La Grand Chambre della Corte Europea dei diritti dell’uomo dà ragione all’Italia: è stato giusto togliere ai coniugi Donatina Paradiso e Giovanni Campanelli il “loro” bambino nato in Russia da maternità surrogata.
Decisione che ha rovesciato la sentenza di primo grado di due anni fa, in cui si affermava che togliendo il bambino ai coniugi l’Italia aveva violato il principio del rispetto della vita privata e familiare. I media mainstream riportano laconicamente la notizia: nessuna festa per il fatto che il nostro Paese abbia avuto ragione. Personalmente festeggio, ma non del tutto, e spiego perché.
Vi chiedo un po’ di attenzione.
Anzitutto la vicenda, abbastanza complessa. Nel 2011 la coppia si rivolge a una clinica di Mosca per una cosiddetta surrogazione di maternità. Per affittare un utero, così è più chiaro. Il bambino nasce e la coppia rientra con il piccolo a Colletorto (Campobasso), dove risiede. La locale anagrafe rifiuta però di registrare il bambino come figlio della coppia. Un successivo test del Dna rivelerà che non solo il bambino non è figlio della donna che chiede di essere riconosciuta come madre, ma che nemmeno con il padre vi è alcun legame genetico. In queste cliniche low cost, senz’altro più accessibili di quelle californiane o canadesi, le cose si fanno, come si dice, un tanto al chilo: anziché il seme fornito dal padre è stato usato quello di chissà chi.
In breve, i coniugi Campanelli non hanno alcun legame biologico con quel bambino “importato”, né un legame acquisito via adozione legale. Quindi il bambino, che ha pochi mesi, viene loro tolto, affidato ai servizi sociali e successivamente dato in affido familiare. Decisione senz’altro dolorosa per la coppia, ma ineccepibile: a nessuno è consentito rivendicare potestà genitoriale su un bambino in stato di abbandono, non avendo genitori biologici né legali. Se trovi un neonato sul sagrato della Chiesa o, come purtroppo capita, in un cassonetto, non hai titoli per tenerlo con te: il minore abbandonato viene preso in carico dallo Stato e posto in condizione di adottabilità.
La coppia Campanelli-Paradiso si appella alla Corte Europea per i Diritti Umani, che come detto in primo grado condanna l’Italia per aver violato il principio del “rispetto della vita privata e familiare”. Ma lo Stato italiano resiste e presenta ricorso, che si conclude vittoriosamente con la sentenza di ieri, non più appellabile.
In breve, la sentenza afferma che “tenuto conto dell’assenza di qualsiasi legame biologico tra il bambino e i ricorrenti, la breve durata della loro relazione con il bambino, e l’incertezza dei legami tra loro dal punto di vista giuridico, e nonostante l’esistenza di un progetto parentale e la qualità dei vincoli emotivi, la Corte ha ritenuto che non esisteva una vita familiare tra i ricorrenti e il bambino”.
Si sostiene inoltre che “le misure contestate hanno perseguito l’obiettivo legittimo di prevenire disordine e proteggere i diritti e le libertà degli altri. A questo riguardo (la Corte) considera legittimo il desiderio delle autorità italiane di riaffermare la competenza esclusiva dello Stato di riconoscere la relazione parentale legale di un bambino, e questo esclusivamente nel caso di un legame biologico o di un’adozione legale, con l’obiettivo di proteggere i bambini”.
La sentenza è stata accolta con esultanza dal variegato fronte di chi si oppone all’utero in affitto –e con altrettanta soddisfazione, immagino, da parte della maggioranza delle cittadine e dei cittadini italiani, che pure senza esprimersi pubblicamente per paura di essere accusati di bigottismo e uncorrectness, non approvano la pratica- e ha segnato uno stop importante ai danni dei pro-Gpa.
In verità la sentenza presenta luci e ombre.
Una conferma della decisione di primo grado, oltre ad avere conseguenze disastrose sulla vita del bambino, che oggi ha 6 anni, vissuti quasi interamente nella sua nuova famiglia, e per il quale i coniugi Campanelli sono perfetti estranei, avrebbe violato principi fondamentali, autorizzando di fatto la compravendita di creature umane e il diritto alla potestà o perfino alla proprietà anche in assenza di legami biologici o legalmente acquisiti. Tolto l’investimento emotivo, infatti, a fondare il diritto rivendicato dalla coppia Campanelli c’era solo il fatto di avere investito dei soldi nell’operazione, e di averli perduti. In sostanza: trovo un minore –per la strada, in una favela, in una qualunque situazione disastrata, o mi viene consegnato in cambio di soldi dalla famiglia, da parte di una donna che l’ha partorito, o partorito su commissione- e ho diritto a tenermelo.
La sentenza, quindi, è ottima perché ristabilisce un punto essenziale: un essere umano non è oggetto di proprietà, non appartiene a nessuno, se non al mondo e a se stesso, non può essere venduto né comprato. E se è minore, la potestà va regolata in base a legami biologici o legalmente riconosciuti con adozione.
Da un altro punto di vista, tuttavia, non si nega che in presenza di legami biologici, come quasi sempre avviene nelle Gpa –in moltissimi casi l’ovocita viene acquistato e il seme appartiene al cosiddetto genitore intenzionale- le cose sarebbero ben diverse. In sostanza, se il bambino in questione fosse stato figlio di almeno uno dei due coniugi, nonostante sia nato da utero in affitto con ogni probabilità lo Stato italiano non avrebbe potuto sottrarre il bambino alla coppia e la sentenza definitiva sarebbe stata un’altra.
Quindi il pronunciamento della Grand Chambre non colpisce direttamente l’utero in affitto, anche se evidenzia la complessità di queste situazioni e la problematicità di operazioni garantite dal marketing della surrogacy come “chiavi” in mano. E anche se ribadisce “la competenza esclusiva dello Stato” in materia e incoraggia gli ufficiali di Stato Civile a pretendere chiarezza di fronte al sospetto di falso in atto pubblico, ovvero di falsi riconoscimenti di paternità e maternità. Va chiarito infatti che se per la legge italiana (in particolare per quanto disposto dalla legge 40) l’utero in affitto e anche solo la sua propaganda costituiscono un reato, gli italiani che ricorrono a Gpa all’estero, in quei –pochissimi- stati del mondo in cui la surrogacy è consentita, non sono perseguibili una volta rientrati nel nostro Paese, se non per eventuale falso in atto pubblico. Un vuoto che rende difficile concretizzare il no italiano alla Gpa, e che va riempiendosi di sentenze ambigue, che non rappresentano il nostro divieto e in nome del superiore interesse del minore spesso danno ragione ai cosiddetti genitori intenzionali, senza alcuno stigma per quello che hanno fatto. Ignorando nella sostanza che non si può certamente ritenere “superiore diritto del minore” il fatto che il bambino sia separato alla nascita da sua madre in forza di un contratto. E logorando progressivamente il principio universale secondo il quale “mater semper certa” è la donna che ha partorito.
Su tutto questo urge una riflessione.