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AMARE GLI ALTRI, diritti Luglio 8, 2015

L’eutanasia di Laura e la violenza del Pensiero Unico

E meno male, dico, che per un inconveniente tecnico il post su Laura, la ventiquattrenne belga che ha chiesto e ottenuto di morire con suicidio assistito, non ha potuto ricevere commenti. Ho avuto un fronte in meno su cui combattere. Per due giorni il bombardamento sui social network è stato feroce: sono stata accusata di ignorare la sofferenza della depressione, di sperare che la ragazza si togliesse la vita da sola e dolorosamente, di ergermi a giudice della sua scelta, di non farmi i fatti miei, di non essere politicamente corretta. Qualcuno (anzi, qualcuna) ha affermato che in una formazione progressista NON (ripeto: NON) ci dovrebbe essere libertà di coscienza sui temi eticamente sensibili: insomma, quello che capita normalmente in un regime. Qualcun’altra ha ridacchiato compiaciuta (“eh eh eh”) di fronte al mio sgomento per questi attacchi, come se in tutta questa vicenda ci fosse qualcosa da ridere. Mi è stato detto di non piagnucolare e di non fare la vittima. Tanti si sono scandalizzati per la colorita espressione “merda” (e non per il fatto che una ragazza di 24 anni sta per essere accompagnata a morire da uno Stato): il mondo alla rovescia. Altri hanno inteso che io dessi della merda alla ragazza. E poi molti, davvero molti, hanno condiviso la mia pena e il mio senso di rivolta per questa vicenda.

Anche il tema dell’eutanasia per i malati psichici -questione universalmente dibattuta e controversa: chi soffre psichicamente è dotato della lucidità necessaria a decidere di essere accompagnato a morire?- per tanti non può essere nemmeno posto in discussione (e invece perfino Gramellini osa discuterne).

Mi spaventa molto il non poter dire quello di cui si è intimamente convinti secondo coscienza, anche correndo il rischio di sbagliare: questo rischio c’è sempre e bisogna correrlo sempre per amore del mondo. La muraglia del pensiero unico non è mai stata tanto alta e insormontabile.

Sotto sotto la questione è una sola: quella dei diritti individuali. “Ognuno sta solo sul cuor della terra”, con il suo bravo armamentario di diritti. L’un contro l’altro armato di diritti anche astrusi: ne inventiamo di nuovi ogni giorno. L’individuo e i suoi diritti come atomo irriducibile. Parlando con alcune amiche, ieri notavamo che perfino Judith Butler, madre dellle gender theory e dell’individuo-a che fa di se stesso-a ciò che vuole, costruendosi a prescindere dalla sua realtà biologica, a un certo punto si è arresa arrivando a dichiarare “il corpo è mio e non è mio”. Ma qui, come ho già scritto qualche giorno fa, non l’ha ascoltata più nessuno. Butler intendeva dire che quell’uno armato di diritti è solo un’astrazione. Che fin da quando veniamo al mondo siamo in due: è il due della relazione,  l’atomo irriducibile. Che qualunque cosa decidiamo di noi stessi riguarda sempre anche qualcun altro. E’ uno dei postulati fondamentali del femminismo, la centralità della relazione: questo almeno si può dire?

C’è poi uno svarione storico, sul quale è bene fare chiarezza: quella dell’individuo armato di diritti è un principio del liberalismo, non del pensiero “di sinistra”. La sinistra ha sempre cercato altre soluzioni. Oggi si tende invece a porre la lotta in difesa dei diritti dell’individuo al centro dell’appartenenza a sinistra, oltre a confondere laicità e laicismo (per quanto mi concerne, se interessa, io sono laica e non laicista).

Sarebbe bene pensarci un po’ su. Se è permesso.

Aggiornamento 13 luglio: qui un interessante punto di vista psichiatrico.

 

a tutti suggerisco la lettura di questa allarmante inchiesta del New Yorker sull’eutanasia in Belgio : se poi ci fosse un santo che ha voglia di tradurre per chi non sa l’inglese

Corpo-anima, Donne e Uomini, questione maschile Luglio 28, 2012

“Non sempre ciò che vien dopo è progresso”

Titolo non mio, rubato ad Alessandro Manzoni. Ogni volta che vediamo la “Storia” tornare indietro la cosa ci appare come una sorta di tradimento. Come nel caso della rivoluzione khomeinista in Iran, per fare un esempio noto a tutti, inizialmente cantata da alcuni -non solo lì ma anche qui nel West- come superiore libertà (non stancarsi mai di leggere la splendida Marjane Satrapi: “Persepolis”, “Taglia e cuci”, “Pollo alle prugne”).

Nel cosiddetto “progresso” in realtà c’è sempre qualcosa che “va avanti” e qualcosa che “torna indietro”, se vogliamo metterla in questi termini. Il calcolo costi-benefici deve sempre essere molto attento.

Prevale invece un’idea stolida di progresso, inteso come staccarsi sempre di più dalla matrice, liberarsi dai vincoli costituiti dalla materialità dei corpi. Andare avanti sarebbe questo: procedere verticalmente, ascendere, via dalla carne verso un supposto spirito, intesi come separati.

Se tu, come nel caso dell’ultima discussione in questo blog, rallenti la corsa per fermarti a scrutare da vicino i fondamentali -per esempio il fatto difficilmente negabile che serve un utero per fare i figli, e che l’utero è una dotazione femminile-, allora non c’è dubbio, sei contro il progresso.

Se volessi davvero il progresso, allora aderiresti senza tentennamenti (anche solo il fatto di fermarsi a riflettere è sospetto) a tutto ciò che è reso possibile dalla scienza e dalla tecnologia (come se scienza e tecnologia fossero neutre e buone in sé), e quindi in particolare a ogni genere di manipolazione sul principio e sulla fine della vita.

Devi essere per forza a favore della donazione di gameti e dell’utero in affitto con sparizione del donatore (il bambino non può restare in relazione con la sua origine, così come sapientemente un tempo veniva tenuto in relazione con la balia che lo allattava, la relazione è tabù, l’individuo con i suoi “diritti” è tutto). Non devi avere dubbi sull’eutanasia, anche via disidratazione ed essiccamento del malato. Preferibilmente non devi avere nessun tipo di dubbio. Devi pensare maschi e femmine come uguali e perfettamente interscambiabili, senza tenere in alcun conto ciò che appare come differenza (il pensiero maschile, compreso Freud, si danna da millenni per riuscire a dire che cos’è una donna, quando la risposta l’avremmo sotto gli occhi: una donna è una che PUO’ essere madre, come dice Luisa Muraro). Devi affermare il “diritto ad avere un figlio” con chi vuoi, quando vuoi e come vuoi, anche se sei un maschio solo e di donne non ne vuoi sapere (“diritto” che nessuna etica e nessuna legge ha mai riconosciuto, né agli uomini né alle donne, non avendo alcun fondamento: leggere Mary Warnock, decana della bioetica, e in particolare Making Babies: Is There a Right To Have Children? testo del 2001). Siamo contro gli ogm e la riduzione della varietà delle specie viventi, ma per quello che riguarda i due sessi si deve militare per l’omologazione e la reductio ad unum, cioè al modello maschile, l’unico unum di cui disponiamo: il resto è l’eccentrico. Devi negare ogni statuto umano all’embrione, ed essere favorevole alla sperimentazione e al prelievo di cellule (e invece devi opporti a quell’orrore che è la sperimentazione su animali). E così via.

Se ti fermi a pensare, se ti arresti davanti a un dilemma, se prendi tempo, allora sei certamente antiprogressista, antimoderno, sessista. Sei un nemico da odiare e da abbattere. Sei perfino un po’ nazista: il dottor Mengele, come si sa, alle questioni etiche si dimostrò particolarmente sensibile.

Donne e Uomini, esperienze, Politica, TEMPI MODERNI Marzo 3, 2012

Famiglia senza

"Rocco e i suoi fratelli", dalla mostra "Famiglia all'italiana". A Milano, Palazzo Reale

 

Si è aperta questa settimana a Milano, Palazzo Reale, la mostra “Famiglia all’italiana”: la sua evoluzione raccontata dalla immagini del nostro cinema, da “I bambini ci guardano” di Vittorio De Sica, al neorealismo, fino a”Quando la notte” di Cristina Comencini.

Insomma: che cos’è la famiglia, in questo Paese?

Quando era una ragazzina mi avevano assicurato che era “schizofrenogena” (Ronald D. Laing), e io ci avevo fermamente creduto, praticando la mia fede. L’avevo anche studiato all’università, se non sbaglio. Chi ha la mia età sa di che cosa sto parlando.

Poi ho visto tanti amici, gente come me, che quatti-quatti una famiglia se la sono fatta. Disertori. Traditori. Codardi.

Si sono messi insieme, hanno fatto dei figli, si sono sposati –e per una buona metà hanno divorziato-.

Alla fine ho ceduto anch’io. Ho la mia famiglia. Tanta fatica, quella sì, ma schizofrenia al momento non mi pare.

Oggi le cose sono diverse. Ma resta in sottofondo l’idea che la famiglia, se non schizofrenogena, sia un residuo del passato, un istituto arcaico a cui ci si rassegna giusto per evitare di restare soli.

Che sia qualcosa di antimoderno, un freno al progresso e alla maturità civile.

E’ un senso che ho sentito vagamente risuonare anche nelle parole della ministra Anna Maria Cancellieri, quando ha invitato i giovani a staccarsi “da mamma e papà” e a fare i bagagli.

Come se quell’attaccamento fosse una remora, un impedimento alla crescita, il nucleo di un’italianità d’antan che non vuole cedere al luminoso West dell’Individuo.

Il mio unico figlio non lo vorrei a Shanghai o in India o chissà dove, e mi sento quasi una disfattista. 

Bisogna che sulla famiglia ci mettiamo d’accordo, perché semmai oggi sono le politiche – o meglio, le non politiche- sulla famiglia a essere schizofrenogene.

Si piange, ad esempio, sulla denatalità. Ma se ti azzardi a fare un bambino sei quasi una luddista, una vera incosciente,

e se possono –e possono sempre di più- ti cacciano dal posto di lavoro.

Quanto a sostegni, aiuti, servizi: zero. Ma se il welfare non esiste, ci dovrà pure essere qualcosa che fa da rete di protezione: una famiglia? che cosa dite? Il cane si morde la coda.

Nel frattempo il 65.4 per cento degli italiani pensa che la famiglia sia la nostra struttura fondamentale (rapporto Censis 2011). Si può dargli torto? In mancanza d’altro almeno quel punto fermo, alla portata di tutti.

Puoi anche metterci su in caso di necessità, una di quelle piccole o medie imprese così importanti per la nostra economia,   

A giugno il Papa sarà a Milano per il Forum mondiale delle famiglie.

Anche per i non-cattolici potrebbe essere l’occasione per una riflessione sul tema.

AMARE GLI ALTRI, Corpo-anima, Donne e Uomini Luglio 22, 2010

CERCANDO IL BELL’AMORE

marina abramovic e ulay, performance

marina abramovic e ulay, performance

La prima cosa che ho pensato, leggendo il discorso del Patriarca Angelo Scola ai veneziani per la bella festa del Redentore, è che il puro sesso è davvero un pessimo investimento. Sempre che esista un sesso in questo supposto stato di “purezza”: il nostro ambiente naturale è il simbolico; per noi, bizzarri animali, le cose, e perfino gli istinti, cominciano a essere solo dal momento in cui gli diamo un nome.
“Normati” e costretti per la vita, anche da vecchi, a rincorrere quel piacere momentaneo; un sacco di energie spese per allestire fuggevoli rendez-vous. Ma fin dai primi e provvisori bilanci esistenziali, ti rendi conto che è già un successo se di quelle circostanze roventi te ne ricordi un paio.
Un tempo il consumismo sessuale tentava solo l’umanità maschile. Gli si davano altri nomi –collezionismo, dongiovannismo– e forse, tutto sommato, qualcosa di sacro resisteva. Oggi il sesso è dappertutto, nella triste e diffusa provincia dei ragionieri scambisti e dei sabati al privé. Ma se il sesso è dappertutto, come dice Charles Melman, allievo di Lacan, vuole dire che non è più al centro. E questo è un guaio per la nostra identità.
Oggi anche l’umanità femminile si dà al raunch e alla caccia grossa, “liberata” nel corso della cosiddetta rivoluzione sessuale, storico imprinting dell’omologazione tra i sessi. E allora, ti dicono tanti ragazzi, meglio una bella partita di pallone, una sgambata in montagna, casomai una sbronza nel week-end. E tocca a un cardinale ricordarci che cos’è il desiderio, il godimento, il “bell’amore”.
Una sera a cena due di questi ragazzi, due ventenni fatti con il pennello e assediati da fanciulle con il piercing ombelicale, mi dicono che di tutto questo ne hanno abbastanza. Che vorrebbero qualcosa di diverso, qualcosa che duri, un’amica, una consolazione, una carezza, un progetto. Una con cui puoi parlare di tutto, perfino di figli, perché dicono di volerne due o anche tre, non come noi baby boomer che ci siamo sterilizzati in tutti i modi possibili. Ma dicono anche che “di ragazze così non se ne trovano”, consapevoli del fatto che se per loro sarà difficile trovare un posto fisso, figuriamoci un amore fisso. Poi non chiediamoci perché si sbronzino.
Il Patriarca vive nel celibato sacerdotale, ma la relazione, il legame, il matrimonio, il “caso serio dell’amore” sono da molto tempo al centro del suo magistero. In cerca di quella ragionevole felicità che si incontra solo quando si smette di credere nell’individuo irrelato, triste chimera che ci sta divorando e che oggi seduce più le donne, neofite dell’individualità, che gli uomini. Convinte di poter fare tutto da sole, lavoro, casa e anche figli, da tirare su senza l’ingombro di un padre, tendono a diventare loro stesse la copia conforme di quegli uomini da cui si tengono accuratamente lontane. Il rischio dunque è che l’esito di quella millenaria “perversione” dei rapporti tra i sessi (giudizio inequivoco di Joseph Ratzinger) che è stato il dominio dell’uomo sulla donna, sia una perversione ben più subdola e sottile, una nuova e più perfetta forma di dominio: l’asservimento delle donne al modo maschile di concepire la sessualità, le relazioni, il lavoro, il mondo.
Il concetto di emancipazione trattiene in sé e ipostatizza l’idea della schiavitù.
La donna ha sempre tenuto il posto dell’altro, e gli ha sempre fatto spazio in sé. Ma se anche lei si scorda vendicativamente di questo, se non vuole più essere l’Altra ed elimina l’Altro dalla sua strada, se non è più lì a testimoniare con il suo corpo schiuso quella radicale apertura che è il soggetto umano, inestricabile dal suo oggetto (certa psicoanalisi è giunta a parlare di oggetti-sé), quel dinamismo spirituale che nell’esperienza della maternità diventa carne, chi lo farà al suo posto suo?
Viviamo in un affascinante tempo di lotta tra l’epica dell’individuo e il “bell’amore” di cui ci parla Scola, quella relazionalità che ci segna fin nella nostra fisiologia più minuta, e che neuroscienze e scienza sociale, da Giacomo Rizzolatti a Jeremy Rifkin, classificano come empatia. In questa lotta la questione della differenza sessuale e del rapporto con il nostro primo altro -l’uomo per la donna, e la donna per l’uomo- è un passaggio decisivo. Oggi il lavoro grosso tocca agli uomini, che devono abdicare dall’assoluto e riconoscersi come differenza, alla ricerca di un’identità maschile che rinunci al dominio; ma anche per le donne c’è molto da fare. Prima di tutto riscoprire che “la maternità è il viaggio”, come diceva Carla Lonzi, geniale pioniera di quel femminismo della differenza che il Patriarca mostra di conoscere bene.
Molte parti del suo bel discorso per il Redentore si prestano a essere lette in chiave di appello a un femminile minacciato di estinzione, che lui vede incarnato soprattutto nell’avventura di Maria, a cui ha dedicato il suo ultimo libro. Anche là dove parla del consumismo sessuale, di quella “smania del tutto e subito” radicata nella paura della morte. Il paradosso è questo: che per sfuggire alla morte ci manteniamo al suo cospetto per tutto il tempo. Che per paura di morire anticipiamo la morte scegliendo la solitudine, e mandiamo a morte le relazioni, o meglio non le facciamo neanche nascere, e non facciamo nascere più nulla. Ma questo tenersi lontani dalla nascita, categoria cara ad Hannah Arendt (e lontani dalla rinascita cristiana, mediante la Resurrezione, in una vita non più minacciata dalla morte), non può forse essere letto come eccesso di maschilità del mondo?
Scola conclude parlando di castità, e riconducendo il termine al suo significato originario, che non è quello di privazione, ma vuole semplicemente dire “tenere pulito, in ordine”, attività che le donne hanno sempre praticato con pazienza meticolosa. Il senso di questa misura e di questa regola ce lo portiamo misteriosamente dentro, come un’impronta indelebile. Perfino certi sesso-dipendenti, tipo David Kepesh e altri disperati protagonisti dei romanzi dello spiritualissimo Philip Roth, con il loro disordine compulsivo non fanno altro che testimoniare la struggente mancanza del “bell’amore”, agitandosi intorno al vuoto scavato dalla mancanza di Dio.

pubblicato su Il Foglio il 21 luglio 2010