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Gesù

Donne e Uomini Novembre 10, 2010

L’UOMO NUOVO

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Eccolo l’uomo nuovo. Ecco dove cercare nuovi modelli di virilità postpatriarcale.


Archivio Luglio 24, 2008

UN ESSERE UMANO

Mi scrive R. Rebeschini:

“Cara Marina, le confessero’ che, un po’ di tempo fa volevo scriverle, con un certo intento polemico, a proposito di infradito ed islamici, perché la cosa mi aveva un po’
infastidito ed avrei voluto farglielo presente.

Le avrei detto  che  si sarebbe certamente  dimenticata le   piccolezze di
una signora musulmana in metro’   se    si fosse dedicata alla lettura di Etty
Hillesum, che , in quel momento, riempiva le mie  ore libere.
Lo so , lo so che sarei stato insolente ma non glielo avevo scritto !

Ora vedo che lei cita la stessa Hillesum e, in verità, mi confonde un po’ le
idee, tuttavia, nel mio piccolo, ho già la soluzione che aggiusta tutto.
Di questi tempi tira una brutta aria e probabilmente, quel giorno, lei aveva
improvvidamente lasciato aperta una finestra. O sbaglio?”

Caro R., è che sono semplicemente un essere umano. Nè Gesù, nè la cara Etty, che è sovrumana, ma un essere umano.

Archivio Maggio 29, 2008

UNA PERSONA BUONA

Se proprio qualcuno mi costringesse a comporre il mio epitaffio, mi piacerebbe:“Qui riposa una persona buona”. Non lo sono abbastanza da meritarlo, di sicuro. Ho un impatto ambientale piuttosto aspro, e ci vuole uno sguardo amoroso e attento per cogliere quel poco di bontà di cui dispongo. Il fatto è che, come raccontavo a un’amica, da ragazzina mi entusiasmavo per una mente folgorante, per un’intelligenza fulminea, per il triplo salto mortale di un motto di spirito, tutte qualità sotto il segno di Mercurio che, intendiamoci, apprezzo ancora molto. Oggi però quello che mi colpisce, il modello a cui tendere è diventato un altro. Crescendo mi pare di aver capito questo: che il senso della nostra vita, per quel poco che ci è dato di intendere, ha a che vedere con il nutrirsi l’uno con l’altro, con il darsi del bene e da mangiare l’un l’altro (perché sia proprio questo, il senso della vita, io non lo so). Che il carisma misterioso di Gesù –sono un’ammiratrice di Gesù, a prescindere dal fatto di essere cristiana o meno- sta nel fatto di essersi dato lui stesso in pasto agli altri. Più di così non si può. Le persone migliori che ho conosciuto non sono le menti folgoranti, ma quelle che si danno al numero maggiore di altri, il cui generoso raggio si estende oltre i confini angusti del proprio io e annessi, familiari e amici, che sanno vedere anche l’altro più altro e lontano, o addirittura il nemico (“Ama il tuo nemico” è uno dei più scandalosi precetti evangelici) e dargli qualcosa di sé, nutrirlo con qualcosa di sé. La Chiesa li chiama santi, io da laica direi che sono gli individui superiori della nostra specie, quelli in cui l’umanità si esprime al meglio, i veri Superuomini (e Superdonne). Raramente si trovano fra i più ricchi, ma è anche possibile. Talora hanno anche cultura e una mente vivace, ma non è detto. Spesso sono anche antipatici. Con un po’ di pratica dello sguardo, questi angeli si impara a vederli.
E se mai riuscissi a conquistarmi l’epitaffio –non succederà- e qualcuno leggendolo pensasse che lì giace una cogliona, sinonimo corrente di buona, beh, pazienza. Ce ne faremo una ragione.
(pubblicato su “Io donna”- “Corriere della Sera”)

Archivio Giugno 2, 2007

PER FAVORE PAPA’, NON ADESSO

Mia nonna Luigina, seconda mamma di mio padre –la madre naturale era morta giovane, nel 1944, vittima del fuoco amico- rimase vedova presto. C’erano da tirare avanti casa e negozio. Al cimitero andava quando poteva. Erano le buone donne –sono sempre le pie donne a portare informazioni dai sepolcri- a darle quasi ogni giorno notizie fresche sul marito defunto: “Sciora Lüisina, incoeu el sciur Iginio l’era propii bèl”, oggi il signor Iginio era proprio bello. O invece: “Incoeu l’ho vist brüt, inrabìi… ghe faga dì messa”, oggi l’ho visto brutto, arrabbiato, gli faccia dire messa.
La foto di ceramica sulla tomba, colori pastello alquanto Warhol –occhi azzurro stoviglia, capelli giallini, la sola immagine che mi è rimasta di quell’avo mezzo tedesco-, ha sempre offerto puntuali informazioni sul grado di elevazione di mio nonno nell’aldilà. Non è che si continua a salire dritti verso la Grande Luce, a quanto pare, scontando via via qual che c’è da scontare con l’aiuto di una messa e di una prece dei vivi. Si può anche perdere qualche posizione e tornare indietro: si pecca ancora, dunque, e quindi si paga anche di là? o la retromarcia dipende da qualche imperscrutabile bizza di Dio, che oggi ti chiama nel suo abbraccio e domani non ti degna nemmeno, e allora tu dimenticato scivoli indietro, come su una rampa insaponata, sacramentando perché perdi quel poco vantaggio acquisito (e la tua foto si incazza insieme a te)? C’è dunque un tempo, anche di là, e uno spazio, presumibilmente tutto in salita, con i quali ti tocca lottare?
Quanto a mio padre Gianni, figlio del sciur Iginio, le prime volte che andavo a trovarlo al cimitero mi ero fatta l’idea che scodinzolasse dentro al loculo. Io che gli parlavo, gli dicevo tutto il mio strazio, gli raccontavo qualche storia di casa, gli chiedevo un consiglio, bisbigliando con le labbra sul freddo del marmo, carezzando con il dito indice la sua fotografia: foto che, ahimé, non dava alcuna informazione sul suo stato del momento, ma solo sul giorno di festa in cui gli fu scattata, compresa quella cravatta orribile. E lui, ne ero certissima, che lì dentro dov’era chiuso scodinzolava di felicità o di disappunto o di rabbia, e aguzzando bene le orecchie potevo anche sentire il toc-toc della coda sullo zinco, come un assurdo codice Morse. La morte quindi come regressione nella line filogenetica, un abbassamento di grado evolutivo. Ma pur sempre una forma di vita. Al fatto che fosse diventato un cane, specie da lui e da me molto amata, potevo anche rassegnarmi. Ma che si fosse trasformato in una cosa immota e destinata a rapido disfacimento, lui, mio padre, quell’uomo mite e dallo spirito surreale, allegro come tutti quelli che avevano compiuto diciott’anni nel primo dopoguerra, segnato da quell’esplosione di gioia come da un imprinting indelebile, che mio padre dopo aver passato indenne tutto questo fosse poi stato beffato in via definitiva, questo no, questo non poteva essere. L’aldilà era la gabbia di un canile, niente meno di questo.
Parlo di mio padre perché il mio morto è lui, su di lui ho studiato la questione dell’aldiquà e dell’aldilà, e posso spiegarvi tutto per bene. Anzitutto non si muore di colpo. E’ andata così, che io stavo guidando la macchina, una Dedra blu, e lui mi stava seduto a fianco, dalle parti di piazza Durante a Milano, e a un certo punto ha fatto un piccolo singhiozzo, come uno starnuto trattenuto o abortito, io mi sono voltata verso di lui e lui stava compostamente seduto con la fronte imperlata di sudore e gli occhi aperti, ma non gli avevo mai visto occhi tanto immensi, e allora gli ho detto semplicemente: “Per favore, papà, non morire. Non adesso”, e nel contempo ho sterzato finendo con il muso della macchina quasi dentro la vetrina di una gelateria, e la padrona è uscita dicendomene di tutti i colori. Ma poi lei e gli avventori hanno capito, hanno mollato il gelato a sciogliersi sui tavolini –erano le sette di sera di un indimenticabile 23 giugno- e sono saltati addosso a mio padre dandogli colpi furiosi in mezzo al petto mentre io stavo lì in piedi senza scompormi nel mio tubino di piquet bianco. Quello che sentivo e gli altri non potevano vedere era la forza di un vortice che se lo stava portando via, come certe trombe d’aria che si vedono in Versilia, un tunnel d’amore più forte del mio che lo stava risucchiando, sua madre ammantata d’azzurro che per quel solstizio del 1994 aveva ottenuto di riaverlo dentro di sé e mi ringhiava contro: “Lasel sta’, adès, che l’è el mè”, lascialo stare, adesso, che è mio.
Vista così in effetti potrebbe sembrare una morte improvvisa, infarto, la morte degli eletti, uno starnuto abortito e via. E invece al San Raffaele, dove non avevano potuto fare altro che costatare il decesso, dove due infermieri energumeni pronti con l’iniezione di sedativo mi avevano preso uno da una parte e l’altro dall’altra, quasi sollevandomi da terra, e mi avevano detto precisamente: “E’ arrivato già morto in ospedale”; al San Raffaele, in quella stanzetta del pronto soccorso dove l’avevano appoggiato, con gli occhi chiusi, adesso, ma la bocca aperta, e così per la prima volta avevo potuto osservare con attenzione il lavoro del dentista nella amata bocca di mio padre, in quella stanzetta mia zia Giannina sua sorella, una che non si è mai emancipata e quindi su certe cose la sa ancora lunga, mi ha detto di parlare piano davanti a lui e di non farmi capire, perché “loro sentono”. Gli abbiamo tolto l’orologio, la catenina con l’angelo e la vera di nozze, ma piano, facendo in modo che non se ne accorgesse. Devo perciò dire a tutti: calma con le autopsie o certi trattamenti troppo energici subito dopo morti, perché appena morti si è solo mezzi-morti, e dunque mezzi-vivi, le cellule continuano imperterrite a fare il loro lavoro, il sonno è appena più profondo del solito, e se è vero che anche le neuroscienze più disinibite cominciano a sospettare che non vi sia una perfetta coincidenza tra ciò che chiamiamo coscienza e la mera attività cerebrale, può essere che qualche barlume ci sia ancora, che per qualche ora o per qualche giorno si sosti incerti in un luogo da cui ti è anche concesso di tornare per sistemare almeno alcune delle cose rimaste in sospeso, per passare le consegne, per un’ultima carezza o una vendettina in exitu. Del resto natura non facit saltum, e non si vede per quale ragione dovrebbe saltare proprio in quel momento estremo, smentendosi clamorosamente e interrompendo quel continuum che è la vita, di cui la morte è solo un episodio traumatico e seccante.
Ho le prove di quel che dico perché due o tre giorni dopo il decesso, quando il ghiaccio del mio rifiuto aveva cominciato a sciogliersi in un pianto senza sosta, lacrime giorno e notte, un lavacro ininterrotto anche durante il sonno, bestemmiando contro la stolida gioia delle rondini che garrivano in quei tramonti senza ritorno, gridando come una pazza isterica contro l’inconsulta vitalità delle formiche che avevano invaso la mia cucina, loro così inutilmente vive mentre quasi tutto quello che contava per me era morto, andando in pellegrinaggio a cercare qualche segno di mio padre davanti alla gelateria dove il maledetto mi aveva abbandonato, un pianto che mi fluiva anche tra le gambe, facendomi sanguinare fuori periodo, ecco, in una di queste notti mio padre si è venuto a sedere in fondo al mio letto, con un’aria piuttosto seccata. E in milanese, lingua della sua origine e quindi all’origine di tutto il suo mondo e della parte più autentica del mio, mi aveva invitato a smetterla, normativo come non lo era mai stato, dicendomi precisamente: “Marina, cerca di piantarla lì (cerca de mucàla). Io sto bene, e tu non mi lasci in pace. Sei solo tu a trattenermi qui (che te me tegnet chì) ”. Non aveva l’aria di uno che doveva andare, ma piuttosto di uno che voleva andare. Come se le cose che ora aveva da fare lì fossero più importanti dello stare qui a perdere altro tempo ad amare me. Mi spiace solo di non essere stata abbastanza pronta e di non avergli chiesto: “Dove sei, adesso? e che cos’hai da fare?”. Ma sono assolutamente certa di quello che dico: ci deve essere qualcosa da fare, nell’aldilà, che è più importante perfino delle cose più importanti dell’aldiquà. C’è qualcuno o qualcosa da amare, di là, che è più importante degli amori più grandi che si sono avuti qui. Se no, vi assicuro, mio padre non si sarebbe mai comportato così, perché io ero il suo sole e le sue stelle, e lui aveva una natura profondamente amorosa.
Dunque a un certo punto è proprio andato del tutto. Qualche altra cosetta di qui l’ha fatta, tipo far odorare di rose dei semplici gerani, come testimoniato dai suoi vicini di casa, o tenere lo sterzo al mio posto un paio di volte, o farsi una passeggiatina dalle parti del convento antico dove sua madre l’aveva partorito il 7 settembre del 1928, un maschio roseo di oltre quattro chili. Ma nient’altro che questo. Non scodinzola nemmeno più, quando vado al cimitero. E’ andato, e io non so dove. Forse la faccenda non può neppure essere messa in questi termini, nei termini di dove o quando, voglio dire: miseri presidi, lo spazio e il tempo, per la nostra fragile mente terrena, che perdono la loro utilità quando ci si sgancia di qui, e allora tutto è lampante, e non c’è più bisogno di invenzioni e mediazioni di questo genere.
Un’altra cosa di cui sono convinta è che una mano verrà a darmela, quando si tratterà di andare anche per me. Verrà lui, con sua madre, e saranno sorridenti. Cercheranno di mitigare la paura, paura che non ha risparmiato nemmeno il Figlio in croce che pure sapeva tutto, più di qualunque altro essere incarnato. Sarà loro consentito per un attimo ancora, il mio attimo, di avere a che fare con lo spazio e con il tempo degli uomini, perché il piccolo amore umano, quando è vero, può essere talmente grande da muovere a compassione perfino il nostro Padre Misericordioso, che consentirà questa piccola eccezione. Mi verranno incontro e mi mostreranno nell’aldilà quella che nell’aldiquà chiameremmo “la strada”. Poi il fiume della vita mi travolgerà e io mi scioglierò nel suo flusso, finalmente de-individuata. Dal mio corpo spero nasca tenera erba, o microplancton, o spero almeno che mio figlio sniffi affettuosamente le mie ceneri, come Keith Richards avrebbe fatto con suo padre (“Scordatelo”, mi dice lui). E’il massimo di resurrezione della carne che riuscirei a tollerare. Un vortice di luce, di amore, di vita, finalmente tolta all’accidente del fenomeno che sono stata: dunque, se Dio vuole, immersa in ciò che siamo soliti chiamare Dio. Una beatitudine che nell’aldiquà ci è dato di sperimentare solo nel desiderio d’amore, al cospetto di amore, quando la vita prende a correre veementemente da sola, senza più incertezze, perché è solo in quei momenti che ci pare di avere la certezza di tutto. Ma com’è pallida, com’è fioca la luce dell’amore terreno a fronte della Luce vera! Era questo che mio padre voleva dirmi, seduto ai piedi del mio letto? Perché cerchi ancora di trattenermi con il flebile lumino del tuo amore, quando è in quella fiamma che io voglio andare ad ardere?
Per entrare in quella Luce, in quel fuoco, in quell’essere, non solo io, non solo mio padre, non solo noi e voi dovremo gioiosamente abbandonare il nostro essere individuato, ma perfino Dio dovrà rinunciare a se stesso e al suo nome. Non lo dico io, lo dice in una delle sue prediche nientemeno che Maestro Eckhart, magister della Sorbona nel XIII secolo: se Dio vuole entrare lì, dove tutto è nient’altro che amore, “ciò gli costa tutti i suoi nomi divini e le sue proprietà personali: tutto questo egli deve lasciare fuori, se vuol gettarvi uno sguardo… Egli non è qui né come Padre, né come Figlio, né come Spirito, ma come qualcosa che non è questo né quello”. L’amore alla fine inghiotte tutto, perfino Dio, che si rivela una categoria umana non diversa da spazio e tempo.
Se nella vita si è avuta molta fede forse si può arrivare a intuirlo, anche senza aver frequentato le vertigini della mistica. Mia nonna, per esempio, la sciora Lüisina di cui dicevo all’inizio: è sempre stata una donna di Chiesa, una moderna beghina, direi. Non ce l’avrebbe mai fatta a vivere una vita tanto dura da sola, senza Dio e senza Gesù in special modo, che lei ha amato più di tutto. Ogni giorno è andata alla Messa e ha preso la Comunione, finché le gambe l’hanno retta. Ha quasi cento anni, ormai, e non si alza più dalla poltrona, mangia più pillole che pastina, sonnecchia tutto il giorno e strilla la notte. Cavallerescamente, quando può, il parroco le invia un delegato per farle prendere l’eucarestia. Un giorno di questi, il delegato le avvicina alla bocca l’ostia consacrata: “… il corpo di Cristo”. E lei: “Ch’el vaga al diaoul”, che vada al diavolo, facendo trasalire i presenti. “Ma cosa dici, mamma!”, l’ha sgridata sua figlia. E’ rincoglionita, povera donna, hanno pensato tutti. Ma non si rincoglionisce in modo del tutto casuale. “Nonna”, le domando, “perché ce l’hai con Gesù? Gli hai sempre voluto tanto bene…”. “Senza Gesù”, dice lei, “io non sarei neanche qui”. “E invece adesso”, le dico. “ti sei convinta di poter stare senza?”. Lei sorride, mastica aria e fa spallucce, come a dire: che cosa vuoi capire, tu? E’ Gesù che può stare senza se stesso e andarsene al diavolo: voleva forse dire questo, come Maestro Eckhart? Che perfino Gesù, sul baratro della grande luce che lei comincia a intravedere e ardentemente a desiderare, mescolata ai suoi ricordi più remoti di bambina che gioca a rincorrere le oche, che perfino quel ragazzo morto così giovane non serve più a niente, e dovrà rassegnarsi ad andare al diavolo, a fare a meno di se stesso, a gettarsi a capofitto nell’Essere, rinunciando al suo dolce sembiante umano di Nazareno?
(pubblicato da “Il Foglio” e nel libro “Appunti per il dopo”)