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marisa guarneri

Donne e Uomini, femminicidio, Femminismo, Politica Marzo 12, 2015

Business antiviolenza: ce n’è per tutti. Tranne che per i centri gestiti dalle donne

Milano, Palazzo Lombardia: la manifestazione della rete lombarda delle Case delle Donne e dei Centri antiviolenza

Quando dico backlash, o contrattacco, o ritorno al passato remoto, mi riferisco a cose tipo il discorso di Maria Cristina Cantù, assessora leghista lombarda alla Famiglia, alla Solidarietà Sociale, al Volontariato e alle Pari Opportunità (un bel mucchietto di roba) per introdurre il convegno «Pari Opportunità e contrasto alla violenza di genere in Lombardia. Strumenti d’intervento e scenari di sviluppo per il 2015» in corso a Milano, Palazzo Lombardia. Dopo averci ammannito un improbabile “persuàdere” -probabilmente si intendeva “persuadère”- l’assessora si è avventurata in un ardito paragone tra la stupidità dei violentatori di donne e quella dei writer imbrattatori di treni della metropolitana. Ed è detto pressoché tutto.

Fuori da Palazzo Lombardia il presidio di protesta della rete lombarda delle Case delle donne e dei Centri antiviolenza, che nessuno ha invitato al convegno: mother of us all (un’esperienza trentennale, navigando controvento e con scarsissime risorse, in cui si è originato il metodo che da sempre viene adottato nei corsi di formazione) che la giunta Maroni non considera come interlocutrici. “Nonostante le continue riunioni di tavoli a cui veniamo chiamate a portare idee, contenuti ed esperienze” spiegano “ultima e pericolosa invenzione è quella di definire ospedali, consultori, sportelli e servizi come centri antiviolenza pubblici ingannando e creando confusione fra le donne».

A Marisa Guarneri, pioniera e presidente onoraria della Casa delle Donne Maltrattate di Milano, chiedo di chiarire i termini della querelle.

Marisa Guarneri, Presidente Onoraria della Casa delle Donne Maltrattate di Milano

“Il punto è la strategia politica della giunta Maroni, che sceglie l’istituzionalizzazione della lotta alla violenza” dice. “Quanto al governo Renzi, stessa musica: aspettiamo ancora di conoscere i contenuti del piano nazionale. Senza la nostra esperienza non ci sarebbe nemmeno stata lotta alla violenza, ma nonostante la convenzione di Istanbul riconosca un ruolo di primo piano ai centri gestiti dalle donne, i nostri centri vengono dimenticati, privilegiando l’intervento pubblico, ospedali compresi. Il che significa, per fare un esempio, obbligo di denuncia, quando invece è ampiamente dimostrato che segretezza e anonimato sono essenziali per accompagnare le donne che chiedono aiuto. Noi abbiamo sempre lavorato per la libertà femminile” conclude Guarneri “per fare uscire la forza che anche una donna maltrattata ha dentro di sé. Questo è l’unico modo per contrastare la violenza. Qui invece si parla di “mettere in sicurezza” le donne (copyright, Fabrizia Giuliani, deputata Pd), di tutelarle, di controllarle come eterne minori. Per non parlare dei finanziamenti: le istituzioni stanziano fondi per finanziare se stesse“.

In effetti, se prima erano in 4 a ballare l’hully-gully, ora che la lotta antiviolenza è diventata un business a tutti gli effetti (fondi pubblici, corsi di formazione, sportelli, progetti, libri e show) tutti quanti vogliono ballare, sempre sulla pelle nostra e, ovvio, con soldi nostri. Tagliando fuori quello che alcuni definiscono sprezzantemente “vecchio femminismo”, nel quale tuttavia si sono fondate e continuano a fondarsi le pratiche più efficaci nella lotta alla violenza, basate sul primato della relazione. E a cui sarebbe più giusto dare il nome di radicalità femminile. Radicalità di cui oggi, a fronte dell’esangue parità solo apparente, oggi c’è più che mai bisogno.

 

 

 

 

 

Donne e Uomini, femminicidio, Femminismo, jihad, questione maschile Gennaio 29, 2015

Marisa Guarneri, Casa delle donne maltrattate: violenza domestica e violenza jihadista sono la stessa cosa

Il sapere delle donne sulla violenza maschile può essere d’aiuto nell’elaborazione di un pensiero sulla violenza del terrorismo jihadista? Mi affido all’esperienza trentennale di Marisa Guarneri, presidente onorario della Casa delle donne maltrattate di Milano. Le parlo dell’emozione, della sensazione di impotenza che mi travolgono quando leggo delle donne cristiane e yazide vendute al mercato di Mosul, ammazzate a centinaia perché non vogliono fare da schiave sessuali ai guerrieri di Isis, delle bambine-bomba, delle migliaia di donne e uomini sterminati da Boko Haram. Emozione che chiede con urgenza di trasformarsi in un pensiero e in una pratica politica. Lei mi dice che l’emozione intuisce in un istante quello che c’è da sapere: “Lì dentro c’è già tutto. Poi devi tirare il filo, dipanare, capire, trovare la strada, le possibili soluzioni”.

Può servire quello che abbiamo pensato sulla violenza maschile e sul femminicidio?

“Parliamo della sottomissione: una costante nelle relazioni violente. Ed è sempre il risultato di un processo. Arrivi gradualmente a sottometterti, un passo alla volta. Lui comincia con il chiederti di non lavorare, e tu rinunci. Poi si lamenta perché vai troppo spesso a trovare tua madre, e tu riduci le visite. Non gli piacciono le tue amiche, ti chiede di non vederle più, e tu tagli i ponti. Comincia a controllarti gli orari, le espressioni del viso. Via via ti pieghi. Restringi i tuoi spazi vitali. Aderisci completamente alla sua volontà. Pensi che sia una buona strategia per tenere calmo il tuo oppressore, per evitare che la violenza esploda. E invece non lo è, perché lui non si accontenta mai. La violenza esploderà perché la minestra è salata, o perché non si trova il telecomando. Lui ha necessità di essere violento perché questa violenza ce l’ha dentro e chiede di uscire. Qualunque occasione sarà buona”.

Parliamo di quelle donne, adesso.

“Ricordi “Leggere Lolita a Teheran”? Lì si vedono bene i passaggi verso la sottomissione, un po’ alla volta, fino all’oppressione totale imposta dal regime teocratico. Le ragazze che si incontrano clandestinamente con la professoressa per poter parlare di letteratura: lì con lei si possono liberare del velo, tornare soggetti. E’ lo stesso processo che descrivevamo prima: il progressivo cedimento al dominio maschile. Fino al completo isolamento, che è una tappa decisiva in queste situazioni. C’è anche il controllo totale del corpo, che non è più libero di esprimersi, di muoversi liberamente nel suo spazio vitale. Ricordo il caso di una donna che viveva con le telecamere piazzate in ogni stanza della casa: lui voleva sorvegliare ogni movimento, ogni pensiero. C’è qualche differenza con quelle donne costrette a soffocare sotto i burqa o i niqab, corpi nascosti e pensieri silenziati? Quelle donne, le iraniane, le afghane, vivevano come noi, vestivano come noi. Un passo dopo l’altro hanno ceduto alla violenza. La partenza è il foulard obbligatorio, l’arrivo sono gli stupri e le uccisioni”.

Perché se lo sono lasciato fare?

“In seguito alla sottomissione e all’isolamento subentrano tensione e paura. Non sai mai quando e perché si scatenerà la violenza. Vivi in uno stato di attesa ansiosa, dominata dal terrore. Nella nostra Casa ho visto donne ospiti saltare  sulla sedia appena sentivano sbattere una porta. Ci si chiede perché le donne maltrattate non se ne vadano: perché il terrore le paralizza, le energie sono bloccate dall’ansia, la forza che servirebbe per difendersi è perduta. Il terrorismo è una moltiplicazione esponenziale di questo terrore. Quando ci furono gli stupri etnici in Bosnia gli effetti simbolici furono devastanti anche per il nostro lavoro. Lì era saltato ogni limite, il tuo buon vicino di casa era diventato il tuo stupratore. Il concetto di inviolabilità del corpo, centrale per le nostre pratiche, non aveva più alcuna efficacia. Quello che capitava lì ci faceva tornare indietro, toglieva forza anche a noi. La parola d’ordine dell’inviolabilità del corpo femminile non teneva più. Quando in una coppia saltano i limiti, quando dalla violenza psicologica si passa a quella verbale e poi quella fisica, noi parliamo di superamento della soglia: oltre quella soglia può capitare di tutto, la donna corre il massimo pericolo e va allontanata. Ecco, quello che stiamo vedendo ora, le donne uccise perché non vogliono fare da schiave sessuali, le bambine-bomba in quell’età cruciale di passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, indicano precisamente questo: il superamento della soglia. D’ora in avanti non ci saranno più limiti, può capitare di tutto. La logica violenta dei terroristi di Isis che uccidono le yazide è la stessa che osserviamo nei casi di femminicidio: tu non mi riconosci, e io ti ammazzo. Identica”.

Che cosa si deve fare?

Rompere il silenzio. Esprimere le proprie emozioni di fronte a questi crimini, e da lì tirare il filo del pensiero. Rendere visibile ciò che sta accadendo. Capire che non c’è soluzione di continuità tra la violenza dei femminicidi e quella dei terroristi. E’ la stessa violenza, è lo stesso corpo femminile. Il paradigma della violenza domestica è applicabile a quello che capita alle donne in guerra: la differenza è che nella guerra la violenza sessista è più grande, confusa, mascherata. La violenza sulle donne non è un prodotto collaterale o un incidente di percorso: è tra gli obiettivi”.

Un obiettivo perché?

“Perché un uomo assapora pienamente il potere quando sente di avere un controllo assoluto del corpo e del pensiero femminile”.

Perché ne parliamo così poco?

“Perché non c’è pensiero, non si sa bene che cosa dire. Si tratta invece di voler vedere, e per vedere devi avere una chiave che funzioni, gli occhiali giusti. La mia chiave è questa, ciò che so sulla violenza domestica. Tu mi sta costringendo a vedere: io ho questi occhiali per vedere. Dobbiamo produrre un simbolico a partire dal pensiero di cui già disponiamo”.

A volte mi pare che ci comportiamo come quei bravi cittadini tedeschi che abitavano a cento metri dai campi di Auschwitz o Dachau ma non si accorgevano di nulla.

“Viviamo a poche ore d’aereo da quelle donne, ma siamo intrappolate nella nostra afasia. E’ la stessa afasia di certe che arrivano da noi e non riescono nemmeno a dire quello che hanno subìto. E allora si esprimono disegnando, trovano un altro modo, un altro simbolico. Mi ricordo una ragazzina che davanti a sua madre ci fece capire che cosa le capitava quando lei usciva a fare la spesa. Non posso dimenticare la faccia di quella madre, quando si è resa conto”.

 

 

 

femminicidio, questione maschile Giugno 26, 2014

A chi i fondi per la lotta anti-violenza?

Il 10 luglio a Roma-i dettagli in coda al post- i Centri antiviolenza e le Case delle Donne associate in D.i.Re manifesteranno contro i criteri di stanziamento dei fondi governativi contro la violenza e il femminicidio.

A seguire tutte le info sulla vicenda.

 

Stamattina la rete dei Centri antiviolenza e delle Case delle donne della Lombardia (16 in tutto) ha animato un affollato incontro al Pirellone per illustrare pratica e metodologia condivise dell’intervento.

Ma anche per confrontarsi sulla questione dei finanziamenti ad hoc previsti dal decreto Femminicidio e dalla legge di Stabilità. Ci vorrà ancora un mese perché lo stanziamento di 17 milioni sia effettivo: la Conferenza Stato-regioni sta ancora discutendo sui criteri di distribuzione. Quello che è certo, i soldi arriveranno alle Regioni, che a loro volta li faranno amministrare ai Comuni, titolati alla decisione finale sui centri destinatari.

Destano qualche preoccupazione le dichiarazioni dell’assessora regionale alle Pari Opportunità Paola Bulbarelli, già Pdl, che ha indicato come obiettivo 44 centri operativi entro l’anno, con relativi corsi di formazione.

Al momento, come dicevamo, i Centri e le Case sono 16: la prima è stata la Casa delle Donne maltrattate di Milano, fondata dalla pioniera Marisa Guarneri e da altre nella seconda metà degli anni Ottanta, quando quella della violenza appariva come una questione marginale. Il metodo di intervento messo a punto e lungamente sperimentato nella Casa di Milano è stato in seguito acquisito e praticato nella Case nate successivamente in Lombardia e su tutto il territorio nazionale (in Italia la rete si chiama D.i.Re e conta 62 centri)

Nel lavoro contro la violenza sessista la metodologia è tutto.

“E’ un metodo basato sulla relazione tra donne” ha chiarito Manuela Ulivi, Presidente della Casa delle Donne maltrattate di Milano “che stabilisce molto precisamente percorso e criteri dal momento delicatissimo dell’accoglienza, alla costruzione di un progetto non sulla donna ma con la donna, la quale resta la protagonista insostituibile del suo cammino di liberazione dalla violenza. E’ lei,  non le “esperte”, a stabilire i tempi del suo cammino, senza mai essere giudicata o eterodiretta. E’ lei ad attivare le sue risorse interiori, la sua forza e i suoi desideri, in un percorso condiviso con le altre che mettono a disposizione professionalità, esperienza ed empatia, ma soprattutto la voglia di condividere con la donna questo passaggio delicato della sua vita”.

Uno sportello anti-violenza, un “centro” messo in piedi in quattro e quattr’otto, che non nascano da questo desiderio e da questa esperienza ma da un atto burocratico o, peggio, dall’interesse a intercettare i fondi regionali o nazionali, non hanno niente a che vedere con queste realtà consolidate.

Negli ultimi anni è nato un vero e proprio business, molto italiano, e perfino uno showbitz dell’anti-violenza: esperti e centri improvvisati, corsi volanti di formazione, operazioni editoriali instant e di dubbia qualità, iniziative e spettacoli “d’emergenza”. Non è in questo modo che si contrastano violenza e femminicidio.

Che la Lombardia, come annunciato dall’assessora Bulbarelli, nel giro di pochi mesi conti di istituire un’altra trentina di centri individuati dai comuni come possibili destinatari delle risorse stanziate non è certamente una buona notizia, e fa temere il solito peggio.

 

Aggiornamento domenica 29 giugno:

Duro comunicato dei Centri antiviolenza e delle Case delle Donne
che ricevono solo le briciole dei finanziamenti governativi

 Ai centri antiviolenza solo le briciole dei finanziamenti stanziati:
e il resto dei fondi a chi?

Sei mila euro l’anno per due anni: è quanto il Governo intende assegnare a ognuno degli storici Centri antiviolenza e alle Case Rifugio che operano con efficacia da decenni e in regime di volontariato.
E’ in questa esperienza che si radicano il sapere e il metodo che consentono a tante donne di salvarsi la vita, e di ritrovare autonomia e libertà.
Ma quei soldi non basteranno nemmeno a pagare le bollette telefoniche.

A chi gran parte degli stanziamenti (circa 15 milioni di euro)?
Alle Regioni, che finanzieranno progetti sulla base di bandi: la scelta è quella di sostenere “centri” e sportelli istituiti last minute, oltre che di istituzionalizzare i percorsi di uscita dalla violenza delle donne.

Apprendiamo dalla stampa – il Sole 24 ORE del 27 giugno 2014 – le incredibili modalità di riparto dei fondi -17 milioni di euro- stanziati dalla L. 119/2013 detta contro il femminicidio per gli anni 2013/14.

Secondo una mappatura in base a criteri illeggibili, di questi 17 milioni ai 352 Centri Antiviolenza e Case Rifugio toccheranno solo 2.260.000 euro, circa 6.000 euro per ciascun centro.
Inoltre tutti i centri, pubblici e privati, saranno finanziati allo stesso modo, senza tenere conto del fatto che diversamente dai privati i centri pubblici hanno sedi, utenze e personale già pagati.

Questa scelta del Governo contravviene in modo netto alla Convenzione di Istanbul per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, che l’Italia ha ratificato e che entrerà in vigore il prossimo 1° agosto, la quale prevede siano destinate “ adeguate risorse finanziarie e umane per la corretta applicazione delle politiche integrate, misure e programmi per prevenire e combattere tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione, incluse quelle svolte da organizzazioni non governative e dalla società civile” (Articolo 8)
Nella Convenzione si privilegia il lavoro dei centri di donne indipendenti, mentre il Governo Italiano sceglie di destinare la maggior parte dei finanziamenti alle reti di carattere istituzionale.

L’idea e’ che la politica non intenda rinunciare a ‘intercettare’ quei fondi, e che si proponga di controllare e ridurre allo stremo i Centri antiviolenza indipendenti, gia’ operativi da molti anni e associati nella rete nazionale D.i.Re (Donne in Rete Contro la Violenza).

Denunciamo questo modo di procedere.

Il Governo non ha sino ad oggi neppure formulato un Piano Nazionale Antiviolenza, e si presenta in Europa senza avere intrapreso un confronto politico serio con tutte coloro che lavorano da oltre 20 anni sul territorio, offrendo politiche e servizi di qualità per prevenire e contrastare il fenomeno della violenza sulle donne.

Roma, 28 giugno 2014
Di.Re Donne in Rete contro la violenza
Casa Internazionale delle Donne – Via della Lungara, 19 – 00165 Roma, Italia, Cell 3927200580 – Tel 06 68892502 Fax 06 3244992 – Email direcontrolaviolenza@women.it; www.direcontrolaviolenza.it

 

Aggiornamento 3 luglio: e ora non c’è più nemmeno l’arresto preventivo per maltrattanti e stalker.

Aggiornamento 4 luglio: il 10 luglio a Roma manifestazione dei centri antiviolenza

 

 

 

 

Donne e Uomini, femminicidio, questione maschile Settembre 2, 2013

Forti contro i violenti: il diritto di reagire

Un giorno sento raccontare a Marisa Guarneri, presidente onoraria della Casa delle donne maltrattate di Milano, del caso paradossale di una donna che veniva malmenata dal marito in carrozzella: pur essendo fisicamente più valida, e quindi perfettamente in grado di difendersi dal suo aguzzino, non attivava la sua forza e stava lì a prenderle.

Poi, l’altro giorno leggo del presidente del Consiglio centrale islamico, Nicolas Blancho, un convertito all’Islam che nel corso di un dibattito politico alla tv svizzera DRS ha sostenuto che “picchiare una donna fa parte dei diritti dell’uomo” e ancora che  “picchiare le donne fa parte della libertà religiosa“. “Non devo fornire nessuna giustificazione” ha replicato i suoi interlocutori, che avevano reagito vivacemente perché non ho commesso nessun reato. Ognuno è libero di credere a quello che vuole, purché rispetti la legge”.

Riporto la vicenda su Facebook, con la frase: “perché non muori subito?”.

Tra i molti consensi, alcuni commenti esprimono rammarico per la mia uscita, fra cui questo: “Io ti seguo da lungo tempo, e scrivi delle ottime cose – non condivido alcuni aspetti delle tue riflessioni, ma gli obiettivi credo siano comuni. Non trovo nessuna ragione con la quale giustificare una antisessista e una femminista che augura la morte ad una persona che SENZA SE E SENZA MA dice una cosa inaccettabile… La società per cui tu ed io ci battiamo non è una società in cui le donne vivono libere e chi dice una cosa gravissima come questa viene ucciso. Sbaglio?”.

Io in verità non affatto ho invocato la pena di morte per questo orribile individuo, mi sono solo appellata a una giustizia cosmica. Inoltre il fatto che sia un’autorità dell’Islam per me non ha alcun significato: è un uomo perverso e violento, alle cui affermazioni ho sentito di reagire esprimendo il mio intenso desiderio che sparisca immediatamente dalla faccia della terra. Lui e quelli come lui.

Marisa Guarneri dice che ha sentito molte donne maltrattate esprimere questo desiderio:

“Perché lui non muore?”. Come a dire: così risolviamo tutti i problemi. Ma è raro che le reazioni vadano al di là delle esternazioni rabbiose. Quasi sempre le donne si lasciano maltrattare senza trovare e nemmeno cercare la forza per reagire. Come se avessero paura di passare dalla parte del torto, perché il mondo si aspetta da loro non violenza, mitezza, comprensione… E invece la reazione immediata a un primo maltrattamento potrebbe interrompere subito la catena di violenze”.

Che cosa intendi per “reazione”?

“Intendo che è come se le donne mancassero di una competenza rispetto al difendersi. E’ un tabù profondissimo e millenario, che le paralizza fisicamente e psichicamente e impedisce loro di reagire alla violenza. Via via si instaura un circolo vizioso: la donna maltrattata si debilita psichicamente e fisicamente, e la forza la perde del tutto”.

Non mi hai detto che cosa intendi per “reazione”…

“Anzitutto la sottrazione di sé. Non stare lì a prenderle. Andarsene. O esigere che non girino armi per casa. E comunque tenere conto del fatto che è pur sempre prevista la reazione per legittima difesa”.

Se tu aggredisci un animale, lui si difende, lotta, reagisce. Noi non ci consentiamo nemmeno il pensiero di farlo.

“Per prevenzione della violenza si intende andare a parlare nelle scuole. Attività utilissima, ma è prevenzione anche attrezzare psicologicamente le donne a un’autodifesa efficace. Perché si tratta anzitutto di rompere un tabù interiore, di disinnescare un freno a mano millenario che ti impedisce anche solo di pensare a una reazione. Anche per me non è facile parlarne. Ma è necessario entrare nel merito”.

Forse il tabù si incrinerebbe se provassimo a confrontarci sulle nostre fantasie reattive con un lavoro di autocoscienza. Ti dico le mie, un po’ “Kill Bill”: bande di “angels” che aspettano sotto casa il violento; armi paralizzanti distribuite alle donne a rischio, che mettano ko l’abusante per il tempo necessario…

“Quello che è certo, è importante parlarne, prima in ambito protetto e poi pubblicamente. Questo tabù –non sapersi difendere, non saper attivare tutta la forza necessaria- va fatto fuori”.

P.S.: un amico, sempre su Fb, interviene nel dibattito ricordando una dura riflessione di Hannah Arendt, suppongo tratta da “La banalità del male”: “E come tu hai appoggiato e messo in pratica una politica il cui senso era di non coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico e con varie altre razze (quasi che tu e i tuoi superiori aveste il diritto di stabilire chi deve e chi non deve abitare la terra), noi riteniamo che nessuno, cioè nessun essere umano desideri coabitare con te. Per questo, e solo per questo, tu devi essere impiccato“. “Questo scriveva Arendt su Adolf Eichmann, dice l’amico, e per quanto mi riguarda dal punto di vista filosofico questo tizio è un Eichmann in sedicesimo che non ha ancora avuto occasione di fare vittime, ma la mentalità è quella”.

Come vedete, la discussione è assai complessa.

 

 

Donne e Uomini, Politica Maggio 10, 2012

Non farsi sbranare dalla violenza

La violenza cerca di fermare la libertà femminile. Il fatto che cresca la violenza significa anche che quella libertà sta crescendo molto di più. In alto i cuori, quindi.

Farsi sbranare dalla violenza non è solo nel fatto di soccombere fisicamente e spiritualmente a chi ci violenta, ma anche nel fatto di mettere tutte le energie nella lotta alla violenza e al femminicidio, che certo è UNA delle cose che vanno fatte, ma che non deve saturare le nostre agende politiche, costringerci a ridimensionare i nostri desideri, condurci a un’autovittimizzazione e a un’autosvalorizzazione.

Abbiamo detto tante volte che della violenza sulle donne oggi dovrebbero essere gli uomini a parlare, che noi ne abbiamo già detto di tutto e di più. Ma il backlash in corso, portato anche della crisi che stiamo attraversando, ci costringe a rimettere i nostri pensieri lì. Iniziative dappertutto, convegni, progetti che nascono in grande parte dal desiderio di fare, che sono espressione della politica prima. Ma c’è anche chi balza sulla tigre del tema mediaticamente rilevante per costruirsi o consolidare la sua carriera nella politica seconda.

Io mi affido con fiducia all’esperienza di donne come Marisa Guarneri che parla qui, per dire che grande parte del lavoro va fatto ben lontano dai riflettori, nella discrezione della relazione: lei mi dice che è questa la cosa che funziona, e io mi affido a lei. Mi piace l’idea dei camper che girano i quartieri, gestiti da donne opportunamente formate ma non da donne delle istituzioni, prima possibilità di rompere l’isolamento, rappresentazione di quel terzo che può irrompere nella relazione violenta. La violenza è nascosta è capillare, anche il lavoro sulla violenza deve essere almeno in parte nascosto e certamente capillare.

Le cose da fare allora sono due: chiedere continuità di finanziamento ai centri antiviolenza e prestare lì la propria opera, se vi è il desiderio di lavorare su questo. Meno soldi spesi in convegni, progetti e kermesse: ci sono già un grande sapere, una grande pratica che vanno nutriti e utilizzati.

L’altra cosa da fare è non farsi sbranare politicamente dalla violenza e tornare a mettere le energie in altre questioni, come il lavoro e la rappresentanza. Su quest’ultima insisto molto, perché finché non vi sarà un numero cospicuo di donne a stabilire le priorità delle agende politiche non avremo mezzi sufficienti per agire su questioni che interessano tanto a tutte le donne. Come il lavoro, appunto. E come la violenza.

Quest’anno dobbiamo dedicarci molto al tema della rappresentanza. Non facciamoci distrarre troppo da altro.

p.s.   Per ragioni misteriose non riesco a caricare immagini. Pazienza, oggi solo testo e niente immagini.

Donne e Uomini, Politica Maggio 1, 2012

Scampato femminicidio n. 55

valentina pitzalis di carbonia: nell'aprile 2011 il marito ha cercato di ucciderla con il fuoco

 

Ieri a Monza un uomo, lasciato dalla moglie per la sua violenza, ha puntato la pistola contro la donna per convincerla a tornare con lui. Poi l’ha puntata contro se stesso. Ma quando ha visto sua figlia quindicenne che piangeva, ha infilato la porta e se n’è andato senza sparare. I carabinieri l’hanno arrestato mentre vagava in stato confusionale.

Qui si vede bene quello che è: patriarcato in agonia. Il dispositivo del dominio che diventa inefficace a causa della libertà femminile. Che è come ritrovarsi senza baricentro, senza identità, senza scheletro. I maschi più fragili, i più poveri di spirito non sanno affrontare il passaggio di civiltà. Ma è anche la prova che il passaggio di civiltà sta avvenendo, che la civiltà del dominio di un sesso sull’altro sta finendo, ed è su questo grande orizzonte occorre tenere con fiducia gli occhi mentre si fa conta dei femminicidi, terribile colpo di coda del patriarcato morente.

Quello di Monza poteva essere il femminicidio n. 55, e non è stato. Mi piace pensare, anche se so benissimo che non è così, che quell’arma si è abbassata anche per ciò che è avvenuto, per la grande risposta da parte di donne e uomini di buona volontà all’appello di Se non ora quando, diffuso da noi blogger unite e ripreso da mezzo web.

Prendiamo quell’arma che si abbassa come un guadagno simbolico, come un segno di ciò che può e deve avvenire sempre più spesso. Come la comprensione da parte degli uomini che la strada dev’essere un’altra, quella del poter essere uomini rinunciando al dispositivo del dominio, assumendo la libertà femminile, avendo fiducia nel fatto che camminando fianco a fianco -l’embrione di quella che l’antropologa Riane Esler nel suo bellissimo saggio “Il Calice e la Spada” chiama nuova Civiltà Gilanica– c’è meno infelicità per tutti.

Le donne hanno già fatto tutto ciò che c’era da fare perché questo capitasse. Ora tocca agli uomini. Lo diciamo ormai da tanto tempo. Il più di quello che deve capitare sul fronte della violenza sessista, come tante volte abbiamo detto, oggi capiterà nella testa e nel cuore degli uomini. Teniamolo sempre ben presente, quando penseremo a nuove iniziative a progetti contro il femminicidio: oggi si tratta essenzialmente di un fra-uomini.

L’iniziativa di Se non ora quando segna una vigorosa ripresa di protagonismo politico da parte di questa complessa organizzazione, definendone meglio l’identità di rete in grado di catalizzare e valorizzare ciò che di vero e di meglio capita tra le donne, con un ottimo senso del tempo e dell’opportunità (kairòs).

Anche se qualche problema si è visto, e vale la pena di tenerlo presente: a fronte di un’adesione massiccia, immediata e di slancio, alcune hanno ritenuto di dover chiosare, puntualizzare, analizzare, eccepire, o addirittura tristemente affondare il comitato centrale Comencini&Co (che) approfitta della vicenda di Vanessa e dell’onda emozionale che questo suscita per infilare qualche rigo sul 13 febbraio (tutto oramai viene diviso in Avanti13feb e Dopo13Feb), giusto per attribuirsi la nascita delle lotte contro la violenza sulle donne”. 

Tutto, naturalmente, può essere discusso, e tutto può venire meglio. Ed è certo che sul tema del femminicidio siamo stramobilitate in molte e da molti anni -anche in questo blog ne abbiamo parlato tantissimo- in particolare quelle, come Marisa Guarneri a Milano, Elvira Reale a Napoli e decine di altre, oscurate dai media e praticamente senza aiuti, che stanno in prima linea nel sostegno alle donne maltrattate. Ma, mi dico, se nemmeno su una questione “blindata” come la violenza e il femminicidio le ansie di protagonismo si placano per convergere senza esitazioni in una strategia condivisa, che cosa capiterà su temi che predispongono naturalmente al conflitto, come quello della rappresentanza?

Come molt* sanno, anche sulla rappresentanza c’è molto lavoro in atto: almeno su un fatto, il 50/50 –che ora piace pure a Hollande!- siamo tutte d’accordo. Ma prova ad azzardare un’ipotesi sul “chi”, e si scatena l’inferno dei veti incrociati. Appena una mostra di avere le caratteristiche auspicabili -desiderio, capacità politiche, quel minimo di visibilità- per una candidatura, parte la sparatoria e la guerriglia. Ma queste 50 da contrapporre ai 50 da quelche parte andranno pur trovate, io credo. A meno che, quando sarà il momento, non le importiamo dall’estero.

E ora, per aver detto questo, vado a infilarmi il giubbotto antiproiettile.

Buon Primo Maggio.

p.s. Nella foto, Valentina Pitzalis, di Carbonia. Nell’aprile del 2011 il marito l’ha cosparsa di kerosene e ha appiccato il fuoco, incapace di accettare la separazione. Valentina è molto forte, e lotta per ricominciare a vivere. Ha bisogno di cure costose e di amicizia. Contattatela sulla sua pagina Facebook.

Donne e Uomini, esperienze, Politica Marzo 27, 2012

La trappola della violenza

Grande ripresa di dibattito sul tema della violenza sessista e del femminicidio -oggi un ampio editoriale di Adriano Sofri su Repubblica-.

Giusto, perché il fenomeno è in crescita esponenziale. Come per contagio. Come se ogni caso riportato dalle cronache fosse fonte di ispirazione per altri maledetti assassini, tanto che si ha perfino paura a parlarne.

La novità è che finalmente il femminicidio -punta dell’iceberg della questione maschile– è assunta da uomini che ne discutono pubblicamente. La fase dei pionieri che si avventuravano autocoscienzialmente in questo territorio è finalmente finita. Dobbiamo essere grate a uomini come Stefano Ciccone, Marco Deriu, Alberto Leiss e altri per avere rotto il muro di silenzio.

Ne parliamo moltissimo anche noi donne, con ripresa di iniziativa: domani, per esempio, a Milano, Libreria delle Donne, via Pietro Calvi 29, ore 18.30, Marisa Guarneri e Manuela Ulivi della Casa delle donne Maltrattate discuteranno di Pratica politica e accoglienza.

Cosa buona, con un grosso rischio. Che questo tema, sentitissimo e urgentissimo -alla violenza palese corrisponde un enorme sommerso che le cronache non registrano ma che distrugge la vita di moltissime donne- si “mangi” tutte le nostre energie, in un momento in cui dovremo riservarne molte ad altre questioni. Prima fra tutte, quella di non permettere più che il nostro Paese continui a essere governato solo da uomini, che queste quote consuetudinarie e non scritte, tra l’85 e il 100 per cento a favore di un solo sesso, continuino a sbarrarci la strada (c’è anche un altro rischio, più sottile: che parlare di noi stesse come vittime di violenza sia dis-empowering, ci indebolisca e ci induca a ridurre le pretese, accontentandoci di un minimo vitale).

Non mancano decisi segnali di cambiamento: ho visto che la lista Marco Doria, candidato sindaco del centrosinistra a Genova, conta 23 donne su 32 candidati. Per questo mi complimento con lui e lo abbraccio. Ma se per le amministrative qualche breccia si apre, sulle politiche del 2013 c’è molto da lavorare perché nulla sarà regalato, e ci sarà da interloquire con la vecchia politica misogina.

Nessuno dei temi all’attenzione delle donne, dalla violenza all’organizzazione della vita e del lavoro, si avvierà a soluzione finché le agende politiche saranno decise da una stragrande maggioranza di uomini. Ai quali fa anche comodo che ci leviamo di torno e torniamo a parlare di violenza e mentre loro, tanto per dirne una, sembrano aver perfino chiuso la pratica della legge elettorale da riformare.

Attenzione alle trappole, amiche.

 

 

Donne e Uomini, media, Politica Marzo 18, 2012

Mattanza senza fine: aspettando la prossima vittima (che nel frattempo è arrivata)

mirko, 2 anni, figlio di daniela sulas, ucciso dal compagno della madre

L’ultima poche ore fa a Caselle Torinese, soffocata con un cuscino dal marito.

La penultima, Daniela Sulas -lei non è morta, è morto il suo bambino di 2 anni, Mirko, ucciso per punizione dal suo compagno Igor Garau, che poi si è suicidato- un paio di giorni fa in Sardegna: molti organi di stampa hanno titolato “raptus di gelosia”.

La prossima vittima la stiamo aspettando, nell’assoluta impotenza.

All’escalation insopportabile di femminicidi -questo 2012 si prospetta da record– fa da contrappunto l’insensibilità dei media degli uomini che si limitano a registrare i casi di cronaca, 1+1+1, senza dismettere quel vocabolario -delitto passionale, raptus di follia, dramma della gelosia- che ormai si presenta come un vero e proprio apparato ideologico con la funzione di contenere l’allarme, ostacolando una lettura appropriata della mattanza –colpo di coda del patriarcato– e la formazione di una coscienza individuale e sociale.

E la colpevole indifferenza della politica degli uomini, che non pone in atto alcuna strategia di prevenzione.

Se i giornali e la tv fossero anche delle donne, se la politica fosse anche delle donne, le cose andrebbero diversamente.

Vi ripropongo qui un mio editoriale pubblicato sull’ultimo numero di “Comunicare il sociale”, allegato al “Corriere del Mezzogiorno”.

 

Una + una + una… in un anno fa 127.

127 donne italiane uccise, una ogni 2 giorni, da mariti, fidanzati o ex, da fratelli o padri.

127 delitti scelleratamente definiti “passionali”-non era meglio quando si parlava senza infingimenti di delitti d’onore?- e “notiziati” in ordine sparso nelle cronache.

Bisognerebbe metterli tutti insieme, comporre idealmente un paginone di quotidiano con i volti di tutte queste donne per raccontare il femminicidio per quello che è: una gravissima questione sociale e politica che il nostro Paese non sta affrontando in modo adeguato, emergenza di un’enorme violenza diffusa, variegata e sottaciuta che colpisce una donna su 3.

Quel pochissimo che stiamo facendo, e che Rashida Manjoo, inviata dell’Onu è venuta recentemente a indagare, non sta affatto funzionando.

Siamo capaci di riconoscere l’esistenza del razzismo, perfino quella dello specismo, ma il sessismo resta un tabù.

Stefania Noce, ammazzata da un fidanzato che “l’amava più della sua stessa vita”, è diventata un simbolo.

Non solo perché era conosciuta come giovane femminista di “Se non ora quando”, ma soprattutto perché la sua storia dimostra che la consapevolezza non basta a salvarti la vita.

E’ solo la consapevolezza degli uomini che può salvarci la vita. E’ solo l’assunzione da parte loro della violenza sulle donne come questione maschile.

Dice Marisa Guarneri, presidente della Casa delle donne maltrattate di Milano –uno degli storici centri antiviolenza che da anni non ricevono più finanziamenti- che “ci vogliono uomini che controllino gli uomini”, intendendo forze dell’ordine che fermino gli stalker, assassini annunciati.

Ma ci vogliono anche uomini, tanti, che sappiano dire “I care”, che non voltino più la faccia dall’altra parte, disposti ad assumere il problema e a riconoscere che la violenza non può più essere letta come la patologia di alcuni.  

E se è vero che il disagio di cui le donne subiscono le terribili conseguenze è maschile, è su questo disagio che si deve lavorare.

Anche il lavoro di prevenzione va ri-orientato sugli uomini e fra-uomini”. 

Donne e Uomini, esperienze Gennaio 25, 2012

Una fiaccola per Stefania Noce

Stefania e il suo assassino

Pensando a Stefania Noce, e alla fiaccolata contro la violenza di stasera in tantissime città italiane, vi ripropongo alcune riflessioni su questi temi che ho proposto a un convegno organizzato dall’Ordine degli avvocati di Milano alcuni mesi fa. In un certo senso questa è la mia fiaccola… Stasera a Milano, in piazza Mercanti, ore 18.30, ne accenderò un’altra.

 

…. C’è una violenza sommersa sulle donne, quella che non arriva nelle questure e nei pronti soccorsi perché non lascia segni fisici apparenti. E’ molto impressionante leggere che in un solo anno in Italia il 73 per cento delle donne tra i 16 e i 70 anni è stato afferrato e strattonato dal partner, il 43 per cento minacciato fisicamente, il 20.6 per cento preso a pugni o calci. Il più della violenza che le donne subiscono sta qui, è diffusissima, e tace.

Questa roba non arriva dai carabinieri o nei pronti soccorsi. Questa roba finisce direttamente nel corpo delle donne, e quasi sempre resta lì. Anche quello che potrebbe sembrare molto meno di questo, la violenza psicologica, gli insulti, i soprusi morali, l’intimidazione, la mancanza di rispetto, la paura, finiscono nel corpo della donna e diventano ansia, depressione, disturbi psicosomatici con particolare riferimento, mi dicono gli addetti ai lavori, ai disturbi gastrointestinali.

Ecco, pensando che più o meno tutte le donne vanno dal medico di base, sarebbe molto importante che i medici di base fossero preparati a decodificare questi segni di sofferenza in una logica di esternalizzazione simile a quella del mobbing: capire se c’è qualcosa che non sta funzionando nelle relazioni di una donna, non chiudere subito la pratica con psicofarmaci o antiulcera, perché in questo modo si finisce inconsapevolmente per continuare il lavoro dell’aguzzino.

Vi confesso un certo disagio a parlare di violenza sulle donne. Posso immaginare come si sentono le donne che si occupano professionalmente di violenza, le mediche, le avvocate, le volontarie, come l’amica Marisa Guarneri che da moltissimi anni, senza alcun sostegno pubblico, gestisce con grande competenza la Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano, e a cui a nome di tutte voglio esprimere particolare gratitudine.

Essere crocifisse a occuparsi di queste cose, una donna uccisa ogni tre giorni da un marito, fidanzato, padre, somiglia un po’ alla vittimizzazione secondaria. Le donne subiscono violenza, e la devono anche spiegare. E voi capite che dallo spiegare al doversi giustificare il passo è breve. Si rischia di scivolare verso una cosa tipo: che cosa fanno, o che cosa non fanno le donne, per essere molestate, violentate, uccise? Qual è la loro responsabilità in questo?

Ora, come mia responsabilità io sento quella di spostare radicalmente l’asse del discorso. Per un certo tempo il fatto che le donne si siano occupate della violenza che subivano dagli uomini ha avuto senz’altro il suo senso, e in buona parte ne ha ancora: il senso è stato quello di portare alla luce l’orrore, valutarne le dimensioni, fare le leggi, perseguirlo e punirlo –cosa che, purtroppo, come si vede non è bastata a fermarlo-. Ma questo lavoro ormai è arrivato alle corde. Noi donne –violentate, molestate e semplici osservatrici-narratrici- abbiamo detto al riguardo pressoché tutto quello che c’era da dire.

La parola, a questo punto, andrebbe senz’altro passata ai violenti. Sarebbero loro a doverci raccontare, spiegare, motivare. La violenza sulle donne è un problema degli uomini, non delle donne. Anche questo è un modo per liberare le donne dalla violenza: riconoscere che la questione non è loro, ma è maschile. In caso contrario, il ragionamento che ci sta sotto è questo: c’è qualcosa di fatale, immodificabile, una specie di dato di natura, che è la violenza degli uomini. E’ un fatto che non si discute. Poi ci sono le donne, che devono stare attente a non finirci dentro, girare al largo da questa cosa, diventare astute, organizzarsi, fare in modo che la cosa non capiti loro, e se disgraziatamente gli capita, devono trovare i modi per uscirne, per superare il trauma, aiutarsi fra loro, avere degli esperti che diano loro una mano, e così via.

Non ci verrebbe mai da chiedere a un tizio aggredito per strada di analizzare e motivare l’aggressione che ha subito. C’è qualcosa di storto nel fatto di chiedere alle donne di spiegare qualcosa di cui sono vittime e di rimediarvi. Sono gli uomini che dovrebbero dire, raccontare, scandagliare, aiutarci a capire. Quando dico questo, la risposta più frequente è: ma io non ho mai stuprato, non ho mai picchiato nessuna. Vero. Non tutti gli uomini sono stupratori e violenti con le donne. Ma tutti gli stupri –o quasi- sono maschili. Si tratta di una faccenda che riguarda i maschi e la loro sessualità, e che in qualche modo prescinde dalle donne. Ha detto uno stupratore alla psicoanalista Marina Valcarenghi “il desiderio non era la donna, la donna non c’entra, ma lo stupro in sé… la donna c’entra perché nei fatti è una vittima, ma in quel momento il desiderio di stupro… non so come dire, è self made”.

Quella della violenza è una questione che ha a che fare con il dominio di un sesso sull’altro, e con il patriarcato morente. Bisogna guardare in faccia questa cosa e assumerla. C’è una psicoanalista che si chiama Julia Kristeva, la quale dice che quando una civiltà muore non ride nessuno: né quelli che in questa civiltà stavano dalla parte dei dominatori, né quelli che stavano dalla parte dei dominati. Quella donna fatta fuori ogni tre giorni nel nostro paese, ma anche le donne che subiscono violenza in paesi che riteniamo ben più civili del nostro, visti in una logica paritaria, come per esempio la Svezia –pensate alla trilogia di Larrson– sono lì proprio a raccontarci questa storia. Il patriarcato è finito. Non ridono i dominatori spodestati, ma non ridono nemmeno le donne, che subiscono i colpi di coda, il cosiddetto contrattacco, come l’ha chiamato l’americana Susan Faludi.

Quando dico che il problema è degli uomini, che nessuno meglio di loro conosce il mistero della sessualità maschile e di fronte a questo io non posso che osservare, fare un passo indietro e ascoltare quello che gli uomini hanno da dire, da parte degli uomini registro grossomodo tre tipi di reazioni negli uomini: la prima, diciamo così alla Larrson, decisamente minoritaria, che ammette che la violenza sulle donne è una questione che riguarda gli uomini, anche i non-stupratori, che non basta il fatto di non stuprare personalmente per lavarsene le mani. Ora, pare che Larrson da ragazzo abbia assistito senza intervenire a uno stupro messo in atto da alcuni amici. Non ha partecipato, quindi, ma non ha nemmeno fatto nulla per impedirlo. E sembra che questa esperienza sia stata decisiva per la sua vita e nella scelta dei temi di cui Larrson si è occupato nella sua fortunatissima trilogia. Un passaggio all’I care, me ne occupo, mi riguarda, che lui ha espresso letterariamente. E quindi un’assunzione intima, non esteriore, dolorosa. Ci sono uomini che sentono di essere, diciamo così, portatori sani di questa patologia di dominio che si esprime nello stupro, che poi altro non è che un’uccisione simbolica, o nell’uccisione reale, che sanno convivere con questa contraddizione tutta interna al proprio sesso, e che hanno cominciato a rifletterci. Pochi, ma ci sono.

Poi c’è la reazione silenziosamente maggioritaria: io non voglio parlare della violenza sulle donne perché non le stupro e non le picchio, quelli che lo fanno sono pochi pazzi malati, bestie, è un problema loro. La cosa li imbarazza, forse segretamente li addolora, ma questa reazione si esprime nel generale silenzio maschile sulla questione, nel voltare la faccia dall’altra parte, nell’evitare di parlarne e discuterne. Un silenzio imbarazzato che, io credo, esprime la consapevolezza che invece su queste cose ci sarebbe molto da dire e da fare.

Infine c’è una terza posizione, anch’essa minoritaria ma pericolosamente in crescita che è quella che ho definito “negazionismo”, in analogia con i negazionisti della Shoah: uomini che negano anche fatti acclarati, l’esistenza di un patriarcato con le sue logiche di dominio, e che sminuiscono la portata degli episodi violenti. Uomini organizzati in reti e blog, molto presenti onlin

Tu puoi anche provare a discutere con un negazionista –io l’ho fatto, accanitamente-, portargli dati, statistiche, evidenze storiche, prove documentali. Niente. La sopraffazione maschile non è mai esistita. Il fatto è che stanno militando, è un’ideologia, e contro le ideologie la ragion non vale. C’è anche di peggio, volendo. Tipi assurdi che caricano su Youtube i loro comizi contro il c.d. nazifemminismo.

Questa posizione è molto interessante perché dice almeno due cose: la prima, è che la violenza che si vorrebbe negare o minimizzare è invece assunta come un dato di natura, quindi viene paradossalmente ammessa come qualcosa che fa parte della sessualità maschile, intesa come immodificabile; la seconda cosa che dice è bene espressa dalla rabbia con cui i negazionisti scrivono e parlano, come per volersi liberare da questa cosa, come uno strappo, un non saper convivere con questo aspetto odioso della propria natura.

La soluzione del problema ma la riduzione del danno si otterrà solo parallelamente a una ridefinizione dell’identità maschile, della sessualità maschile, della cosiddetta virilità, fuori da una logica di dominio. Ci arriveremo solo quando a questo mondo si potrà essere pienamente un uomo senza dover puntellare la propria identità sul dominio e sul controllo dell’altra. Quando un uomo troverà un altro scheletro capace di sorreggerlo efficacemente e onorevolmente.

E’ un lavoro immane che devono fare gli uomini, non possono farlo le donne al posto loro. Quello che io dico alle mie amiche è che finché gli uomini non avranno trovato il modo di salvare il loro onore, e uso proprio questa parola obsoleta e perfino un po’ oscena, ma qui abbiamo a che fare con delitti che si possono leggere anche come delitti d’onore, finché non avranno trovato il modo di salvare il loro onore pur avendo perso la loro posizione dominante, io credo che non ne usciremo. Ma come ti insegnano quelli che conducono trattative di mestiere, anche al tuo nemico più acerrimo devi permettere di salvare la faccia se vuoi un armistizio, o meglio ancora la pace. E credo che questo le donne, a loro volta spesso ancora intrappolate in una vendicatività rabbiosa, facciano fatica a capirlo.

Nel frattempo, nella pratica quotidiana concreta, che cosa si potrebbe fare? Che cosa significa spostare il baricentro verso gli uomini, nel lavoro quotidiano sulla violenza? Marisa Guarneri, della cui competenza mi fido moltissimo, dice che oggi c’è un gran lavoro da fare sullo stalking, inteso come omicidio annunciato. Dal momento in cui la donna denuncia le molestie e le persecuzioni a cui viene sottoposta dal suo aguzzino, poi non viene adeguatamente accompagnata, la situazione non viene costantemente controllata. Lei dice: “ci vogliono uomini che controllano gli uomini”, intesi qui come forze dell’ordine che esercitino il controllo necessario sullo stalker e sui suoi movimenti. Ma non a caso, mi pare, lei non parla in modo neutro della questione, ne fa una “cosa tra uomini”, dove c’è una precisa assunzione del fatto che la cosa si gioca tutta all’interno della sessualità e dell’identità maschile, e dei suoi codici.

Forse anche il concetto di cura va almeno parzialmente riorientato sugli uomini e al fra-uomini: se è vero che il disagio è maschile, mentre le donne lo subiscono, è su questo disagio che devono puntare le strategie di prevenzione. La donna non c’entra, come dice quello stupratore. Abbiamo visto che oggi la gran parte di questi delitti vengono concepiti da uomini abbandonati, incapaci di fare i conti con la novità storica del ripudio femminile, di elaborare il lutto di una separazione voluta unilateralmente dalla partner. C’è esperienza terapeutica su violentatori e assassini in carcere, pratica purtroppo non sufficientemente diffusa, da cui potrebbe prendere spunto un grande lavoro di prevenzione.

Non spetta a me indicare le modalità operative di questo intervento, ma per esempio mi vengono in mente dei centri di ascolto e di accompagnamento diffusi sul territorio, dove gli uomini possano mettere in comune la loro sofferenza in caso di abbandono, essere accompagnati nell’accettazione e nell’elaborazione di questo lutto, trovare in se stessi una risposta diversa dalla persecuzione fino all’uccisione della partner. Dei luoghi per un “tra uomini” in cui possa esserci scambio, relazione, condivisione, in cui queste faccende private possano essere messe in comune (molti uomini non hanno nessuno a cui confidare le loro pene più intime, non posseggono nemmeno un lessico a cui ricorrere, una rete di protezione amicale su cui confidare, e spesso devono ricorrere alla mediazione femminile).

Ci vorrebbero dei luoghi in cui gli uomini siano protagonisti sia del loro problema sia della possibile soluzione, dove ci siano uomini che si prendono cura degli uomini. Ecco, questo mi pare una possibilità da esplorare.

Ma il primo passaggio, anche qui, ineludibile, sarebbe quello di riconoscere come patologico il fatto di pensare a una donna, quindi a un altro essere umano, come a un oggetto da possedere ed eventualmente da distruggere, una cosa a cui non si riconosce una soggettività, ovvero la possibilità di desiderare autonomamente, che è la sorgente di ogni soggetto. La strada è quella dell’eradicazione definitiva di questo senso di possesso e di dominio dell’altra, che, legge o non legge, uno si sente titolato a esercitare, secondo un modello virile solo relativamente intaccato. Anche qui, quindi, non si può prescindere da una pratica intensa e profonda di sé, che le donne possono soltanto osservare, e rispettare”.

 

 

 

Donne e Uomini, Politica Giugno 6, 2011

CARO SINDACO GIULIANO

Caro Sindaco Giuliano -e anche cara città-,

con la composizione della squadra di governo si completa un percorso faticoso, entusiasmante e non privo di asperità e di conflitti -inevitabili, ma tutto sommato tenuti al minimo fisiologico- che ha richiesto quasi un anno di cammino: in prima fila i candidati alle primarie e poi il candidato sindaco, e dietro di loro un sacco di gente che il cambiamento l’ha fortissimamente voluto.

La città nuova in un certo senso c’è già. Cova nei desideri, e in quella che molte donne chiamano “politica prima” e che forse coincide con ciò che la sociologia definisce Big Society: un intreccio di relazioni alla base di un fare politico diretto nonostante le istituzioni e senza risorse pubbliche che per quasi un ventennio è stato tenuto lontano dal governo delle cose ma che ha comunque tenuto in piedi la città. Somiglia molto a quello che il femminismo ha saputo realizzare nell’ultimo mezzo secolo: senza risorse, senza rappresentanti elette, senza delegare a nessuno e anche senza violenza -quindi anche qui nonostante le istituzioni- le donne hanno cambiato faccia alla società e al paese.

Fare la giunta è prerogativa del sindaco, che deve poter mettere insieme la squadra in assoluta libertà, scegliendo gli interlocutori che ritiene. Non sarebbe strano se il dialogo con i partiti costituisse una parte significativa di questa interlocuzione. Ma solo una piccola parte di questa enorme ricchezza che abbiamo chiamato “politica prima” o Big Society ha occasione di passare dai partiti. Forse nemmeno quelle che chiamiamo associazioni possono rappresentarla adeguatamente. Il rischio è che pur avendo contato e contando così tanto, questa grande ricchezza resti sostanzialmente invisibile.

Le donne sono state e sono protagoniste di questa politica prima, strette in una rete di relazioni che ha “tenuto su” il tessuto civile, dalle mamme e maestre di via Rubattino che si sono fatte spontaneamente carico del destino dei piccoli rom sgomberati dal loro campo, alle libere pensatrici della Libreria delle donne, della Libera Università e di altri luoghi di pratica politica, a moltissime altre esperienze, note o microfisiche.

Caro Sindaco Giuliano, l’altro giorno come primo atto del tuo governo hai voluto aprire Palazzo Marino ai cittadini, per significare con un gesto simbolico che lì era la casa di tutti, e i cittadini si sono messi in fila accogliendo in migliaia il tuo invito. Tenere aperto questo passaggio tra il dentro e il fuori, tra la politica prima e la “politica seconda”, o politica della rappresentanza, potrebbe costituire la sfida più avvincente e più difficile, perché quel passaggio tende inerzialmente a chiudersi. Guardare, per la squadra che sta andando a comporre, e che vuoi per metà femminile, a donne della politica prima difficilmente rappresentabili dai partiti, potrebbe essere d’aiuto in questa direzione.

Donne, ad esempio -qui te ne “presenteremmo” alcune, anche se è verosimile che tu le conosca già- come Lucia Castellano, che dirige con umanità e grande competenza il carcere di Bollate; Marisa Guarneri, responsabile della Casa delle donne maltrattate di Milano, depositaria di una decennale esperienza sulla questione maschile della violenza sessuale e sui sex offender; Lorella Zanardo, il cui lavoro su Il corpo delle donne ha avviato un’amplissima discussione. E come Arianna Censi, donna di partito (Pd) ma in stretto e storico legame con le varie componenti del movimento delle donne di Milano, e solida di un’ottima esperienza amministrativa.

Certe che saprai intendere nel senso giusto questa “presentazione”, a cui potrebbe seguire, se lo riterrai, una feconda collaborazione politica.