Dell’ incontro il 1°dicembre alla Casa Internazionale delle Donne a Roma porto con me soprattutto un senso di benessere condiviso. L’appagamento, per quella giornata, del desiderio di essere noi stesse, da subito, senza ulteriori rinvii a un domani in cui sarà finalmente possibile. La fiducia di poter moltiplicare le occasioni come quella. Essere noi stesse il più delle volte e nel maggior numero di luoghi, e allargare a macchia d’olio quelle occasioni: una pratica politica.

L’incontro si è concluso con poche righe che mettono insieme alcuni punti non negoziabili:

Per un femminismo unito e plurale 
che metta al centro la libertà femminile e di tutti, 
la giustizia e il rispetto della vita e della dignità umana, 
la ricerca dell’integrità e della felicità
 contro la violenza maschile, contro il ddl Pillon, 
contro ogni forma di mercificazione della vita (utero in affitto, prostituzione e tratta), 
contro le mistificazioni queer”.

I “contro” ci sono tutti, però li teniamo in fondo e a mio parere è giusto così. E’ come un assedio, i colpi di coda dell’animale morente sono molti e violenti, eppure a mio parere non gli si deve dare eccessiva importanza. Colpi di coda, tutti rubricabili come estremo tentativo di tenere in piedi quello che non sta più in piedi e fa acqua da tutte le parti, ovvero il sistema del dominio maschile. Si tratta di espressioni vecchie e anche nuove del dominio, ma è un tentativo destinato a fallire e ormai fuori tempo massimo.

Quindi non ci si deve affezionare troppo al lavoro di resistere sui vari fronti di lotta, diciamo così. Si deve continuare a farlo, lo facciamo tutte e lo facciamo bene, ma il nostro più e il nostro meglio non dobbiamo riservarli a quel lavoro. Non si deve restare ipnotizzate e in qualche modo affascinate dalla scena della violenza. E’ come essere minacciate da fantasmi che certamente vanno tenuti a bada, ma si deve in ogni momento essere consapevoli della loro inesistenza, e non perdere la fede, per così dire.

Non si deve avere paura. Si deve tenere l’orizzonte.

Non dobbiamo lasciarci travolgere dalla depressione maschile: quello che sta morendo è di loro invenzione (si vedano, a riguardo, l’articolo La fin de la domination masculine di Marcel Gauchet, pubblicata da “Le Debat” n°200, Gallimard, reperibile online; decisamente più autocosciente: Serotonina” di Michel Houellebecq, Nave di Teseo). Non possiamo continuare ad ammalarci al posto loro.

Molte si attaccano a questa identità reattiva, che è pur sempre un’identità, resistere è anche un modo per esistere. Ma il tempo per questo è scaduto, quell’identità intrappola e non aiuta più. La cosa da fare è mettersi in ascolto dei propri desideri, e poi metterli in comune e al lavoro.

Staccare le spalle dal muro, cogliere ogni buona occasione per essere noi stesse, di costruirne ogni giorno di nuove.

Da molte parti viene posto il tema dell’efficaciaPensarsi come inefficaci però è sbagliato: se c’è stata una politica efficace negli ultimi cento anni è stata la politica delle donne. Intendo l’efficacia come saper trovare le necessarie mediazioni per poter essere noi stesse, riducendo al minimo la contrattazione con le logiche e i dispositivi del dominio maschile.

Mi risuona in mente quello che ha detto una ragazza, Martina. il 1° dicembre: d’accordo le manifestazioni, si fanno, ci si va, l’8 marzo, il 25 novembre, ma quello che mi interessa è la vita tra una manifestazione e l’altra. Anche a me interessa questo.

Quando si cerca la cosiddetta efficacia, un primo riflesso è pensare alla politica della rappresentanza. Questa strada va guardata molto criticamente. Mi domando: perché affidarsi alla mediazione di una politica sempre più fallimentare? Fatto salvo il legittimo desiderio delle singole di fare questo mestiere,  ma quel desiderio va perseguito per  se stesse, non in nome di.  

La logica del partecipare alla politica della rappresentanza “in nome di” è quella che ci ha fatto guadagnare di meno e che non regge a un calcolo costi-benefici. In altre parole, quella strada si è rivelata la meno efficace.

Ci siamo impegnate per tanto tempo e in tante per avere più donne in quella politica–io stessa ci ho messo davvero molto impegno-. Una stra-mobilitazione che certamente ha dato una mano a quelle che avevano il desiderio di entrare. Ma abbiamo anche visto che, appena entrate, quasi sempre il legame con le altre è stato reciso: avrei molte storie da raccontare, ne abbiamo tutte, sono sotto gli occhi di tutte. Quel legame a quanto pare conviene quando vuoi entrare, ma non ti fa più guadagnare quando sei entrata.

L’abbiamo visto anche recentemente a Milano, nel corso della Commissione Consiliare sulla trascrizione all’anagrafe dei “due padri”: in prima fila a ostacolare la nostra proposta (contro la trascrizione tout court, per una soluzione alla francese: trascrizione del padre biologico, adozione da parte del-della partner) c’erano proprio alcune consigliere e altre cariche che in campagna elettorale avevano fatto riferimento al movimento delle donne. Come se, una volta entrate, queste donne sentissero di guadagnare di più mostrando di essersi “emancipate” dal femminismo, e nella fattispecie alleate del fronte GBT. D’altro canto, se le consigliere “femministe”, per dire così, le abbiamo avute contro, altre con cui non avevamo alcun legame sono venute a cercarci per un lavoro comune contro l’utero in affitto. C’è stato uno sporgersi verso il movimento delle donne, perché questo dava loro forza politica.

Si potrà dire che l’utero in affitto è una questione particolare: ma la dinamica è stata la stessa per molte altre questioni. Non si vorrebbero fare nomi: ma a cosa è servito avere una donna a capo del maggiore sindacato italiano, e pure una che qualche legame con il movimento delle donne lo aveva stretto? e che cosa è stato del grande sapere sulla scuola di maestre e professore, avendo una femminista al guidare il Ministero dell’Istruzione?

Paradossalmente, invece, sono arrivati segnali interessanti da parte di politiche che un legame con il movimento delle donne non lo hanno mai cercato più di tanto: penso a Mara Carfagna, o anche a Stefania Prestigiacomo che a Siracusa ha fatto un blitz sulla nave dei migranti bloccata in rada. «È l’iniziativa di una madre, colpita più dal fattore umano che politico» ha detto Antonio Tajani, quasi scusandosi per il gesto imprevisto della compagna di partito. Finendo invece per potenziare la qualità politica di questi sentimenti materni contro la logica inflessibile dell’uomo forte.

In questi e in altri gesti, quasi sempre ispirati dal desiderio di corrispondere ai bisogni umani essenziali, si è visto uno scarto dalle regole della politica maschile: nelle azioni del gruppo di donne che si è mobilitato per Roma, delle cosiddette “madamin” pro Tav di Torino -comunque la si veda sulla Tav-. Lo stesso movimento dei Gilet Gialli nasce da un attivismo femminile che ha messo a frutto politico il sentimento di compassione nei confronti della gente in difficoltà.

Le donne in politica saranno efficaci quando sentiranno di guadagnare di più rompendo le regole di quel gioco e potendo essere loro stesse di quanto guadagnerebbero mostrandosi fedeli e zelanti. Potrebbe volerci molto tempo, o potrebbe bastare lo spazio di un mattino: il tempo di questi cambiamenti, come abbiamo visto con il MeToo, è un tempo imprevedibile e di tipo “catastrofico”.

Si tratta quindi di osservare con attenzione, di essere disponibili e di non mancare le occasioni di scambio, di sollecitarle e moltiplicarle, di entrare in relazione con quelle che ne hanno il desiderio e che da dentro quella politica si sporgono verso di noi, di riflettere, ragionare e agire insieme a loro. Ma fare coincidere la ricerca di “efficacia” con la partecipazione paritaria alla politica maschile, o progettare un “partito delle donne” -esperienze peraltro piuttosto fallimentari un po’ dovunque- significa a mio parere restare in surplace continuando ad alimentare aspettative malriposte.

Molto più interessante ragionare sul tema del lavoro, dove il desiderio femminile si mostra e agisce più chiaramente. Lo abbiamo già fatto e dobbiamo continuare a farlo con maggiore intensità.

Il più degli indicatori è negativo: le donne italiane sono le più scolarizzate tra tutte le donne del pianeta, ma sono anche quelle che in Occidente stanno lavorativamente peggio. Ogni 100 maschi iscritti all’università ci sono 136 donne, ma siamo 126esimi per parità di trattamento economico. Su 10 persone che smettono di cercare lavoro 6 sono donne, la disoccupazione femminile è di 3 punti percentuali più alta di quella maschile, eccetera.

Dall’altro lato però cresce costantemente il numero di imprese femminili, donne espulse o che si sono autoespulse perché avevano un’altra idea di crescita, di ricchezza, di economia, di priorità produttive, un’altra idea di politica e di giustizia, un’altra idea del tempo, un desiderio di centralità delle relazioni, un’altra idea di mondo. Credo che nel mondo del lavoro e soprattutto delle imprese autonome femminili quest’altra idea di mondo abbia molte opportunità di rappresentarsi.

Si tratta di un desiderio di essere che tiene insieme donne del Nord e del Sud, oltre lo storico gap, e che può offrire soluzioni anche ai problemi come la denatalità -che preferirei chiamare desiderio di maternità ostacolato ovunque- e la gestione dell’immigrazione: nelle pratiche microfisiche di integrazione quotidiana si trovano soluzioni diverse dai due estremi dell’accoglienza indiscriminata e dei porti chiusi.

Non può non esserci una relazione tra il fatto che questo paese non cresce -almeno secondo quella che comunemente si intende come crescita– e il contrattacco maschile in atto che mantiene congelata la risorsa del desiderio e della sapienza femminili. Che cosa non sta crescendo più?

Forse non in tutte, certamente in una parte consistente delle libere imprese di donne si può vedere la differenza femminile al lavoro. Il femminismo e la libera impresa femminile sono due mondi che non si parlano a sufficienza, probabilmente lì c’è molto da scoprire. Si tratta forse della persistenza di un malinteso su ciò che è politico. La nostra idea di politica è ancora troppo influenzata da modi, tempi e dispositivi della politica maschile. Viceversa, esitiamo a definire politica la libera impresa femminile, qualunque sia il suo contenuto, forse con l’eccezione –in spirito di automoderazione-  delle imprese no-profit.

Credo invece che la libera impresa femminile sia politica perché realizza ad un tempo diversi importanti obiettivi: consente alle donne la produzione autonoma di reddito, le libera da un’idea maschile di organizzazione del lavoro e della vita –modi, tempi, logiche e priorità produttive- e dai ricatti connessi, come quelli sull’inconciliabilità tra lavoro e maternità, mette alla prova la sapienza delle donne, la loro competenza e il loro modo di vedere il mondo.

Penso che le libere imprese possano fornire un modello e una chiave per qualunque iniziativa politica: non mettersi in gioco là dove le possibilità di farcela sono poche, non lavorare in perdita, ottenere risultati in tempi ragionevoli. Spesso queste imprese femminili producono arte, armonia e bellezza, sono poetiche nel senso letterale del termine. Sono l’esatto contrario del brutto della politica maschile. La ricerca di consolazione nella bellezza dà avvio a processi creativi.

Sarebbe molto interessante -a me, almeno, piacerebbe molto- arrivare a costruire una “festa” delle imprese femminili, con messa in comune di esperienze ed esposizione di produzioni. Per rendere ben visibile questo mondo e il suo valore politico.

 

 

 

 

 

 

 

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