“Xenofemminismo” (Nero edizioni, 2018) è un saggio di Helen Hester, docente di Teoria del Media e della Comunicazione all’University of West London, e prende le mosse dal “Manifesto Xenofemminista” del Collettivo Laboria Cuboniks (2015) (vedi qui) di cui Hester è tra le fondatrici.

Nello Xenomondo di Hester i generi sessuali sono superati, il corpo biologico è materiale disorganizzabile, costantemente in transizione e sempre mutante tra animalità e silicio,

Liberazione del corpo è intesa come liberazione dal corpo e dai suoi limiti.

Le tecnologie oppressive, a cominciare dal biotech, vengono hackerate e re-indirizzate (repurposing) per dare vita a progetti rivoluzionari.

Il modello perfetto di hacking è il bio-hacking e gender-hacking. Un esempio per tutti: “piratare” tecnologie per autoprodurre e coltivare ormoni utilizzando piante di tabacco transgeniche.

Compito del femminismo, secondo Hester –“un femminismo tecnomaterialista, antinaturalista e abolizionista del genere”- è veicolare, rappresentare, realizzare le strategie emancipatorie della cultura cyborg, trans e queer.

Un femminismo pour tous che non riguarda in prima istanza le donne: il nome di “donne” scrive Hester “è un’etichetta infelicemente inadatta”, lei preferisce coloro che possono concepire, portare avanti una gravidanza e partorire”. Le donne, in buona sostanza, scompaiono.

Shulamith Firestone –inclusa nella genealogia dello Xenofemminismo insieme a Donna Haraway e alle pratiche di self –help (un numero esagerato di pagine è dedicato al Del-Em, congegno per l’estrazione mestruale)- intendeva emancipare le donne, ai suoi tempi si potevano chiamare ancora così, dalla fatica e dal dolore del compito riproduttivo, destino su cui a suo parere si edifica l’oppressione femminile.

Anche Hester sottolinea “gli innumerevoli rischi per la salute della gravidanza e del parto”. La condizione di essere donne è definita addirittura “letale: anche se in verità risulta che la vita media delle donne sia significativamente più lunga di quella degli uomini, o almeno lo è stata fintanto che con l’emancipazione le donne non hanno preso a vivere nei modi degli uomini.

Quindi l’autrice da un lato conferma implicitamente che chi ricorre a utero in affitto mette in pericolo la vita delle gestanti; dall’altro omette di considerare che i rischi per la salute sono significativamente maggiori rispetto a quelli connessi alle gravidanze naturali quando si ricorre alle varie tecniche di Pma e all’uso di ormoni.

Hester tempera in corner le sue simpatie per il denatalismo ammettendo che a qualcuna –meglio: qualcun*- può anche scappare di mettere al mondo un bambino.

E se critica la famiglia biologica in favore del fatto di “generare parentelee “rifamiliarizzare le reti alternative di solidarietà e intimità”, stigmatizzando l’idea del figlio come “la prole autosomigliante del presente”,  non considera il fatto che tra le forme alternative alla famiglia, cercate fin dagli anni ’60-’70, l’unica che ha avuto un rilevante successo statistico è la solitudine.

Dall’altro lato alla critica alla “prole autosomigliante” non fa conseguire alcun affondo contro l’omogenitorialità biologica.

Xenofemminismo è fondamentalmente un seducente progetto estetico che, non diversamente dall’accelerazionismo e dal futurismo, si disegna come orizzonte politico rivoluzionario: Hester padroneggia molto bene le tecniche della comunicazione pubblicitaria, inventa parole suggestive come “Capitalocene” o “Mesopolitico”, la componente visuale delle sue teorie è molto forte, il pensiero si presenta immediatamente come una affascinante scenografia in cui i soggetti si muovono utilizzando gli strumenti del padrone –la pervasività delle tecnologie- a suo dire per abbattere la casa del padrone.

La prima mossa di liberazione dal padrone è sempre e invariabilmente la sottrazione alla normatività del binarismo di genere: gli ormoni stanno allo Xenofemminismo più o meno nel modo in cui le droghe stavano al progetto di liberazione della  Beat Generation.

Vi è una questione che la teoria xenofemminista non esplicita, e alla quale di conseguenza non prospetta soluzioni: la sostanziale coincidenza tra quel progetto rivoluzionario e gli obiettivi del biomercato neoliberista, 4° business del mondo dopo armi, droga e tratta degli umani.

Anche il business biotech (BigFertility, BigPharma) chiede un individuo sciolto da ogni legame relazionale, a cominciare dalla relazione con il corpo biologico, un soggetto fluido, identitariamente precario, che si riconfigura di volta in volta secondo le proiezioni del mercato.

Un consumatore perfetto. Il neutrum oeconomicum profetizzato da Ivan Illich.

Se, come scrive Hester, lo Xenofemminismo intende costruire con le sue pratiche rivoluzionarie “nuove istituzioni di proporzioni egemoniche”, è difficile non notare che queste istituzioni egemoniche esistono già, e sono proprio quel biomercato finanziarizzato di cui Xenofemminismo appare quasi un claim pubblicitario perfetto.

Xenofemminismo sembra voler spingere fino alle estreme conseguenze e in senso accelerazionistico il lavoro delle biotecnologie sulla carne umana, strategia che potrebbe realizzarsi con un pieno riconoscimento del biolavoro e con maggiori tutele: per esempio, poniamo, che chi vende un rene venga garantito quanto a compenso e garanzie igienico-sanitarie; che le venditrici di ovociti non siano sottopagate; che la gestante per altri  abbia qualche diritto in più.

Un po’ più “rivoluzionaria” l’ipotesi di un’autogestione del proprio sfruttamento: poniamo,  cooperative di madri surrogate e l’autoproduzione di ormoni per la transizione. La prospettiva iperrealistica di Xenofemminismo sembra indicare questa uscita.

I farmaci, la stampa, il software open source, i sistemi di cybersecurity e l’automazione postindustriale” scrive Hester: “se questi fenomeni possono essere usati per aumentare il controllo e il dominio sui corpi che lavorano, allo stesso modo rappresentano dei terreni fertili di possibilità per la sinistra femminista” che “vuole schierare strategicamente le tecnologie esistenti per riprogettare il mondo”, con pratiche di “aggiramento dei gatekeeper”, ovvero di chi detiene le chiavi di accesso alle tecnologie.

La mutabilità della natura” diventa “uno spazio di politica emancipatoria”.

Hester paragona le pratiche di appropriazione del biotech da parte dell’attivismo transfemminista al lavoro delle streghe escluse dalla medicina ufficiale. Con una significativa differenza, tuttavia: che quelle streghe il corpo cercavano di salvarlo tutto intero.

Lo Xenofemminismo si mostra critico anche nei confronti dell’ecofemminismo, che si affida a “un immaginario esclusorio e controproducente, basato sul rendere il mondo migliore per i “nostri” figli”, e rifiuta la normatività di un futuro occupato dalla figura del Bambino.

Se è vero, come dice Luisa Muraro, che il femminismo è un campo di battaglia, si deve ammettere che il confronto tra Xenofemminismo e Femminismo Radicale si presenta come piuttosto aspro.

Si tratta, a mio parere, prevalentemente di un conflitto tra un’estetica seducente e una politica che lo è molto meno.

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