Ha molte ragioni l’amica Alberta Ferrari: l’idea di puntare finalmente l’obiettivo politico sull’essere madri e sul fare figli in questo Paese è buona, e anzi arriva molto tardivamente. E non va buttata con l’acqua sporca di una campagna francamente indegna, che ha vanificato uno sforzo encomiabile.
Nei miei ultimi tre libri (“La scomparsa delle donne” del 2007, “Un gioco da ragazze” del 2011, “Temporary Mother” del 2016) dedico molte pagine al tema della maternità, della denatalità e dell’infertilità. Sono sensibilissima alla questione, io che ho strappato un figlio per miracolo.
Ma quella campagna stampa indegna e cretina si alimenta anche di alcune tentazioni ideologiche che spuntano qua e là anche nel testo, qualche ideuccia à la Costanza Miriano, del genere: guardate che per le donne avere figli è la massima realizzazione immaginabile, non fatevi fregare da altri sogni e così via. Roba che ci riporta indietro perfino rispetto al documento Ratzinger sulla differenza sessuale, là dove si conviene che non tutte le donne sono vocate alla maternità e alla famiglia. Se per tante fare figli è una grande realizzazione, per altre non lo è affatto.
Quindi non solo si deve fare fuori l’orribile campagna di comunicazione –come è stato possibile licenziare una cosa del genere?- ma va anche operata qualche riflessione sulle tentazioni di cui sopra.
Come dicevo, l’iniziativa di Lorenzin arriva molto tardi rispetto all’impegno profuso su questi temi in altre nazioni occidentali. Con risultati non entusiasmanti, peraltro. Ma non è accettabile leggere in apertura di documento che “L’attuale denatalità mette a rischio il welfare”. Casomai il contrario: è la mancanza di welfare mette a rischio la natalità.
Fare bambini senza aiuti, senza sostegni economici, con un lavoro precario, senza la rete protettiva delle grandi famiglie che c’erano un tempo, quelle in cui “ogni bambino il suo panino”, nel senso che il peso economico e organizzativo, insieme alla gioia della nascita, si distribuivano su un gruppo esteso e solidale; fare bambini in un mondo che continua a ritenerlo un lusso privato e anche un po’ irresponsabile, dove sei minacciata di licenziamento o di non-assunzione tout court, dove ti guardano un po’ storto se resti incinta prima dei venticinque, insomma tutte le cose che ben sappiamo; fare bambini in un mondo che sprezza le madri e le tiene ai margini come improduttive; be’, fare bambini in queste condizioni è un grande azzardo e richiede una determinazione –femminile- titanica.
C’è anche un problema di linguaggio: parlare di Piano nazionale per la Fertilità mette al centro l’idea astratta di Nazione e quella ugualmente astratta di Fertilità. Nessuna metterà mai al mondo figli per salvare la Nazione o per onorare la propria Fertilità. Al centro si sarebbe dovuta tenere l’infelicità di tantissime donne –e anche di molti uomini, ma decisamente meno- costrette a tenere a bada il loro desiderio di avere figli, se lo provano –e tante lo provano- per doverlo patteggiare con tutto e tutti fino alle soglie della menopausa: con i datori di lavoro, la banca, il proprietario di casa, e molto spesso il partner refrattario (refrattarietà diffusissima e sottaciuta).
Si sarebbe dovuto stare dalla loro parte, e non di un generico cittadino neutro, ignorantello ed egoista, da istruire e da redarguire. Mettere le donne al centro: che poi sarebbe un’indicazione buona per tutte le azioni politiche, visto che grande parte dei nostri guai su tutti fronti derivano dall’eccesso di maschile e dalla marginalizzazione politica delle donne.
Come dice Mary Daly, la libertà riproduttiva delle donne è repressa ovunque. Libertà riproduttiva che comprende anche la libertà di NON riprodursi. Le donne sono costrette a contrattare se vogliono figli o se non li vogliono. In ogni caso, se in una situazione come questa nascono ancora bambini, è solo per la determinazione feroce e quasi insensata delle donne a metterli al mondo, contro tutto e contro tutti.
Ecco: si dovrebbe anzitutto lavorare per rimuovere quegli ostacoli che rendono necessaria questa feroce determinazione delle donne. Compreso il diffuso peterpanismo maschile.
Caro datore di lavoro, tu licenzi la dipendente incinta? E io ti triplico l’Irap. Il fatto di essere madre deve costituire un plus quando valuti il curriculum, e non un meno. Caro sindaco: tu non provvedi agli asili nido e ad altre forme di sostegno, possibilmente flessibili (per esempio un contributo economico spendibile anche per nonne, zie e amiche che ti tengono il bambino: non siamo più nel fordismo, orari rigidi dalle 8 alle 17-? E io –governo nazionale- ti metto i bastoni tra le ruote.
Ma è vero, poi, che c’è un orologio biologico? Sì, è vero, e smettiamola di raccontarci balle consolatorie e di fare copertine assurde come quella dell’ultimo numero di Internazionale: “L’invenzione dell’orologio biologico-Com’è nata e si è diffusa un’idea che discrimina le donne“. Così non si fa un buon servizio. Così si contribuisce in modo militante al diffuso onnipotentismo secondo il quale la riproduzione è una tecnica senza limiti e a disposizione di tutti. Io un figlio non l’avrei avuto -anche se lo desideravo- se fossi stata convinta di questo. Un giorno un medico, dopo una visita, la buttò lì: “Se vuole figli si sbrighi a farli”. Non mi ricordo il suo nome, ma lo ringrazio ancora.
L’orologio biologico c’è, eccome. L’età che avanza è il maggior fattore di rischio-infertilità per le donne, per gli uomini contano di più altri problemi. Ma l’orologio biologico ticchetta anche per loro, che magari riescono a fare figli a sessanta o settant’anni, ma a parte la sconsigliabilità dell’opzione –un bambino ha diritto a un padre nella pienezza della sua energia vitale, e che possibilmente lo accompagni a lungo- con l’età maschile aumenta il rischio di mettere al mondo bambini non sani.
Quanto poi alle tecniche di fecondazione assistita last minute, saranno anche un grande business, ma non funzionano quasi mai, e distruggono il portafoglio, la salute e la psiche della gente. Inoltre, verità tabuizzata, nei bambini nati dalle tecniche di fecondazione assistita si osserva una maggiore incidenza di un certo numero di patologie.
Tutto questo è verità, e va detta e ridetta e stradetta. E l’idea di poter prevenire l’infertilità è un’ottima cosa. Magari, perché no, riservando qualche attenzione in più al rischio ambientale, tipo a certi componenti tossici, tipo i micidiali ftalati, che ci becchiamo senza saperlo nella plastica, nei dentifrici, nei bagni schiuma, e che compromettono la fecondità. La politica ha il potere di vietarne l’uso.
Insomma, io il Fertility Day lo terrei in piedi, anche se il nome è orribile. Risignificandolo totalmente e offrendo strumenti efficaci, alle donne prima di tutto –piaccia o non piaccia, sono loro a decidere se mettere al mondo un figlio- perché possano liberamente decidere quando, tenendo conto di limiti naturali inaggirabili: viviamo più a lungo, ma le nostre ovaie non hanno guadagnato un solo minuto.
Piena autodeterminazione è questo: poter decidere non solo se avere figli o non averli, ma anche quando averli. E per quando non intendo prioritariamente il fatto di poterli avere in extremis -in particolare, non intendo il social egg freezing, gli studi medici, le stimolazioni ormonali e le provette- ma soprattutto il fatto di poterli avere quando arrivano senza troppi sforzi. In quell’età in cui, come si dice, si resta incinta “anche con lo sguardo”.
Per tutto il resto rinvio le interessate e gli interessati al mio “Temporary Mother – Utero in affitto e mercato dei figli“, dove mi diffondo ampiamente sull’argomento.
Qui in versione eBook, o ordinabile in cartaceo.