A Venezia per lavoro. La sera a cena in bacaro del sestiere Cannaregio. Una volta, al ristorante da sola mi imbarazzavo. Ingurgitavo in fretta e furia per scappare via. E diverso, adesso. Gnocchetti di zucca e filetto di orata, e un po di vino rosso, pieno di ottimi polifenoli e di buoni pensieri che chiedono di essere pensati. Li accolgo, li lascio scorrere liberi nella mente e nel cuore. E una ragazza bruna e sorridente a servirmi. Porta con molta grazia la sua opulenza. Viene da Israele: Venezia è ancora molto cosmopolita. Agli altri tavoli, tedeschi e italiani. Accanto ho una coppia di francesi che non mi degna di uno sguardo. Non sono troppo empatici, i francesi. Ma se come dice Etty Hillesum, morta ad Auschwitz, basta un tedesco decente per non sentirsi più in diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero , questo varrà a maggior ragione per l antipatia dei francesi: ne basterebbe uno simpatico. Certo non è il caso di questi due.
Due veneziani che ho di fronte, invece, mi fanno ciao con la mano e brindano ostentatamente alla mia salute. Ti vol una sigareta, amore? , mi dice uno dei due (a Venezia tutti si chiamano amore, con quella erre scivolosa come l acqua di laguna). Anche la ragazza israeliana cerca farmi sentire meno sola. Mi chiede da dove vengo, se l orata mi è piaciuta. E sì che di foresti dovrebbe averne abbastanza.
Mi danno, pensando che questo bene prezioso, la relazione, potrebbe andare perduto. Che questa ricchezza d Italie, il talento della relazione, potrebbe deteriorarsi proprio mentre ne abbiamo tutti sempre più bisogno. Come si fa a salvarla? Da che parte si comincia? Intanto sorrido unilateralmente ai francesi. E alla ragazza di Israele chiedo quante lingue parla. Arabo, ebraico e italiano , mi dice. Brava, tesoro , le rispondo, facendo brillare gli occhi.
(pubblicato su “Io donna”-“Corriere della Sera”)

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