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immigrazione

AMARE GLI ALTRI Giugno 10, 2015

Una proposta per la sicurezza: il “controllo di vicinato”

 

La sicurezza è destinata a diventare un tema cardine in tutte le prossime scadenze elettorali. Nessuna forza politica potrà eludere la questione, che si tratti di fare fronte a un rischio realmente aumentato (in verità nel 2014 l’indice di delittuosità in Italia è diminuito del 14 per cento) o percepito come tale a causa una più generale insicurezza sociale, ovvero dalla mancanza di lavoro, dai tagli ai servizi, dal senso di abbandono, dalle difficoltà che si generano nella convivenza con lo “straniero” e così via.

Con il suo securitarismo storico la destra si presenta una narrazione già ben consolidata, proponendo soluzioni drastiche e spesso  semplificatorie che danno tuttavia l’idea di prendere il toro per le corna, senza sfumature “buonistiche”. Più complessa la questione a sinistra: nei suoi programmi il tema della sicurezza compare normalmente a latere, come non qualificante, e la propensione a problematizzare evitando scorciatoie populistiche rischia di essere letta come disattenzione, lassismo, sottovalutazione o indifferenza ai “problemi della gente”. A ciò si aggiunga la scelta di accoglienza nei confronti dei migranti, visti come “invasori” nonostante i numeri raccontino una realtà molto diversa: colpisce molto che perfino il democratico Felice Casson, in questi giorni al ballottaggio come candidato sindaco a Venezia, debba concedere agli umori popolari assicurando che la città non accoglierà altri profughi.

Gli enormi buchi di bilancio negli enti locali, causati da una gestione dissennata quando non truffaldina, si sono spesso tradotti in abbandono delle periferie: sporcizia, trascuratezza, le famose buche nell’asfalto, la latitanza delle forze dell’ordine, il fatto di dover reggere in esclusiva il peso innegabile dell’accoglienza e della convivenza con i poveri del mondo, quasi sempre concentrati nelle aree periferiche.

Trovare la strada è molto difficile. Potrebbe essere interessante valutare le esperienze di “controllo di vicinato” già attive in svariati comuni italiani e mutuate dal modello anglosassone del neighborhood watch: qui sono le stesse comunità a farsi carico della prevenzione e, più in generale, della qualità di vita nei propri quartieri, vigilando sia sui problemi ambientali, sia sui rischi per la sicurezza. Ben lontano dalla logica forcaiola delle “ronde” e del farsi giustizia da sé, il controllo di vicinato opera in stretto collegamento con le polizie locali con cui conferisce regolarmente, polizie a cui tocca in via esclusiva il compito della repressione: non si insegue né si arresta il ladro, ma si vigila con molti occhi sui movimenti sospetti che vengono prontamente segnalati alle forze dell’ordine. Periodicamente ci si incontra per fare il punto della situazione. Soprattutto -il buono è qui- si stringono relazioni di vicinato che rendono possibile un intervento positivo sul proprio territorio. Il tema della sicurezza e della difesa dal crimine può “secondarizzarsi”, diventando solo uno dei molti temi di intervento. Il “controllo di vicinato” può occuparsi di un albero pericolante, ma anche di piantarne di nuovi. Può richiedere la chiusura del campo rom, ma anche prendere iniziative per l’integrazione dei bambini che ci vivono. Più femminile, meno maschile.

Uno spirito edificante che fa la differenza. Pensiamoci.

p.s: mi fanno giustamente notare che il concetto di “controllo” è bruttino, che si dovrebbe parlare di condivisione e mutuo aiuto. Giusto. Pensiamo pure a questo.

diritti, esperienze Aprile 16, 2014

Mi permettete di chiamarla Love Boat?

La San Giorgio sarebbe tutt’altro. E’ una nave anfibia che ha una trentina d’anni e ha partecipato a missioni internazionali tra cui quelle in Somalia e in Kosovo. Il comandante Aldo Dolfini me la fa visitare con orgoglio: il ponte-volo con gli elicotteri, l’elevatore, il ponte-garage sotterraneo con i gommoni e la Gis, la chiatta con cui si recuperano i migranti alla deriva. Anche duecento per volta. Poi, una volta a bordo, un primo controllo sanitario: “Gli infettivi” dice “si vedono a vista”. L’ospedale sta lì sotto, i “reparti” divisi da tendoni di plastica. Aleggia ancora l’odore di disinfettante e di umanità stipata e stremata.

La chiamo Love Boat perché qui tutti i ragionamenti politici o ideologici sui flussi migratori, sull’opportunità o meno della Missione Mare Nostrum -che da ottobre, dopo la grande tragedia di Lampedusa, insieme ad altre unità della Marina Militare Italiana pattuglia il tratto di mare tra le coste libiche e quelle siciliane-, tutte le riflessioni sul fatto che la recente abolizione del reato di immigrazione clandestina possa avere incoraggiato la partenza dei barconi, tutto questo perde istantaneamente senso di fronte alla logica essenziale e infallibile dell’amore: ti trovi di fronte un essere umano in difficoltà, un uomo, una donna o un bambino che ha freddo, ha fame e rischia di affogare. E lo salvi. Fai tutto quello puoi per salvarlo, e stop. Ti levi i vestiti di dosso perché i suoi sono zuppi, ti togli il pane di bocca perché lui è affamato. E’ una legge antica, cosmologica. E non può essere violata.

Il comandante fa fatica a raccontare di quel bimbo eritreo che mentre veniva finalmente sbarcato ad Augusta agitava la manina per salutare tutti, con il suo giocattolo nell’altra mano. La commozione gli stringe ancora la gola. La gratitudine ti viene espressa battendo la mano sul cuore, o stringendoti forte la mano. “Non sono capace di raccontare” dice “l’espressione che gli si dipinge sul volto quando abbassiamo la rampa per sbarcarli, e la luce del sole inonda il ponte sotterraneo dove sono stipati. Si illuminano anche loro, perché capiscono che il peggio è passato. Il viaggio non è finito, ma le tappe più terribili sono alle spalle”. Alcuni, mi spiega, in viaggio da anni, sono passati da un mercante di uomini all’altro. La scorsa settimana Mare Nostrum ha portato in salvo 6769 migranti nel giro di tre giorni, gente imbarcata in Libia e in Egitto. Le buone condizioni del mare hanno favorito le partenze.

Mi affaccio da “poppetta”, dove vanno i marinai a fumarsi una sigaretta. Stiamo navigando nella zona di pattugliamento, 70 miglia a sud di Lampedusa e 90 miglia a nord delle coste libiche. Un branco di delfini affianca la nave e si esibisce nei suoi balzi festosi. Il mare è un po’ mosso, forza 2, e tira vento. Ci vorrà almeno un paio di giorni perché il tempo possa rimettersi al bello: difficile che prima di allora salpino altri barconi. Ma mai dire mai. L’equipe medica si allena nell’oscurità del ponte-garage –non so come facciano, con l’odore che c’è lì sotto… -: corsa, aerobica, addominali e stretching per tenersi in forma. Una nuova emergenza potrebbe capitare da un momento all’altro, e allora non ci sarà più giorno né notte, finché la situazione non sarà sotto controllo.

Partono in qualunque condizione: una donna è stata recuperata al nono mese di gravidanza, per fortuna tutto bene. Partono anche se non sanno nuotare: solo i siriani talvolta hanno il salvagente, tutti gli altri no. I l prezzo che pagano ai loro sfruttatori e agli scafisti, 3-5 mila euro o anche di più, non comprende questa dotazione.

AMARE GLI ALTRI, bambini, Politica Aprile 14, 2014

Missione Mare Nostrum. Per curare la violenza

Domani mi imbarcherò sulla nave San Giorgio che dall’ottobre scorso, dopo la tragedia dei migranti nelle acque di Lampedusa, insieme ad altre navi della Marina Militare pattuglia il Mediterraneo nell’ambito della missione “Mare Nostrum”, operazione militare e umanitaria con l’obiettivo di salvare i migranti in mare e di rafforzare la protezione della frontiera.

In pochi mesi i recuperi sono stati quasi 20 mila, con un aumento esponenziale degli arrivi negli ultimi giorni date le buone condizioni del mare: solo tra il 7 e l’8 aprile 1049 migranti salvati.

La Fondazione Francesca Rava, che lavora sull’infanzia in condizioni di disagio -come nel post-terremoto ad Haiti e in Emilia- è in prima linea come partner nelle operazioni di salvataggio e di assistenza sanitaria ai migranti, sempre più spesso donne e bambini e minori non accompagnati in fuga dalla guerra e dalla povertà. Un team di medici, ginecologi, ostetriche e pediatri volontari che che affianca il personale sanitario della Marina nelle operazioni di primo soccorso: “Una realtà straziante” racconta Andrea, uno dei medici “che la normale quotidianità delle nostre vite ci porta a volte a dimenticare. Qui su nave San Giorgio, nel limite delle nostre possibilità, si cerca di creare un piccolo cambiamento nei gesti e nei valori che fino ad ora questi uomini hanno incontrato durante il loro viaggio: mesi o anni di cattiveria, disagio, pestaggi, fame e sofferenze di ogni genere… qui si cura la violenza“.

Nei prossimi giorni sono previsti molti nuovi arrivi: connessione permettendo, cercherò di raccontarvi in presa diretta lo svolgersi della missione.

Non mancano le criticità. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha recentemente dichiarato che “l’emergenza si fa sempre più grave e che non c’è uno stop agli sbarchi. Non sappiamo fin quando l’Italia potrà reggere i costi della missione Mare Nostrum. L’Unione Europeaha concluso Alfanonon può girarsi dall’altra parte perché è difficile pensare che un Paese possa farcela da solo“.

Al più presto notizie da bordo. Stay tuned.

 

AMARE GLI ALTRI, esperienze, Politica Agosto 24, 2011

Gli invasori

Mi arriva la lettera accorata di una signora milanese, mia conoscente.

Proviamo a dialogare con lei, prendendo in seria considerazione le sue ragioni

 Cara Marina, mai come quest’anno -dopo 13 – passati in agosto a Milano

ho visto in giro tanti extracomunitari.
Praticamente quasi tutte le donne sono incinte e con
le mani impegnate con altri bambini piccoli o piccolissimi.  Non
voglio parlare degli zingari sarebbe troppo.   Altra cosa le bande di
ragazzi sudamericani. Tutti vestiti bene e tutti strafottenti.  Le
dico quanto sopra perchè chi non è qui non lo può proprio immaginare.
Non si tratta a Milano di accogliere ora si tratta di dire le parole
giuste: noi siamo letteralmente invasi.  Sinceramente non riesco a
immaginare quanto ancora potremo sopportare altra gente in arrivo.
Quanto sopra mi permetto di dirLe perchè visto che Lei è vicina al Suo
sindaco e all’Arch. Boeri potrebbe dir loro  di smetterla di occuparsi
di “quadri” e di “melanzane” e alla “moschea” di zona, ma di pensare a
quanti asili e scuole occorreranno nella nostra città per accogliere
tutti i prossimi nati. Senza contare la sicurezza per difenderci dalle
suddette bande.  Io sono nata a Milano e mi dispiace vedere la mia
città cambiare per i troppi assalti che ha ricevuto e che pare
riceverà. Non hanno rispetto di noi gli  extra ecco quale è la mia –
alla fine – ininfluente conclusione.  Mi scusi questo sfogo ma sono
tristissima  e l’anno prossimo spero di andarmene in vacanza in agosto
(crisi permettendo) così vivrò in beata ignoranza visiva.

Con affetto, E.

AMARE GLI ALTRI, Politica, Varie Maggio 10, 2009

ITALIA MONOETNICA

(foto Ansa)

(foto Ansa)

Il Presidente del Consiglio dice che non vuole un’Italia multietnica. Per la precisione dice “L’idea della sinistra era ed è quella di un’Italia multietnica. La nostra idea non è così” (probabilmente domani dirà che non l’ha detto affatto, che la stampa è tutta di sinistra e truffaldina, eccetera: un colpo al cerchio e uno alla botte, deve trattarsi di una precisa e fruttuosa strategia di marketing). Fa un po’ impressione sentire il Presidente del Consiglio parlare come uno skinhead, ma la cosa ha i suoi vantaggi. O dovrebbe averli. Per esempio, quello di chiarire una differenza inaggirabile tra destra e sinistra, contro ogni tentazione di omologazione. Ma come vedremo le cose non sono così semplici.

Si aprono tuttavia alcuni problemi:

1) l’Italia è già multietnica, lo è sempre stata e lo sarà sempre. Io sono multietnica e abbronzata, non come Mr Obama, ma quasi: dalla Germania all’Italia del Sud passando per gli Stati Uniti d’America. Come si fa a ripurificare l’etnia? e qual’è l’etnia italiana?

2) le divergenze con la Chiesa a questo riguardo sono assolute. La Chiesa ha preso posizione contro la non-accoglienza ai barconi di clandestini, e recentemente aveva anche tuonato contro certe leggerezze nella vita privata del premier.

3) come capita spesso, la risposta della sinistra è flebile e contraddittoria: anche qui, un colpo al cerchio e uno alla botte. Giovanna Melandri dice di volere un’Italia “multietnica, pluralista e libera”. Piero Fassino tempera dichiarando che anche “l’immigrazione legale (cioè non solo i clandestini, ndr) apre una contraddizione nuova: la parte più povera della popolazione italiana vede gli immigrati regolari come competitori… si rischia una guerra tra poveri che va disinnescata”. E allora, che cosa si fa?

Conviene che l’Italia multietnica ci piaccia, perché non è data la possibilità di un’altra Italia. Più ci piacerà, e meglio sapremo gestirne gli inevitabili problemi (situazioni a-problematiche non si danno), ottimizzandone le opportunità. Più ci piacerà, più la faremo piacere ai nostri figli, e meglio sapremo imporre, senza sconti e senza false coscienze, un rispetto di regole uguali per tutti, italiani “vecchi” e nuovi. Ma come si fa a dire un figlio che il nostro paese è multicolor, quando chi ci governa auspica il monocolore? Come si fa a scoraggiare l’intolleranza e a lavorare sulla fatica dell’altro, se le direttive istituzionali vanno in un’altra direzione?

AMARE GLI ALTRI, TEMPI MODERNI Febbraio 20, 2009

MALIKA and FRIENDS

Vista a Sanremo Malika Ayane, incantevole in duetto con Gino Paoli. Malika è figlia di un’italiana e di un marocchino e ha questa stupenda voce di confine, piena di echi e suggestioni, beneducata da studi al Conservatorio e alla Scala. Mentre cantava mi è sembrato di percepire le -e aperte di un certo slang milanese. Adoro quando mi capita di ascoltare, quasi sempre in metrò, ragazzi filippini, maghrebini o sudamericani (quelli dell’est europeo no, non siamo ancora alla seconda generazione) che parlano un perfetto italiano con accento della Bovisa o del Gratosoglio. L’integrazione mi rende felice, e questi ragazzi sono rivitalizzanti per la città. Per questo pubblico la foto qui sopra (mandata su Facebook dalla mia amica Paola Tavella: grazie!). L’integrazione va favorita in ogni modo. Prima sapremo far stare bene “loro”, e prima staremo meglio tutti.