Quando dico backlash, o contrattacco, o ritorno al passato remoto, mi riferisco a cose tipo il discorso di Maria Cristina Cantù, assessora leghista lombarda alla Famiglia, alla Solidarietà Sociale, al Volontariato e alle Pari Opportunità (un bel mucchietto di roba) per introdurre il convegno «Pari Opportunità e contrasto alla violenza di genere in Lombardia. Strumenti d’intervento e scenari di sviluppo per il 2015» in corso a Milano, Palazzo Lombardia. Dopo averci ammannito un improbabile “persuàdere” -probabilmente si intendeva “persuadère”- l’assessora si è avventurata in un ardito paragone tra la stupidità dei violentatori di donne e quella dei writer imbrattatori di treni della metropolitana. Ed è detto pressoché tutto.
Fuori da Palazzo Lombardia il presidio di protesta della rete lombarda delle Case delle donne e dei Centri antiviolenza, che nessuno ha invitato al convegno: mother of us all (un’esperienza trentennale, navigando controvento e con scarsissime risorse, in cui si è originato il metodo che da sempre viene adottato nei corsi di formazione) che la giunta Maroni non considera come interlocutrici. “Nonostante le continue riunioni di tavoli a cui veniamo chiamate a portare idee, contenuti ed esperienze” spiegano “ultima e pericolosa invenzione è quella di definire ospedali, consultori, sportelli e servizi come centri antiviolenza pubblici ingannando e creando confusione fra le donne».
A Marisa Guarneri, pioniera e presidente onoraria della Casa delle Donne Maltrattate di Milano, chiedo di chiarire i termini della querelle.
“Il punto è la strategia politica della giunta Maroni, che sceglie l’istituzionalizzazione della lotta alla violenza” dice. “Quanto al governo Renzi, stessa musica: aspettiamo ancora di conoscere i contenuti del piano nazionale. Senza la nostra esperienza non ci sarebbe nemmeno stata lotta alla violenza, ma nonostante la convenzione di Istanbul riconosca un ruolo di primo piano ai centri gestiti dalle donne, i nostri centri vengono dimenticati, privilegiando l’intervento pubblico, ospedali compresi. Il che significa, per fare un esempio, obbligo di denuncia, quando invece è ampiamente dimostrato che segretezza e anonimato sono essenziali per accompagnare le donne che chiedono aiuto. Noi abbiamo sempre lavorato per la libertà femminile” conclude Guarneri “per fare uscire la forza che anche una donna maltrattata ha dentro di sé. Questo è l’unico modo per contrastare la violenza. Qui invece si parla di “mettere in sicurezza” le donne (copyright, Fabrizia Giuliani, deputata Pd), di tutelarle, di controllarle come eterne minori. Per non parlare dei finanziamenti: le istituzioni stanziano fondi per finanziare se stesse“.
In effetti, se prima erano in 4 a ballare l’hully-gully, ora che la lotta antiviolenza è diventata un business a tutti gli effetti (fondi pubblici, corsi di formazione, sportelli, progetti, libri e show) tutti quanti vogliono ballare, sempre sulla pelle nostra e, ovvio, con soldi nostri. Tagliando fuori quello che alcuni definiscono sprezzantemente “vecchio femminismo”, nel quale tuttavia si sono fondate e continuano a fondarsi le pratiche più efficaci nella lotta alla violenza, basate sul primato della relazione. E a cui sarebbe più giusto dare il nome di radicalità femminile. Radicalità di cui oggi, a fronte dell’esangue parità solo apparente, oggi c’è più che mai bisogno.