nessuno ha maggiore competenza in materia: vogliono dare ai figli quello che loro non hanno avuto. 2. la pena e la fatica delle loro madri, sbattute tra sogni di carriera e sensi di colpa nei riguardi della famiglia l’hanno vista da vicino, e non hanno alcuna intenzione di ridursi pure loro come stracci. 3. la loro identità, come del resto quella dei loro coetanei maschi, non è più affidata in via esclusiva al lavoro, che viene fortemente smitizzato -e del resto non è facile mitizzare un lavoro precario e volatile- torna a essere, molto semplicemente, un modo per campare, possibilmente con qualche significato. La vita è altrove e il successo -più su, sempre più su- non è un obbligo. E per fare i figli è meglio non aspettare i 45 anni.
Queste piccole e dispettose post-emancipate non stanno dicendo affatto che “è meglio la famiglia” (e il maritino da baciare sulla porta alle 8 del mattino, e il twin-set con le perle, e tutti felici per il ritorno ai bei vecchi tempi). Stanno dicendo: primum vivere (deinde laborare). Stanno cioè indicando non un rassicurante coming back home, ma il pericoloso desiderio di un lavoro più prossimo e più simile alla vita: quindi la necessità di disorganizzarlo e riorganizzarlo secondo tempi e modi più femminili.
Il movimento storico è stato questo: accesso delle donne al lavoro retribuito (di quello non retribuito siamo campionesse da sempre); sogni di gloria, di carriera e di successo secondo i modi degli uomini (e teste sfondate sui glass ceiling, e vite sfracellate); desiderio di un lavoro finalmente bio-compatibile, che comprenda anche il fatto di non dover sbattere fordisticamente il tuo mocciosetto urlante di pochi mesi in mezzo ad altre decine di mocciosetti urlanti di pochi mesi in un’aula con i pupazzoni disegnati sui muri dalle sette del mattino alle sei del pomeriggio.
Tenerne conto quando -e se mai- si ripenseranno i servizi per le giovani madri: la vecchia e usurata idea di conciliazione è da buttare alle ortiche. Va messo in piedi qualcosa di meglio.
Un ragazzo mi dice: “Io non me ne voglio andare. Io voglio restare in Italia”. Mi si stringe il cuore, la rabbia mi invade. Un sacco di suoi amici sono già partiti, in Inghilterra, in Germania, in Brasile, in Australia. Emigranti con il trolley, ma emigranti. Tanti invece lottano con le unghie e con i denti per restare. E’ una lotta con se stessi, non solo con il mondo fuori. L’informazione: “Siete la generazione perduta” è definitivamente introiettata. Una delle più sporche e riuscite operazioni di propaganda di questo secolo. Come dire: siete degli zombie, siete già mezzi morti, siete dei cagnetti randagi, accontentatevi delle ossa che vi lanciamo.
Non è vero niente. Resistete soprattutto a questa falsa informazione. Non siete affatto la generazione perduta. Siete una generazione che avrà moltissimo da inventare. Una nuova civiltà economica. Una nuova civiltà politica. Un altro modo di studiare e di lavorare. Caricatevi di tutta l’energia che serve per questo compito gravoso e bellissimo.
“Chi definisce chi una generazione perduta?”, si domandava Hemingway. Risposta (mia) chi ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo, e a bassissimo costo. Quasi il 40 per cento dei giovani italiani tra i 18 e i 24 anni è senza lavoro. Quelli che lavorano, lavorano in condizioni pessime e con paghe infime. Notizia di oggi, il boom di iscrizioni alla facoltà di ingegneria a Milano. Lesson number one: fate gli ingegneri o i “bocconiani” (l’idea della lost generation nasce in quell’ambiente) solo se pensate che sia davvero quella, la vostra strada. Un ingegnere infelice è anzitutto un infelice, e probabilmente un disoccupato.
Non so voi, io sto cercando di seguire ancora i talk politici. Devo farlo, quanto meno per lavoro. Mi pare di non farcela più. Mi pare che nessuno di noi ce la faccia più.
Ci manca, amic*, la necessaria concentrazione per seguire nel dettaglio i non accordi, i tatticismi, le schede bianche, la deflagrazione del Pd (in cui è rappresentato tutto il ventaglio delle ipotesi: dall’accordo con i 5 stelle, al governissimo con il Pdl, a un’alleanza con la Lega, al ritorno alle urne), le vicende giudiziarie di Berlusconi, il conflitto tra il Presidente Napolitano e il partito di Repubblica… Non riusciamo a eccitarci per l’elezione dei presidenti della Camera e del Senato, no.
Non per cattiveria, ma quelle poche energie che ci restano dobbiamo riservarle a far quadrare il bilancio familiare, a cercare le offerte per la spesa, a non perdere il lavoro, o a cercarne uno se l’abbiamo già perso, a preoccuparci per i figli, a organizzare i turni per occuparci dei bambini, dei vecchi e dei malati, visto che che il welfare siamo noi, a tenere in qualche modo viva la fiducia… stupidaggini così.
Sbrigatevi: non ce la facciamo più, con questi preliminari infiniti. Nessuno vi ha costretto a candidarvi: è stata una vostra libera scelta, siete stati eletti, ora fate in fretta, senza clamore, responsabilmente, tutto quello che dovete fare per il bene del vostro Paese. Lavorate per unire, non per dividere. Gettate ponti: e invece di giorno in giorno vediamo aumentare le lacerazioni. Come se ognuno giocasse solo la propria partita personale, eventualmente su più tavoli, tutti contro tutti. Non perdete i contatti con la realtà. Non lasciatevi drogare dall’eccitazione della politica politicante. Fate parlare le vostre coscienze.
Ma la vera grande paura è quella di nuove elezioni. Il Paese potrebbe rivoltarsi. La protesta disciplinata del Movimento 5 Stelle potrebbe non bastare più. L’argine potrebbe crollare.
Dovreste conoscerlo, questo Paese che avete voluto rappresentare. Dovreste sapere della sua grande resilienza, della sua capacità di assorbire tutto, di adattarsi a tutto, fino allo stremo. Ma dovreste tenere presente anche il modo in cui, all’improvviso, questo Paese si rivolta e fa saltare il banco.
Io spero che il Presidente Napolitano, rompendo ritualità e indugi, saltando ogni inutile cerimonia, sappia rapidamente indicare il nome di un candidato presidente del Consiglio la cui personalità abbia qualche chance di rompere schemi e schieramenti sollecitando la coscienza di ogni singolo parlamentare. Abbiamo un parlamento ringiovanito e femminilizzato: spero che sappia reinterpretare il suo ruolo, che si riprenda la propria centralità, ridimensionando il ruolo del governo, buttando all’aria la scacchiera dei tatticismi politicanti, rompendo da subito con le logiche imposte dalle vecchie leadership e avendo come stella polare il bene del Paese, non quello angusto del proprio schieramento. Non dimenticate di essere donne, non dimenticate di essere giovani, non smettete di parlare la vostra lingua.
Disubbidite!
E fate in fretta. Stiamo soffrendo troppo. Non c’è più tempo.
Poiché, come saprete, tendo per biochimica al mezzo-pieno, in questo gran disordine sotto il cielo vedo molte opportunità a portata di mano. E vedo soprattutto un Parlamento stra-ringiovanito -se non sbaglio, il Parlamento più giovane d’Europa: noi! vi rendete conto? da sempre oppressi dalla gerontocrazia! noi, come dopo le primavere arabe, e senza violenze!– e femminilizzato: dal 20 al 30 per cento, decisamente più in linea con le medie europee.
Ma la cosa pazzesca, e anche un po’ comica, è la seguente: centrosinistra e 5 Stelle (ovvero il presumibile governo di minoranza + eventuale sostegno esterno: c’è una fortissima spinta della base in questo senso) portano in Senato 66 donne su 177 eletti contro le 17 su 130 del centrodestra + Monti. E alla Camera 148 donne su 448 deputati contro 16 su 169 del centrodestra + Monti (tutte le analisi qui).
In buona sostanza, quasi tutte le donne stanno a sinistra (+ Grillo) contro un centrodestra supermacho! Il che femminilizza potentemente l’eventuale dialogo tra centrosinistra e 5 Stelle. Meglio ancora, diciamolo così: le donne hanno la grande possibilità di tenere il mazzo della nostra politica (come lo tengono nella vita reale) imponendo temi, priorità, agende.
Se sapranno lavorare insieme, stringendo un patto che moltiplichi la loro forza contrattuale nei rispettivi partiti, potranno rivoluzionare la politica, e cambiare il Paese (se poi sapranno coinvolgere sui loro temi i giovani maschi, capaci di riconoscere l’autorità femminile, sarà l’en plein!).
Non perdano questa grande occasione!